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L’ordine pubblico come tutela dell’ordine politico L’emergenza repressiva

2. La prima organizzazione dell’ufficio (1378-1382).

2.2 Episodi di ribellione.

Il regime delle Arti minori è stato, forse, il regime politico che, nella storia della Repubblica fiorentina, ha dovuto fronteggiare il maggior numero di cospirazioni volte a sovvertirlo. Si capisce, allora, perché tanto impegno venisse profuso nella difesa dell’ordine pubblico inteso, sempre, come ordine politico nel suo insieme. In fondo, la stessa creazione degli Otto di Guardia come organo di polizia politica va letta alla luce delle trame cospirative che, mese dopo mese, rischiavano di far perdere agli artigiani minori un prestigio e un potere così faticosamente raggiunti.

Nei primi anni del regime, gli attacchi giunsero soprattutto da quei Ciompi che, sopravvissuti al sanguinoso agguato teso loro la notte del 31 agosto 1378 nonché ai processi sommari imbastiti nei giorni seguenti, presero la via dell’esilio83. Non bisogna poi dimenticare che, il 1º settembre, la loro Arte era stata soppressa, diventando così

81 ASF, PR, 68, c. 277, on-line su www.archiviodistato.firenze.it/archividigitali/complesso-archivistico. 82 Ivi, c. 204: «Quod in perpetuum in civitate Florentie vigere et esse debeat officium Octo custodie». 83 I registri criminali, soprattutto quelli del Capitano del Popolo, conservati presso l’ASF contengono i dati di numerosi processi contro operai tessili e artigiani che avevano partecipato a cospirazioni. Cfr., per una loro contestualizzazione, BRUCKER, Dal Comune alla Signoria, cit., pp. 102-108, 120-123.

44 fuorilegge. Il retroterra che sottostà ai numerosi piani per rovesciare lo status quo è, tuttavia, molto più complicato di quanto si possa immaginare. Infatti, dai loro esili nelle aree limitrofe – soprattutto Siena, Pisa, Lucca, Bologna –, i Ciompi mantennero contatti con i pochi compagni rimasti a Firenze. In più, delusi dall’atteggiamento degli artigiani minori – che, di fatto, estromettendoli dal governo li avevano traditi – i salariati pensarono bene di intessere alleanze con gli aristocratici fiorentini – gli arciguelfi – che li avevano preceduti sulla via dell’esilio. Questi ultimi erano, chiaramente, i più pericolosi oppositori del regime, perché possedevano le risorse e i mezzi necessari a finanziare la sovversione, sia comprando il sostegno di gente di dentro, sia assoldando truppe di mercenari pronte ad attaccare la città dall’esterno e farla capitolare.

Fra i molteplici episodi di ribellione che più di altri destarono preoccupazione presso le autorità politiche ne richiamiamo due particolarmente controversi, sui quali ebbe modo di pronunciarsi persino Baldo degli Ubaldi, interrogandosi se quegli attentati all’ordo civitatis integrassero o non il terribile crimen laesae maiestatis84.

Nell’ottobre 1379 fu organizzato un complotto dagli ambasciatori di Firenze – fra loro il giurista e uomo politico Donato Barbadori – presso il principe angioino ed erede al trono d’Ungheria Carlo di Durazzo, il quale era sceso in Italia durante la guerra di Chioggia (1378-1381), accampandosi fuori Treviso. Lì, ad appena centoquaranta miglia da casa, una banda di esuli tentò di rovesciare il regime delle Arti minori con la forza85.

Secondo la condanna emessa dal Capitano del Popolo, Benedetto di Simone Peruzzi si incontrò con Giannozzo Sacchetti presso l’accampamento trevigiano, esponendogli il piano, che avrebbe richiesto più di quattrocento lancieri a cavallo, e

84 Ci riferiamo a due consilia formulati dal grande giurista perugino, mentre insegnava presso lo Studium fiorentino, in occasione di altrettante cospirazioni verificatesi fra il 1379 e il 1380, sui quali cfr. R. FREDONA, Baldus de Ubaldis on Conspiracy and Laesa Maiestas in late Trecento Florence, in The Politics of Law in late Medieval and Renaissance Italy, cit., pp. 141-160. Nel presente paragrafo ci limitiamo ad una sintetica esposizione dei fatti rinviando il discorso sul ragionamento giuridico di Baldo inerente a quei fatti al Capitolo II, quando andremo ad esaminare l’emersione di profili egemonici del penale negli Statuti di Firenze del 1409-1415.

85 Sull’episodio e, in particolare, sulla figura del Barbadori, cfr. F. GUICCIARDINI, Cose fiorentine, a cura di L. Ridolfi, Firenze, Olschki, 1983, pp. 76-81; riferimento al consilium di Baldo a p. 79.

45 dicendogli: «per certo tu vedrai chelli usciti di fiorença […] et reaveranno lo stato e seranno magiori en fiorença che mai fossoro»86.

Incaricato di raccogliere duecento fiorini per finanziare l’impresa e ricevute alcune lettere – ufficialmente ritenute false – in cui Carlo dava il suo supporto alla causa degli esiliati guelfi, Giannozzo fece ritorno a Firenze dove fu arrestato e fatto decapitare dal Capitano, non prima però di aver rivelato i nomi degli altri cospiratori, compresi Benedetto Peruzzi e Piero Canigiani. Il governo fiorentino sapeva da tempo che il canonista Lapo di Castiglionchio87, forse il principale avversario del governo popolare, ed il suo alleato Benedetto Peruzzi stavano complottando nei pressi di Padova insieme con altri esuli guelfi, e temeva una loro alleanza con Carlo. La trama del complotto, tuttavia, emerse con chiarezza solo nel mese di dicembre.

Il 10 dicembre il Capitano di Custodia Giovanni Acuto informò i Priori di una cospirazione che era «sì grande che grandissima novità genererebbe»88. In cambio di una lauta somma Acuto svelò i dettagli della cospirazione: esuli guelfi si erano riuniti vicino Bologna, dove si erano armati per riprendere Firenze con l’aiuto di una forza militare comandata dal siniscalco di Carlo di Durazzo, Giannotto da Salerno. Alcuni giorni dopo fu recapitata ai Priori una lettera del conte Antonio di Monte Bruscoli, nella quale si riferiva che il complotto sarebbe stato messo in atto la notte del 19 dicembre89. Gli Otto di Guardia furono immediatamente inviati assieme con i famigli dei Rettori in città e nel contado allo scopo di scovare e arrestare i presunti cospiratori.

Dopo la cattura, tuttavia, fu subito chiaro che né il Capitano né l’Esecutore erano intenzionati a condannarli. Per richiamarli ai loro doveri d’ufficio, i governanti convocarono una pratica all’esito della quale gli artigiani pretesero la condanna a morte

86 GUICCIARDINI, Cose fiorentine, cit., p. 145, n. 15; la sentenza è in ASF, Atti del Capitano del Popolo (d’ora in avanti ACP), 1198, c. 103v.

87 Sulla partecipazione del giurista Lapo di Castiglionchio agli accadimenti politici di quegli anni, cfr. i contributi di F. RICCIARDELLI, L. TANZINI, V. MAZZONI, F. KLEIN in Antica possessione con belli costumi. Due giornate di studio su Lapo di Castiglionchio il Vecchio, a cura di F. Sznura, Firenze, Aska Edizioni, 2005, pp. 46-120, 143-156.

88 M. DI COPPO STEFANI, Cronaca fiorentina, cit., 828, p. 353. 89 Ivi, 829, pp. 353-354.

46 dei cospiratori. Quando il Capitano rifiutò ancora una volta di acconsentire all’esecuzione90, gli astanti minacciarono di ucciderlo.

Poco tempo dopo, più di una dozzina di uomini implicati nella cospirazione erano stati decapitati; fra loro pure quel Donato Barbadori che «fu al Comune per addietro leale ed ardito, ed in ogni ambasciata per lo Comune andava ne’ grandi fatti a grandi signori e tiranni; infra gli altri gran fatti egli andò a difendere il processo formato contra il Comune per lo papa Ghirigoro XI ed altamente e francamente sempre parlò, e sapea ch’era male del Papa»91.

L’altro complotto – sul quale si pronunciò Baldo – ebbe luogo meno di un anno dopo la repressione della cospirazione del dicembre 1379. Il 15 settembre 1380, messer Giovanni di Mone, ambasciatore della Repubblica fiorentina, fu assassinato ad Arezzo. Commerciante di grano che più di una volta aveva ricoperto cariche pubbliche come Priore o come Gonfaloniere, Giovanni aveva, fra l’altro, fatto parte della Balìa degli Otto Santi al tempo della guerra contro il Papa, poi era stato fatto cavaliere dai Ciompi nel 1378, e in quel momento stava servendo il successivo e fragile governo degli artigiani minori.

Quando la notizia della sua morte raggiunse Firenze, essa fu avvertita come «la più sconcia cosa mai fosse fatta, perocchè mai non fu più morto ambasciadori per Fiorentini»92. Fra gli assassini del diplomatico, c’era Tommasino da Panzano, il quale era giunto in Arezzo il giorno prima al seguito di Carlo di Durazzo, che era stato ricevuto con ogni onore reale dagli Aretini mentre in una pratica fiorentina dello stesso giorno veniva indicato come nemico pubblico e nemico del regime93.

Insieme con i sicari, Carlo aveva messo in piedi un piccolo esercito che comprendeva centinaia di soldati equestri e una brigata di più di cinquanta esuli e cospiratori fiorentini, capeggiati da Lapo di Castiglionchio, molti dei quali già coinvolti

90 M. DI COPPO STEFANI, Cronaca fiorentina, 833, p. 357: «Lo Capitano gli avea la notte collati, e nulla aveano confessato; di che il Capitano si scusava, e dicea a coloro, ch’erano alla guardia de i soldati, ed alla sua e de’ prigioni: “Andate, e fategli morire voi, che se io non gli troverò colpevoli, io no ‘l farò». 91 Ivi, 836, p. 359.

92 Ivi, 870, p. 379.

93 ASF, CP, 19, c. 59v: «quod Dominus Karolus est inimicus istius status» ; c. 60r: «quod Dominus Karolus est hostis publicus».

47 nella cospirazione tesa a rovesciare il governo nove mesi prima. In una riunione del 15 settembre Francesco Cambi, un fervente sostenitore del regime, chiese ai Priori di provvedere con ogni mezzo a che l’assassinio di Giovanni di Mone fosse punito e la sua memoria onorata94. Con tono severo i Priori qualificarono l’assassinio dell’ambasciatore «una nefanda scelleratezza e un abominevole delitto» e gli assassini dei «figli di Satana»95 meritevoli di morire. In più, il governo stabilì che se Tommasino non fosse morto entro un anno, i suoi parenti maschi sarebbero stati condannati come ribelli del Comune.

Temendo di arrivare alla guerra con Carlo, i Fiorentini si impegnarono a pagare quarantamila fiorini per un accordo di pace in base al quale Carlo avrebbe smesso di dare rifugio agli esuli fiorentini e di interferire con Firenze e le sue comunità soggette. Nelle parole dell’accordo di pace Carlo, da nemico pubblico, diventava, come furono i suoi avi, protettore e benefattore della città di Firenze. L’assassinio del diplomatico fu, finalmente, vendicato96 il 20 gennaio 1381 quando Giovanni di messer Luca da Panzano uccise suo cugino, l’assassino Tommasino, in una locanda di Siena. Due mesi più tardi, i Priori e gli Otto di Guardia elogiarono e ricompensarono Giovanni per il suo gesto, spiegando che, con l’uccisione dell’ambasciatore, Tommasino era diventato un ribelle del Comune e, come tale, poteva essere ucciso impunemente da qualunque cittadino di Firenze97.

Il grande dispendio di energie investito nella repressione di questi e di tanti altri episodi di ribellione rivela come, sul finire del 1381, il regime delle Arti minori fosse ormai nelle mani di personaggi influenti e caparbi, quali Tommaso Strozzi e Giorgio Scali. Costoro, sostituendosi ai moderati – tra cui, Benedetto Alberti, Uguccione de’ Ricci, Filippo Bastari – erano tanto determinati a scoprire le prove di attività sovversive

94 ASF, CP, 19, c. 63v: «quod Domini provideant per omnem modum quod occisio Domini Johannis Monis puniatur et honoretur sua memoria».

95 ASF, PR, 69, cc. 131v-133r.

96 Cfr. ZORZI, «Fracta est civitas magna in tres partes», cit., p. 82: «Il termine “vindicta” indicava sia l’atto di ritorsione sia l’azione punitiva pubblica da parte delle autorità comunali. La duplicità semantica è esplicita, per esempio, nei corpi normativi più antichi (Pisa 1162, Pistoia 1180, etc.) nella trattastica podestarile o nella cronachistica cittadina. La justitia era, in primo luogo, un facere vindictam: le pratiche vendicatrici appartenevano pertanto alla sfera della giustizia, ne erano costitutive. Andrebbe dunque rovesciata l’interpretazione di senso comune che vuole la giustizia “pubblica” affermarsi teleologicamente sulla vendetta “privata”: appare semmai la logica della vendetta a dare forma alla giustizia penale». 97 ASF, PR, 69, cc. 256r-257v; sul margine sinistro si trova annotato l’oggetto della provvisione: «Octo Balie et custodie Civitatis Florentie in favorem Johannis domini Luce de Panzano».

48 che «avevano molti cani, cioè ispioni che sempre erano per Firenze o per pigliare o per ispiare di dì e di notte. Qui non si poteva né convitare persona né usare punto, che tu eri abominato agli Otto»98. Qualche mese ancora e il regime sarebbe caduto senza più rialzarsi99.