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Strategie penali a «conservatione et augumento» del Dominio territoriale

2. Controllare il territorio per Statuti: le rubriche penali degli Statuti delle comunità soggette.

Un’ampia parte del governo giustiziale del Dominio si esplicava anche a livello di legislazione statutaria. In questa prospettiva va letta la tendenza di Firenze a far valere in tutto il Dominio i suoi Statuti, specialmente nelle materie afferenti alla sicurezza della

civitas-respublica e delle aree assoggettate.

Lo dimostra, ad esempio, la rubrica De officio, et potestate capitanei civitatis

Pisarum degli Statuti del 1415, che esclude la materia dei crimini politici dalla sfera

giurisdizionale del capitano di Pisa così come regolata dai testi statutari locali74. Un esempio analogo è offerto dalla rubrica sul capitano di Arezzo75. Lo dimostra un certo

71 ASF, OG, 10, cc. 53r, 69r, 72v. 72 Ivi, c. 76v.

73 Cfr. MARTINES, Lawyers and Statecraft in Renaissance Florence, cit., p. 227, nota n. 30: «A century later, the Eight operated freely in the territory, entered into criminal proceedings of all kinds, and bombarded territorial governors with executive orders». Esempi significativi per questo periodo più tardo in ASF, OG, 115, settembre-dicembre 1499.

74 Statuti di Firenze del 1415, V, IV, rubrica 1, vol. III, pp. 516-518, dell’edizione a stampa: «Et quod habeat dictus capitaneus merum, et mixtum imperium, et gladii potestatem, et procedat, et condemnet secundum ordinamenta communis Pisarum, salvo quod pro turbatione status, vel pro faciendo contra honorem communis Florentiae».

75 Ivi, rubrica 19 De officio, et potestate, et iurisdictione capitanei civitatis Aretii, pp. 533-537: «Et quod d. capitaneus habeat, et habere intelligatur iurisdictionem, cognitionem, decisionem, et executionem, et merum et mixtum imperium in causis criminalibus, et excessibus ac malefitiis in d. civitate Aretii, et eius comitatu salvis, et exceptis ad hoc de comitatu locis, de quibus, et ut infra specifice dicetur, et procedeat, et cognoscat, et decidat ex exequatur secundum ordinamenta civitatis Aretii, quae approbata fuerint per commune Florentiae, et seu etiam secundum ordinamenta, quae per ipsum commune Florentiae quandocumque facta fuerint hoc tamen addito, disposito, et ordinato quod quamlibet turbantem, seu turbare,

166 atteggiamento dei giuristi quando, interrogati sulla spinosa questione del riparto di giurisdizione fra centro e periferia in materia di confino, erano soliti sciogliere i più intricati nodi interpretativi allegando questo passo del Digesto:

i governatori della provincia possono relegare in un’isola, sempre che abbiano sotto la loro giurisdizione un’isola e quell’isola formi parte integrante del territorio che loro amministrano; in caso contrario, dovranno scrivere all’imperatore che provvederà, lui, ad assegnare al reo l’isola di confino. D’altro canto, i governatori non possono condannare nessuno alla relegazione in un’isola che non risulta ricompresa nel territorio della provincia che amministrano76.

In questa maniera i giuristi sembrano giustificare, in punto di diritto, il programma politico di accentrare a Firenze materie penali così delicate come, appunto, quella del confino, perché strettamente connesse alla logica di preservazione del potere, della

respublica e dello stesso Dominio. Per questa ragione i doctores intravedevano nelle

magistrature di vertice della Repubblica fiorentina il principe della gloriosa Roma imperiale, unico soggetto titolato ad autorizzare, quale massimo dispensatore di giustizia nel suo territorio, il confino dei disobbedienti. Più che mai in consilia del genere è possibile apprezzare i vividi intrecci fra costruzione della legittimità politica di un centro di potere sulle estreme realtà periferiche e il ruolo di risorsa rivestito dalla giustizia e dal diritto penale77.

Firenze lasciava scarso margine di autonomia agli ufficiali estrinseci anche in presenza di atti o comportamenti criminali non necessariamente politici ma comunque gravi e altrettanto idonei a mettere in discussione il suo ruolo, ancora fragile, di città dominante. Già si è visto come il podestà di San Gimignano poteva anche arrivare a pronunciare ed eseguire sentenze che prevedessero il taglio di membra o la morte, però

aut subvertere attentantem, vel quaerentem pacificum statum civitatis, aut d. comitatus Aretii, et seu in ipsa civitate, vel comitatu, signoriam, vel praeminentiam, iurisdictionem, vel dominium communis Florentiae». 76 D. 48.22.7: «in insulam relegare praesides provinciae possunt, sic tamen, ut, si quidem insulam sub se habeant (id est ad eius provinciae formam pertinentem, quam administrant) […] sin vero non habeant […] scribant autem imperatori, ut ipse insulam adsignet. Ceterum non possunt damnare in eam insulam, quam in ea provincia cui praesunt non habeant». Il passo si trova allegato, assieme a delle rubriche statutarie, ad esempio, in ASF, Pareri di Savi, 3, cc. 61r-68r, 432r-443v.

77 Nel 1411 il capitano di Pisa aveva condannato tale Paolo di ser Gaddo da Cascina, ma la sentenza era poi, alla fine, stata annullata dal Podestà di Firenze. Lo stesso era accaduto nel 1414 quando la condanna al confino pronunciata dal vicario di Anghiari nei confronti di un certo Biagino di Goro per un crimine politico era stata cancellata dal Podestà fiorentino. Questi ed altri esempi in TANZINI, Costruire e controllare il territorio. Banditi e repressione penale nello Stato fiorentino del Trecento, cit., pp. 27-29.

167 solamente in caso di flagranza e contro coloro che non fossero della città, contado e distretto di Firenze. Ben diverso il caso e, di conseguenza, la procedura da seguire, qualora a subire il maleficio fosse stato un cittadino della Repubblica fiorentina. In una circostanza del genere, infatti, la cognizione della causa non era più del podestà locale, bensì del Podestà di Firenze o degli altri Rettori forestieri78. Similmente, a riprova del supposto accentramento, gli Statuti riconoscono al podestà di Prato «cognitionem et punitionem» di ferite con effusione di sangue inferte con ferri di qualunque genere. La sanzione poteva comportare, oltre eventualmente al taglio di membra, il pagamento di una multa. Il mancato versamento della somma da parte del reo allo scadere di dieci giorni dall’avvenuta condanna faceva scattare una particolare conseguenza nel senso che il reo non solo veniva condannato all’amputazione della mano destra (o sinistra se l’altra era già monca), ma veniva addirittura messo al bando. E, di nuovo, l’affare doveva essere trattato a Firenze, forse perché a quel punto il reo, da bandito, poteva rappresentare una seria minaccia per la sicurezza della Repubblica e del suo Dominio79.

78 Statuti di Firenze del 1415, V, IV, rubrica 39, vol. III, p. 576, dell’edizione a stampa: «in omnibus, et pro omnibus, et singulis criminalibus, maleficiis, excessibus, et delictis, quae commissa essent, seu committerentur in dicta terra s. Giminiani, seu eius curia, territorio, vel districtu per aliquam quamcumque personam contra, et adversus aliquem de civitate, comitatu, seu districtu, qui non essent de dicta terra s. Giminiani, vel eius curia, vel territorio, vel districtu, cognitio, et punitio sit solum potestatis civitatis Florentiae, et aliorum rectorum civitatis praedictae, qui pro tempore fuerint secundum formam statutorum civitatis eiusdem».

79 Ivi, rubrica 47, p. 603: «intelligatur esse, et sit condemnatus, et exbannitus communis Florentiae in amputationem manus dexterae, et ea deficiente, sinistrae, et perinde ac legitime condemnatus, et exbannitus pro ipso malefitio esset per rectores communis Florentiae pro d. maleficio in amputationem praedictam, et descripti, et registrati inter alios exbannitos, et condemnatos communis Florentiae pro maleficio in libris, et registris exbannitorum communis praedicti in camera d. communis […] quod potestas Prati, qui talem malefactorem sic personaliter puniendum haberet in sua fortia, teneatur, et debeat mittere sub fida custodia detentum, et repraesentare potestati civitatis Florentiae puniendum».

168 E soprattutto, la volontà della Dominante è ferma nel reggere e governare «urbem nostram florentinam cum toto eius territorio legibus nostris»80, in una consapevole imitazione del linguaggio dell’Impero81, tanto da definire il proprio diritto ius commune82.

Questa pretesa uniformazione legislativa è comunque destinata a restare una mera enunciazione di principio, una superba prova di sfoggio retorico, anche perché molto difficilmente gli statutari potevano adattare una simile pretesa imperialistica ad un Dominio così eterogeneo quale quello fiorentino, allora in via di definizione, dove ogni componente, soprattutto le antiche civitates, vantava, di diritto, una lunga tradizione statutaria. Quindi, riservata a sé quantomeno la delicata materia dei crimini politici – oltre a quella del fisco –, per il resto Firenze operò nella pratica attenendosi a quella parte della stessa rubrica De legibus dove, viceversa, si sancisce il rispetto degli Statuti delle comunità soggette, una volta che questi fossero stati rivisti o confermati dalla Dominante83.

Firenze prediligeva questa pratica perché le permetteva di apparire all’esterno come la civitas vessillo della libertas e del regime repubblicano, come il custode supremo delle libertates delle comunità incorporate, conservando e non disconoscendo l’espressione massima della loro autonomia politico-giuridica: la capacità di darsi degli

80 Statuti di Firenze del 1415, V, I, rubrica 1 De legibus, vol. II, p. 479, dell’edizione a stampa. Per FASANO GUARINI, Gli statuti delle città soggette a Firenze tra ‘400 e ‘500, cit., la rubrica in questione definisce, nelle sue linee fondamentali, la politica del diritto di Firenze nel Dominio.

81 Leggendo soprattutto il Proemio e alcuni passaggi della rubrica 1 si percepisce la vocazione del reggimento politico fiorentino ad assumere prerogative imperiali. Lo conferma l’impiego accorto di parole quali leges, constitutiones, Deo auctore, liber terribilis, decernimus, etc. È il linguaggio dell’impero. Cfr. A. BROWN, Il linguaggio dell’Impero, in Lo stato territoriale fiorentino, cit., pp. 255-270. Cfr. pure FUBINI, La rivendicazione di Firenze della sovranità statale e il contributo delle «Historiae» di Leonardo Bruni, cit., pp. 29-62.

82 È noto il caso di Pisa che suscitò un acceso dibattito fra i giuristi. La discussione verteva sul significato da attribuire al passaggio della rubrica 2 De offitio, et balia potestatis civitatis Pisarum del libro quinto, trattato quarto, dove si dice: «in casibus, in quibus statuta non disponerent, habeant secundum ius commune». Il giurista Lodovico Pontano (1409-1439) sosteneva che i Pisani, nell’atto di sottomissione a Firenze del 1406, riferendosi allo ius commune come diritto sussidiario degli Statuti locali, intendevano gli Statuti di Firenze, cioè il diritto della Dominante. La posizione di Pontano fu poi, nel corso del Quattrocento, apertamente contestata da altri giuristi, come Bartolomeo e Mariano Sozzini e Filippo Decio, secondo i quali mai il termine ius commune avrebbe potuto designare gli Statuti di una civitas. Il parere è in LUDOVICI PONTANI ROMANI, Consilia sive responsa, Venetiis, 1568, cons. n. 218, ff. 151v-152r. 83 Statuti di Firenze del 1415, V, I, rubrica 1 De legibus: «nisi, quatenus loca nostri territorii propriis militarent legibus, iuribus, vel statutis, quae tamen nostra auctoritate confecta, aut confirmata fuerint».

169 Statuti. Era anche un modo per prendere le distanze dal generale atteggiamento che la signoria milanese seguiva nei confronti delle realtà sottomesse al suo Dominio84.

Se allora, per ragioni di visibilità, Firenze non poteva permettersi di disconoscere la potestà delle comunità soggette di legiferare, anche in criminalibus, la Dominante – oltre ad avocare a sé la gestione dei crimini politici – non si lasciò però sfuggire l’occasione di interferire per via indiretta, attraverso il meccanismo giuridico della approvazione (confirmatio). In pratica, il centro incoraggiava le comunità soggette a redigere Statuti propri; fra il 1385 e il 1430 – che sono poi gli anni dell’aggressiva politica di espansione territoriale condotta dagli Albizzi – si contano nell’archivio fiorentino delle Riformagioni centottanta testi statutari di comunità soggette di varia natura, rurali come nel caso dei contadi pisano e pistoiese85, di corpi territoriali come vicariati, capitanati e podesterie, di città come Pisa, Pistoia e simili, da tempo immemore, rette da Statuti propri. Ma questi testi normativi erano validi soltanto a condizione di essere stati preventivamente censiti, eventualmente corretti e, infine, approvati dalla Dominante.

In origine, l’approvazione degli Statuti delle comunità soggette era demandata a specifiche commissioni di cittadini cui partecipavano, talvolta, anche dei giuristi. Poi, dalla metà del Trecento, parallelamente all’incipiente processo di costruzione del Dominio territoriale, l’intera operazione fu rimessa nelle mani della Signoria su delega dei Consigli. Dagli anni Ottanta del XIV secolo, quando cioè gli Albizzi promuovono la loro energica politica espansionistica, i Signori non riescono più a gestire, da soli, l’impressionante mole di testi statutari provenienti dal Dominio ed adottano sempre più spesso la pratica di nominare incaricati ad hoc per l’esame e l’approvazione degli Statuti del territorio, poi ufficializzata nel 1414 con la creazione di una apposita magistratura, gli Approvatori degli Statuti delle comunità soggette. Questo collegio, composto da quattro

84 Al momento della conquista di Brescia nel 1421, il governo visconteo rifiutò, ad esempio, di ratificare gli Statuti cittadini. La vicenda è menzionata da G.M. VARANINI, Gli statuti delle città della Terraferma veneta nel Quattrocento, in Statuti città territori in Italia e Germania tra medioevo ed età moderna, cit., p. 273.

85 Che ogni comunità del contado pistoiese dovesse avere, entro il termine di sei mesi, un suo Statuto, era stato ordinato nelle stesse settimane che avevano visto la ristrutturazione delle podesterie del contado. Similmente, per il pisano era stato previsto nei patti di capitolazione che ogni comune aveva sottoscritto con i commissari fiorentini nei mesi dell’assedio di Pisa. Per approfondire il tema degli Statuti delle comunità rurali, cfr. CHITTOLINI, Ricerche sull’ordinamento territoriale del dominio fiorentino agli inizi del secolo XV, cit., pp. 292-352.

170 membri – tre delle Arti maggiori e uno delle minori, estratti da borse appositamente predisposte –, non aveva un incarico a tempo, ma lavorava in base ad una delega riferita ad un singolo testo statutario86. Non a caso, gli Statuti di Firenze del 1415 prescrivono l’intervento della Signoria e non degli Approvatori:

I Signori Priori delle Arti e il Gonfaloniere di Giustizia, con i Collegi, o due parti di essi, possono, loro direttamente oppure a mezzo di loro commissari, una sola volta, più volte, in qualunque tempo, visionare, esaminare, approvare tutti gli statuti e gli ordinamenti redatti o da redigersi di ogni singola comunità, castello, città e luogo del contado e distretto di Firenze e, a loro discrezione, apportarvi correzioni per l’onore del comune di Firenze e per l’utile convivenza civile; che tutto quanto questi statuti e ordinamenti dicono, sia, in ogni circostanza, osservato fermamente fatto sempre salvo l’onore, il dominio e la signoria del comune di Firenze, per i quali motivi sempre vi si potrà derogare87.

Il meccanismo dell’approvazione disciplinato a livello di legislazione statutaria trova giustificazione anche nelle pagine di molti giuristi attivi fra Quattro e Cinquecento88. Questi, applicando al caso specifico fiorentino la celebre teoria bartoliana della civitas superiorem non recognoscens, muovono dall’implicazione reciproca fra

iurisdictio – da intendersi come sinonimo di potestas publica – e capacità normativa, nel senso che se non c’è iurisdictio, non può esserci neanche capacità normativa, sempre considerando il dato per cui l’esercizio di qualunque autorità legittima si risolve sempre nell’esplicitare un diritto obiettivo preesistente (appunto, ius dicere). Quindi, constatano che le comunità soggette sono radicalmente prive di iurisdictio propria. Proseguono allora

86 Cfr. TANZINI, Alle origini della Toscana moderna: Firenze e gli statuti delle comunità soggette fra XIV e XV secolo, Firenze, Olschki, 2007, p. 34. Secondo l’autore, questa scelta era ispirata dal chiaro intento di esercitare uno stretto controllo della Signoria sulla procedura: «mentre un collegio a tempo avrebbe comunque fatto emergere una linea interpretativa propria, gli incaricati su un singolo testo mantenevano un profilo tutto sommato anonimo, sul quale la Signoria non avrebbe mancato di far pesare la propria autorevolezza».

87 Statuti di Firenze del 1415, V, I, rubrica 149, vol. II, p. 636, dell’edizione a stampa: «Domini priores artium, et vexillifer iustitiae cum offitiis suorum collegiorum, seu duae partes eorum, ut dictum est, possint tam per ipsos, quam per ipsorum commissarios semel, et pluries, et quotiescumque omnia statuta, et ordinamenta edita, et edenda omnium, et singulorum communium, comunitatum, castrorum, civitatum, et locorum comitatus, et districtus Florentiae videre, examinare, et approbare, quae, et prout viderint convenire, et ea corrigere, et mutare, et eis addere, et detrahere prout honori dicti communi Florentiae, et utilitati hominum convenire videbunt, et quod omnia, et singula, quae semel, et seu pluries, et quotiescumque providerint, seu fecerint in praedictis, et circa praedicta roboris habeant firmitatem, et possint, et debeant observari salvo semper honore, dominio, et signoria communis Florentiae in aliquo derogando». Il testo è modellato sulla rubrica 165, Collatio I, degli Statuti del 1409.

88 Illustra ottimamente questa situazione MANNORI, Il sovrano tutore, cit., pp. 97-136, citando a sua volta il noto commento bartoliano a D. 1.1.9 (l. Omnes populi, ff. De iustitia et iure), In primam Digesti veteris partem commentaria, Venetiis, 1585, ff. 9-10.

171 rilevando che l’unico fondamento del diritto statutario locale è il placet, l’adprobatio, della Dominante, atteggiantesi a princeps. Infine, dichiarano la prevalenza del diritto della Dominante a cui gli Statuti comunitativi sono per loro natura strettamente subordinati.

Meno pacifico nella letteratura consiliare del tempo è il motivo della traslactio, ossia il trasferimento della iurisdictio dalla comunità soggetta alla Dominante. Meno pacifico in quanto buona parte della teoria dei foedera (patti di capitolazione) venne elaborata proprio per dimostrare che non tutte le comunità perdevano la propria iurisdictio all’atto dell’assoggettamento, ma che perlomeno quelle che si volevano reccomandare con accordi bilaterali ne conservavano una certa quota. Giuristi come Filippo della Cornia (1419-1492) o Mariano Sozzini il Vecchio (1401-1467), ad esempio, avevano sostenuto, sulla base di una esegesi dei capitoli di soggezione, che terre pur irreversibilmente incastonate nel corpo del Dominio continuavano a conservare la loro antica iurisdictio, non risultando che essa fosse stata mai tolta loro espressamente89. Tende, però, a prevalere la linea secondo la quale – come rilevava Alessandro Tartagni (1424-1477) verso la metà del Quattrocento – la potestas iusdicendi et terrendi non appartiene più all’ente soggetto ma è passata nelle mani della città superiore90. Accertata, quindi, la carenza di iurisdictio in capo alle comunità soggette, i giuristi di orientamento bartoliano possono chiudere facilmente il loro sillogismo. Come rileva Lodovico Pontano in un suo celebre consilium degli inizi del Quattrocento, posto che «statuta condere iurisdictionis est» e che «apud Pisanos nulla est iurisdictio, cum ipsa traslata sit in Florentinos», ne discende l’incapacità di Pisa a porre qualunque norma giuridica. Pertanto, se i loca subdita continuano a darsi nuovi Statuti e a modificare quelli preesistenti, ciò avviene solo in grazia dell’approvazione centrale91.

Le correzioni, piuttosto copiose, che la apposita magistratura degli Approvatori apporta sulle rubriche penali dei testi trasmessi a Firenze da tutto il territorio, attestano la volontà, precisa, di inasprire il quadro sanzionatorio nell’idea di irrobustire, attraverso lo

89 Cfr. PETRI PHILIPPI CORNEI, Consiliorum sive responsorum, Venetiis, 1582, vol. IV, cons. n. 187, ff. 177r-178v (con riferimento a Modigliana, sottomessasi ai Fiorentini nel 1377); MARIANI et BARTHOLO. DE SOCINIS senensium, Consilia, Lugduni, 1546, vol. I, cons. n. 7, ff. 5v-6v (con riferimento ad Arezzo). 90 Cfr. ALEXANDRI TARTAGNI, Consilia sive responsa, Lugduni, 1544, cons. n. 35, ff. 20v-22r (con riferimento a Sarzana).

172 strumento penale, il controllo sulla violenza nelle comunità, imponendo un ordine pubblico direttamente gestito dalla Dominante.

Si è già vista la tendenza della Dominante a far valere i propri Statuti nelle materie afferenti alla difesa militare e alla sicurezza della civitas-respublica. Non è un caso, quindi, che gli Statuti di Massa e Cozzile del 1420 non dedichino al tema dei crimini politici una rubrica specifica. Solo qualche vago e approssimativo cenno nell’ultima parte della rubrica sull’omicidio92, dove si prevede che chi compie atti di proditio, cioè di tradimento, contro la comunità di Massa e Cozzile allo scopo di sovvertire, mutare il pacifico ordine e stato del magnifico ed eccellentissimo Comune di Firenze, oppure se per tali cause sia compiuto un omicidio, un incendio o un danneggiamento, dovrà essere impiccato e tutti i suoi beni confiscati93.

Null’altro viene detto, perché la iurisdictio per tali crimini non era del podestà di Massa e Cozzile, ma del Podestà di Firenze o degli altri Rettori forestieri di Firenze. Così, il podestà locale non aveva facoltà di inquisire o giudicare persone responsabili di tradimento e di altri reati connessi, ma solo il dovere di arrestarle e tradurle entro cinque giorni a Firenze, a pena di lire trecento comminatagli dallo stesso Podestà fiorentino94.

Lo conferma anche il terzo, e ultimo, libro degli Statuti di Scarperia del 142395, la cui normativa penale è davvero scarna, minima, essenziale, circoscritta a reati minori

92 Lo Statuto di Massa e Cozzile del 1420, cit., libro III, rubrica 2 De pena homicidii et quorundam aliorum delictorum.

93 Ivi, pp. 55-56: «Et si quis commixerit vel fecerit aliquam proditionem contra Comune predictum vel aliquam personam dicti Comunis ex qua proditione possit occurri vel occureretur permutatio pacifici status