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Profili egemonici del penale negli Statuti fiorentini del primo Quattrocento

1. I difficili sentieri della revisione statutaria.

crimini contro l’ordo civitatis – 3. L’egemonizzazione del penale nel tractatus Ordinamentorum Iustitiae – 4. La problematica emersione di una maiestas civitatis Florentiae

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1. I difficili sentieri della revisione statutaria.

Lasciando per un attimo da parte l’evoluzione del magistrato degli Otto di Guardia, si tratta ora di verificare se, già al tempo degli Statuti fiorentini del 1409-1415, stesse prendendo forma quel fenomeno che è all’origine del diritto penale degli Stati premoderni del Cinque/Seicento: lo slittamento della rilevanza penale di un comportamento o di un atto, dalla sfera del danno alla sfera della disobbedienza1. Si risalirebbe, così, all’atto di nascita di un penale modellato dal paradigma dell’infrazione politica, per cui la pena scopre, dopo secoli di sfibramento e di contaminazione con istituti giuridici più propriamente privatistico-comunitari, una sua specifica vocazione a farsi strumento di difesa della respublica: vero «clipeus reipublicae», come recitava il Codex giustinianeo.

Il proemio degli Statuta Populi et Communis Florentiae elaborati nel 1409 da Giovanni di Montegranaro, rivisti nel 1415 da Paolo di Castro con Bartolomeo Volpi da Soncino, primi, e paradossalmente anche ultimi2, Statuti di Firenze a vocazione

1 Secondo la felice intuizione di Sbriccoli, sinteticamente enunciata nel suo Giustizia criminale, in Lo Stato moderno in Europa, cit., pp. 178-179. Che poi significa cogliere il momento in cui la sola disobbedienza alla legge penale diventa motivo di pena.

2 Davvero suggestivo il modo in cui P. Fiorelli sintetizza la storia degli Statuti della città di Firenze nella premessa al bel saggio archivistico di G. BISCIONE, Statuti del Comune di Firenze nell’Archivio di Stato. Tradizione archivistica e ordinamenti, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2009, p. XV: «E un solo testo di carattere statutario si conosce tra quelli che Dante e i suoi

79 territoriale3, al momento di introdurre il contenuto del libro terzo sulle cause penali, così illustra la distribuzione interna della materia:

Il libro terzo contempla la gravissima materia delle cause criminali. È questo, infatti, un libro terribile, che commina pene ai peccatori, insegnando loro ad astenersi dalla trasgressione delle leggi, con la minaccia della pena. Esso include pure la materia dei cessanti e fuggitivi e gli ordinamenti di giustizia4.

Poco sopra veniva detto che:

La città di Firenze, consapevole che la natura umana quotidianamente cade nei delitti ed è così debole e disposta alla discordia – generatrice di conflitti giornalieri, nemica della pace, madre delle liti – tanto che se la disciplina della giustizia e del diritto non reprimesse con vigore la sfrenata cupidigia e lo smodato desiderio dell’uomo, già la concordia avrebbe valicato i confini del mondo e l’umanità sarebbe sprofondata nell’abisso del male; sapendo fin dalle sue origini che il rimedio alla malvagità sta nella prudenza delle regole, e sapendo da sempre di sopravanzare gli altri per integrità delle istituzioni e dei costumi, per scienza e per eloquenza, desiderò ardentemente il governo delle leggi, per mezzo della cui autorità gli affari divini e quelli umani si dispongono al bene, le iniquità sono espulse, i peccatori atterriti e gli innocenti possono vivere sicuri fra gli improbi senza il timore del supplizio. Tuttavia, non potendo contare fin dall’infanzia che su pochi mezzi e oltretutto costretta entro limiti angusti, con l’ausilio di Dio

contemporanei videro nascere, contribuirono a far nascere: sono gli ordinamenti di giustizia del 1293, in più di una stesura e in più di una forma. I più antichi statuti del Comune che si siano conservati, e che si possono lèggere, sono posteriori di sei mesi alla morte, in esilio, del Poeta [Statuti del 1322-1325]. Altri ne seguirono, riformati in tre riprese nel giro di poco meno d’un secolo [1355, 1409, 1415]. Gli ultimi restarono in vita, in qualche modo, per trecentonovantanove anni, finché una legge del granduca Ferdinando III, del 15 novembre 1814, nell’abrogare la legislazione francese degli anni precedenti confermò, di questa, l’abolizione di tutti gli statuti particolari delle città, terre e castelli. La decadenza, l’estenuazione degli statuti era però nell’aria fin dal tempo di Pietro Leopoldo, delle sue riforme amministrative degli anni ’70 e ’80 del Settecento. Quando gli ultimi statuti comunali di Firenze ebbero una loro edizione a stampa colla finta data di Friburgo 1778-1781, un’edizione di bell’aspetto ma in incredibile ritardo rispetto alla produzione delle altre città d’Italia, circolava già da qualche mese un’elegante esposizione analitica del loro contenuto, opera dell’auditore Niccolò Salvetti, e il suo titolo di Antiquitates Florentinae sembrava un anticipato elogio funebre».

3 Il primo a intuire questa specificità, anche in rapporto alle altre realtà italiane coeve, fino a definirli un corpo organico di legislazione regionale fu, all’inizio degli anni Settanta del Novecento, G. CHITTOLINI, nell’ormai classico studio Ricerche sull’ordinamento territoriale del dominio fiorentino agli inizi del secolo XV, in Id., La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado, secoli XIV-XV, Torino, Einaudi, 1979, pp. 292-352.

4 Statuti di Firenze del 1415, Proemium, vol. I, p. 3, dell’edizione a stampa. L’originale in latino recita: «Tertius causarum criminalium gravia. Hic enim liber terribilis est, comminans poenas peccatoribus, et eos a transgressione legum, formidine poenae abstinere docens, cum materia cessantium, et fugitivorum, et ordinamentis iustitiae». Si noti che pure il lessema «Hic enim liber terribilis est» è mutuato dal Corpus Juris Civilis e, precisamente, dai libri 47 e 48 del Digesto ribattezzati, proprio al tempo dell’esperienza del diritto comune, libri terribiles perché prevedevano pene piuttosto dure. Anche soltanto questo può considerarsi un indice lessicale di quanto, in una realtà territoriale in via di definizione con al centro la civitas-respublica di Firenze, nei primi decenni del XV secolo, si stessero assottigliando sempre di più, nella percezione degli stessi statutari, i confini fra giustizia criminale e repressione.

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che governa il suo Impero, accrebbe enormemente le proprie ricchezze e sostanze ed estese i propri confini e i propri orizzonti, sottomettendo a sé e legando alla propria infinita custodia castelli, città e fortezze. Così facendo, però, le sue leggi si moltiplicarono in maniera talmente confusa e oscura che nessuno era più in grado di averne cognizione5.

Queste altisonanti ed iperboliche enunciazioni proemiali rappresentano, forse, una delle manifestazioni più tangibili di quanto oramai, primi anni del Quattrocento, la giustizia e il diritto penale fossero assurti a indispensabili strumenti di governo. Indispensabili alla stessa sopravvivenza, quieta e imperturbata, dell’ordine politico e sociale interno, di cui i magnifici e illustrissimi Signori erano custodi6. E rappresenta, altresì, una testimonianza assai eloquente di come le autorità politiche promotrici del progetto di revisione statutaria fossero essenzialmente orientate a preservare quell’ordo, reprimendo.

Già dalla Balìa del 1º settembre 1378, che conosciamo, si era avvertito il necessario ricorso allo strumento statutario:

Non si deve giudicare degno di biasimo il fatto che per la varietà dei tempi e degli eventi cambino anche gli statuti delle città. E visto come oggi, a causa degli eventi occorsi recentemente, il popolo non abbia quasi nessun ordine, e il suo regime in quasi ogni sua parte sia sconvolto e privo di ordine, e quanto sia necessario riformare tutta la Repubblica di Firenze, che altrimenti andrebbe verso la rovina7.

5 Statuti di Firenze del 1415, Proemium, vol. I, pp. 1-2, dell’edizione a stampa: «Cum humana natura dietim labatur ad delicta, pronaque, et facilis ad dissentiendum, nova tot quotidie generet iurgia, pacis emula, mater litium, ut nisi eius effrenatam cupiditatem, et appetitum noxium iustitiae, et iuris disciplina sua virtute reprimeret. Iam extra mundi terminos exularet concordia, et per genus humanum itum esset in profondum malorum. Prava enim non nisi ad regulam corriguntur quam prudentissime ab origine sua recognoscens civitas Florentina aliis semper praepollens morum institutis, peritia sciendi, facundia loquendi, cupivit, et adamavit legum gubernaculis regi, quarum auctoritate res divinae, et humanae bene disponuntur, iniquitates expelluntur, peccatores terrentur, innocentes sine formidato supplicio inter improbos secure vivunt, sed a cunabulis suis parvas possidentes opes, et angustis finibus contenta, Deo auctore, eius gubernante Imperium divitiis, opibus utplurimum aucta, terminos, et agros suos ampliavit, suae dictioni infinita castella, civitates, et oppida subiiciendo, et leges constitutiones suas multiplicavit, quarum aliquae contrariae, aliae ambiguae, aliae superfluae, aliquae per desuetudinem delectae, aliae sparsae, et inordinatae inutilibus praefationibus utentes, ita confuse, et obscure ut vix earum notitia haberi posset».

6 Ivi, p. 3: «Sumite ergo magnifici, et Illustrissimi DD. Priores, Patres, et Defensores earum, caeterique viri clarissimi has leges, haec instituta omni labe purgatas, sinceritate faecundas, ordine luculentas, antiquorum respectu parvis voluminibus complexas, et eas firmate, et stabilite, ut in iudiciis utantur periti, caeterique cives legantur, et subdantur, vimque, et robur loco veterum obtineant, caeteraeque leges sileant, cedant, et succumbant».

7 Brano citato in TANZINI, Statuti e legislazione statutaria a Firenze dal 1355 al 1415, cit., p. 13: «Non debet reprensibile iudicari si ex varietate temporum seu rerum mutentur statuta locorum. Et cum ad presens propter novitates occursas, populus fare in aliquo ordine non esista et totum regimen sit in suis membris et

81 Che le autorità politiche avessero fin da allora deciso di rimettere mano agli Statuti pare essere confermato da un provvedimento di poco successivo, datato 22 settembre 1378, con il quale veniva disposto lo stanziamento di duecento fiorini per l’acquisto di pergamena da impiegarsi per la riscrittura di tutti gli Statuti della città di Firenze8.

A simili propositi non seguiranno, tuttavia, azioni concrete, perlomeno fino all’ascesa al potere del regime albizzesco.

Di nuovo è l’dea dell’ordo che gli uomini del reggimento hanno in mente. Lo testimonia chiaramente questo passaggio di una provvisione della Balìa della fine di dicembre del 1394, dove si lamenta la difficoltà di attendere agli affari di governo, compresa l’amministrazione della giustizia, proprio per la confusione in cui, da troppo tempo, versano gli Statuti cittadini:

In molte parti, alcuni si contraddicono, altri sono corrotti, molti sono superflui e contemplano disposizioni oscure e intricate, e sono talmente confusi che i rettori e gli ufficiali i quali presiedono ai loro uffici per poco tempo ma, continuamente, leggendo quelle disposizioni, hanno difficoltà a comprenderle, a conoscerle perfettamente, a tenerle a mente e per questo incorrono in sanzioni e per questa stessa ignoranza il diritto pubblico e quello privato sono compromessi, con tutti gli inconvenienti che ne conseguono9.

Queste dichiarazioni di intenti trovano un concreto seguito normativo nella provvisione che, il 24 dicembre 1394, dispone che si provveda ad una nuova redazione statutaria. L’iniziativa, però, si arena poco dopo la nomina dei giuristi che avrebbero

fere in omnibus aliis conquassatum et sine ordine, et necesse sit quasi totam rempublicam comunis Florentie reformare, alias in perditione cum ruina videtur».

8 ASF, PR, 67, c. 27r, on-line su www.archiviodistato.firenze.it/archividigitali/complesso-archivistico: «pro emendo cartas pecudinis et pro facendo scribi et aptari omnia et singula statuta comunis Florentie prout expeditius fuerit». Secondo Tanzini, tuttavia, il documento allude solamente alla copia di testi statutari già esistenti e non anche alla redazione di nuovi statuti, perché un’operazione di tale importanza avrebbe richiesto una disposizione normativa più articolata e, comunque, di tutt’altro tenore; cfr. TANZINI, Statuti e legislazione statutaria a Firenze dal 1355 al 1415, cit., p. 14.

9 ASF, PR, 83, cc. 246r-249r: «in multis partibus et locis aliqua ad invecem sunt contraria, quidam per alia sunt corrocta, multaque superflua et quidam in eorum dispositionibus obscura et intricata, totoque sunt et totaliter confusa quod ne dum per rectores et offitiales eorum offitiis parvo tempore presidentes sed per continue illa legentes non possunt intelligi aut perfecte sciri nec etiam in memoria retinere et exinde multationes propter ignorantiam aut varietates vel indicationes leditur ius publicum et privatum et multa inconvenientia sepissime inde resultant».

82 dovuto lavorarvi: Carlo Zambeccai di Bologna, Giovanni di Luigi da Padova e il celebre canonista Pietro d’Ancarano10.

Il progetto, tuttavia, era troppo sentito per arrestarsi alla prima difficoltà. A rilanciarlo fu una provvisione del giugno 1396 e, come accaduto esattamente due anni prima, la Signoria scelse tre giuristi potenzialmente adatti all’incarico: si riconfermava l’apporto del canonista Pietro d’Ancarano e, con lui, la scelta dei Signori cadde sul civilista Bartolomeo da Saliceto e su Jacopo Carboni da Camerino. Eppure, nonostante l’entusiasmo di vedere i propri Statuti cittadini rivisti e corretti dagli esponenti della migliore dottrina giuridica dell’epoca, anche questo secondo tentativo di ristabilire l’ordo

civitatis per via statutaria si impantanò prima ancora di cominciare, intrappolato a morte

dalle questioni diplomatiche e militari legate alla guerra con il duca di Milano Gian Galeazzo Visconti e, sul piano interno, dal tentativo di aumentare gli introiti fiscali del Comune.

Tuttavia, l’incalzare dell’espansionismo territoriale di Firenze e la chiara volontà degli uomini del reggimento albizzesco di consacrare, anche a livello giuridico, la serrata del potere in senso aristocratico ed elitario permisero al progetto di revisione statutaria di procedere oltre queste due brusche e repentine battute di arresto. Una provvisione

10 Anche la scelta di affidare il lavoro di riscrittura delle disposizioni statutarie a dei tecnici del diritto è una novità apportata sotto il regime albizzesco. Nella provvisione che disponeva la redazione degli Statuti del Capitano del Popolo del 1322 non si prevede esplicitamente la partecipazione di giuristi, e la revisione è affidata ad una commissione di cittadini privi di competenze tecniche. Questo doveva essere il sentire comune fino alla seconda metà del Trecento. Lo notava lo stesso Alberico da Rosciate, uno dei primi doctores a vincere la tradizionale diffidenza del ceto dei giuristi nei confronti di qualunque prodotto normativo che non fossero i libri legales: «tales eligendi ad statuta condenda debent esse Iusperiti […] sed communiter eliguntur laici et iuris ignari, tales ut possint statuta vetera declarare» (citato in D. QUAGLIONI, Legislazione statutaria e dottrina degli statuti dell’esperienza politica tardomedievale, in Atti del Convegno “Statuti e ricerca storica”, Ferentino 11-13 marzo 1988, Ferentino, 1991, pp. 61-75). Il quadro muta di poco con la provvisione che nel 1351 dà il via a quella che sarebbe poi diventata la redazione del 1355; in quell’occasione si rimetteva alla commissione cittadina incaricata di seguire i lavori, l’individuazione di «unum seu pluries iudices notarios scriptores forenses providos et discretos» (ASF, PR, 38, c. 196r). La tendenza a minimizzare il ruolo svolto dai professionisti del diritto richiama probabilmente l’atteggiamento di sospetto nutrito dalle istituzioni cittadine nei confronti dei giuristi; un atteggiamento, per la verità, proprio della normativa comunale soprattutto dei primi tempi, abbastanza rapidamente assorbito nell’età matura del diritto comune, sia per il più disinvolto orientamento della dottrina, sia per il complicarsi del diritto cittadino; cfr. SBRICCOLI, L’interpretazione dello Statuto: contributo allo studio della funzione dei giuristi nell’età comunale, Milano, Giuffrè, 1969, pp. 57-58, 69-70. La figura del giurista è, invece, chiaramente richiesta nelle provvisioni statutarie sia della fine del Trecento che del primo Quattrocento, dove – a conferma dell’istituzione che realmente deteneva il potere a Firenze dopo il tumulto dei Ciompi – la nomina dell’esperto o degli esperti di diritto è rimessa alla Signoria.

83 dell’ottobre 1408 affidava la redazione dei nuovi Statuti cittadini ad una commissione di dieci cittadini «populares et guelfi», due dei quali soltanto avrebbero dovuto essere tratti dal ramo delle Arti minori, in linea con la politica di aristocratizzazione diretta dagli Albizzi11. Alla fine parteciparono ai lavori nove cives, tutti personaggi di spiccata lealtà al reggimento12. La scelta, da parte dei Signori, del giurista che avrebbe dovuto coordinare i dieci – poi di fatto nove – cadde sul marchigiano Giovanni di Giorgio Marochini da Montegranaro, un personaggio non particolarmente illustre, ma nemmeno privo di prestigio sia come giudice che come doctor legum13.

Dopo un anno di lavoro trascorso a raccogliere le provvisioni vigenti e coordinarle con gli Statuti preesistenti ovvero con altri Statuti (soprattutto quelli della Parte Guelfa, delle singole Arti, della Mercanzia, dell’Annona, dello Studio), la commissione civica capitanata da Giovanni di Montegranaro sottoponeva al vaglio del Consiglio degli Ottantuno14 un prodotto normativo originale e veramente all’avanguardia. Originalità, prima di tutto, nella maniera di distribuire il materiale normativo selezionato. Gli Statuti

11 ASF, PR, 97, cc. 91v-92v.

12 Dei nove componenti la commissione, soltanto due, tali Bernardo Berardi e Ludovico della Badessa, non figurano mai tra i membri delle Balìe del tardo Trecento; gli altri sette vantano tutti almeno una, e in diversi casi, anche due partecipazioni alle Balìe; in particolare, nel 1393 troviamo quattro statutari e nel 1400 ben cinque. Il legame con la Balìa del 1393 è ulteriormente confermato dal fatto che nello scrutinio di quell’anno risultano presenti tutti gli statutari meno il Berardi. Lo studio delle loro carriere delinea figure di rilievo istituzionale mediamente alto, che parteciparono più volte nel giro di pochi anni alle maggiori magistrature della Repubblica, tra cui gli uffici dei Dieci di balìa e dei Sei della Mercanzia. Tra loro c’era anche Maso degli Albizzi. Cfr. TANZINI, Statuti e legislazione statutaria a Firenze dal 1355 al 1415, cit., pp. 20-30. 13 Giovanni da Montegranaro era stato varie volte membro della familia di Podestà e Capitano a Firenze, lavorando soprattutto come giudice collaterale. Altrettanto nota è l’attività di consulente di Giovanni: si conoscono, invero, almeno tre consilia da lui resi ad ufficiali fiorentini per la soluzione di quesiti relativi a materia fiscale, tutti del periodo tra la fine del XIV e il primo decennio del XV secolo. Svolse anche incarichi diplomatici. Si veda in tal senso la presentazione, a dir poco encomiastica, che gli riservano i nuovi Statuti del 1409, nella rubrica De origine iuris: «Vir prudentissimum et in iuris civilis scientia peritissimus dominus Iohannes de Montegranaro, doctor egregius, quive in omnibus pene Italie civilitatibus illustribus non semel tantum, sed pluribus in diversis temporibus vicibus iurisdicendo prefuerat. Eius erant mores virtus et scientia et bonitas civibus cunctis nota. Sex enim vicibus intra annos triginta cum potestatibus huius urbis iuridicendo prefuerat atque primum locum tenuerat. Noverat vir hic acris ingeni mores et leges omnes florentinas, formam etiam qua gubernatur civitas hec et omnes nostras consuetudines civiumque ingenia egregie tenebat. Et ad florentinam rem publicam singularem benevoltentiam gerebat», in Statuti di Firenze del 1409, 23, c. 1r, on-line su www.archiviodistato.firenze.it/archividigitali/complesso- archivistico.

14 Per tutti gli Statuti trecenteschi, l’approvazione era stata di pertinenza dei Consigli. Completamente diversa, invece, la procedura di approvazione messa a punto per la redazione del 1409: il testo dovrà ritenersi valido a tutti gli effetti soltanto dopo l’approvazione da parte del Consiglio degli Ottantuno, cioè da parte di quell’organo straordinario di potere creato dagli Albizzi nel 1393, formato da Signori, Collegi, Capitani di Parte Guelfa, Otto di Guardia, Sei della Mercanzia, Ventuno Consoli delle Arti.

84 del 1409, anziché esordire come da tradizione, con le rubriche sui Rettori forestieri e sul sistema giudiziario da essi incarnato, muovono dalla regolamentazione della magistratura di vertice della Repubblica fiorentina, ossia dalla Signoria.

Gli elementi di originalità proseguono con la maniera di distribuire il materiale normativo selezionato. Viene, infatti, abbandonata la tradizionale bipartizione in Statuti del Podestà/Statuti del Capitano del Popolo, oltre alla suddivisione in quattro o cinque libri, optando viceversa per una ripartizione in nove distinte Collationes. Una scelta, questa, che forse voleva essere un omaggio alla tradizione giuridica romana e del diritto comune15, e che lascia quasi intravedere una latente vocazione imperialistica di Firenze e delle sue magistrature direttive, a cominciare da una consapevole imitazione del principe dell’Impero Romano, Giustiniano16. L’influenza della cultura giuridica romana si riflette, poi, oltre che nella impaginazione del testo17, soprattutto nelle prime due rubriche, intitolate significativamente De origine iuris e De legibus, posizionate a formare una premessa alla legislazione di insieme, al posto del più convenzionale proemio con invocazione a Dio e ai Santi protettori della città.

Al di là della loro più o meno diretta dipendenza dal Corpus Juris Civilis giustinianeo18, queste due rubriche sono estremamente significative perché testimoniano