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Profili egemonici del penale negli Statuti fiorentini del primo Quattrocento

4. La problematica emersione di una maiestas civitatis Florentiae.

L’analisi delle rubriche selezionate dal libro terzo degli Statuti fiorentini del 1415, così come l’esame di alcune delle rubriche costitutive del tractatus

Ordinamentorum Iustitiae, derivate in massima parte dalla cassata versione del

Montegranaro, dimostrano – a nostro avviso – che, per Firenze, il processo di egemonizzazione del penale avviatosi sul finire del Duecento era, negli anni delle redazioni statutarie, in pieno e fruttuoso svolgimento. Dimostrano, altresì, che il palcoscenico privilegiato di questo processo era dato dal filone dei crimini politici. Più in particolare, la coincidenza tra giustizia criminale e repressione, lasciando ai margini certi residuati privatistico-comunitari di tipo negoziale89, stava passando attraverso la definizione di tecniche particolarmente invasive, ai confini dell’arbitrarietà e della sommarietà, di accertamento e di soffocamento di ogni atto o comportamento diretto a turbare l’ordo civitatis, sia dall’interno che dall’esterno, magari provocando disordini nelle varie comunità soggette.

87 Statuti di Firenze del 1415, vol. I, pp. 458-460, 475-476, 479-481, dell’edizione a stampa, TOI, rubriche 36, 56, 58, 59.

88 Ivi, vol. I, p. 488, dell’edizione a stampa, TOI, rubrica 68.

89 Sul declinare, già nel corso del Trecento, di quell’importante istituto compositivo che è la pace, ammessa ormai solo per i reati di minore gravità, si veda, con specifico riferimento agli Statuti lombardi, A. PADOA- SCHIOPPA, Delitto e pace privata, in Id., Italia ed Europa nella storia del diritto, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 209-250. Similmente anche nei nostri Statuti, dove la rubrica 51 De cancellatione condemnationum, et bamnorum propter solutionem, libro primo (vol. I, pp. 56-58, dell’edizione a stampa), concede il beneficio della riduzione di un quarto della pena pecuniaria ai condannati che avessero ottenuto la pace dall’offeso, escludendo però da questa pratica alcuni crimini politici commessi nella civitas e nel Dominio insieme con altri gravi reati come grassazioni, stupri violenti, sodomia, incesto. Tuttavia, sia pure con un raggio di incidenza circoscritto ai soli reati minori, ancora nel Quattro e nel Cinquecento, le fonti testimoniano il ricorso a paci, tregue, transazioni, accomodamenti: pratiche che, tra l’altro, continuano a sollecitare un’attenta riflessione da parte dei giuristi. Fra questi, Giulio Claro, Giovan Battista Baiardi, Sebastiano Guazzini, Pietro Cavallo, Domenico Toschi. Sull’importanza che, comunque, la cultura negoziale conserva tra tardo Medioevo ed età Moderna, cfr., in generale, X. ROUSSEAUX, De la négociation au procès pénal: la gestion de la violence dans la société médiévale et moderne (500-1800), in Droit négocié, droit imposé?, sous la direction de P. Gèrard, F. Ost, M. van de Kerchove, Bruxelles, Facultés universitaires Saint-Louis, 1996, pp. 273-312.

105 Rimane da chiederci se, già all’epoca delle compilazioni statutarie del 1409 e del 1415, i giuristi, soprattutto quelli di area fiorentina, fossero giunti, nelle loro speculazioni teorico-dottrinali, a ricondurre tecnicamente il fatto criminoso di ribellarsi a Firenze e al suo Dominio territoriale, a quello «strumento di arbitraria repressione di ogni forma di dissenso politico»90 che è il crimen laesae maiestatis. Il che implica, poi, inevitabilmente chiarire se Firenze, e come essa anche altre civitates, potesse o meno vantare l’attributo della maiestas.

Le rubriche esaminate, pur impiegando un frasario riconducibile al campo semantico del crimen laesae maiestatis, non lo menzionano mai espressamente91.

Viene, allora, spontaneo interrogarsi sulle ragioni di questo silenzio da parte delle nostre fonti. La questione è piuttosto controversa, pure nelle stesse ricostruzioni storiografiche, perché da una parte la cultura giuridica, sia di diritto comune sia di diritto statutario, appare come frenata, cauta, prudentissima, nel caricare la civitas di una qualifica, quella maiestatica, tradizionalmente riservata alle sole due entità universali dell’Impero e del Papato92. Dall’altra, pare che nemmeno nella nostra Firenze mancassero dei giuristi i quali, sviluppando nei loro consilia le teorie bartoliane sulla liceità dell’assoggettamento di civitates e castra a poteri più forti, e sul fondamento della

90 SBRICCOLI, Crimen Laesae Maiestatis, cit., p. 255.

91 Qualcosa di analogo a Firenze è stato rilevato per Venezia da MAGNANI, La risposta di Venezia alla rivolta di San Tito a Creta, cit., ∫ 5: «nonostante si tratti palesemente di reati ascrivibili al crimen laesae maiestatis, la documentazione ufficiale non definì mai tali episodi attraverso questa qualifica, preferendo invece impiegare la categoria di proditio e facendo ricorso a tutte le fattispecie giuridiche e ai principi aggravanti che normalmente componevano le accuse di lesa maestà».

92 Così TANZINI, Statuti e legislazione statutaria a Firenze dal 1355 al 1415, cit., pp. 191-192, che ricostruisce il lessico di alcune rubriche della Collatio IX degli Statuti del 1409 ospitanti la legislazione antimagnatizia, rubriche poi in larghissima parte trasfuse nella redazione del Castrense. Ne consegue l’uso pressoché nullo del lessema crimen laesae maiestatis non soltanto negli Statuti, ma anche nelle pratiche giudiziarie dei governi cittadini. Questa cautela era, appunto, legata al fatto che le cancellerie cittadine, tra cui quella fiorentina, esitavano ad attribuire alle istituzioni comunali quella prerogativa normalmente riconosciuta solo alle potestà universali. Cfr., altresì, J. KIRSHNER, A critical appreciation of Lauro Martines’s Lawyers and Statecraft in Renaissance Florence, in The Politics of Law in late Medieval and Renaissance Italy, cit., p. 27: «The city’s lawyers understood perfectly well that even though Florence was a civitas superior, as a matter of strict law, it did not share the full powers of the emperor. They steadfastly refused, for instance, to attribute to the civitas superior the quality of maiestas, that sacred dignity and supreme authority that belonged to the Roman emperor. Florentine citizens could be prosecuted for plotting to overthrow their government or assembling a mob and taking up arms against the government, but not for the capital offence of crimen laesae maiestatis, loosely translated as high treason, which was a crime that could be committed only against the person and majesty of the emperor and the princes to whom he formally delegated imperial powers».

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iurisdictio della civitas superiorem non recognoscens, riconoscevano a Firenze gli iura imperii e la suprema iurisdictio, anche in virtù del vicariato che i Priori fiorentini si videro

confermare in ben tre occasioni dagli imperatori nel 1355, nel 1369 e nel 140193. Forse, davvero, un atteggiamento cauto e prudente da parte dei giuristi, di reverenza verso autorità quali l’Impero e il Papato sia pure ormai, a pochi decenni dall’evo Moderno, in via di dissoluzione, stava all’origine di questo ostracismo normativo sulla maiestas

civitatis Florentiae e, di riflesso, sulla qualificazione degli atti di ribellione all’ordo civitatis in termini di crimen laesae maiestatis94.

Di certo, i giuristi arriveranno a sviluppare completamente la nozione di maiestas solo nel momento di massima maturità dell’esperienza criminalistica di diritto comune, cioè fra Cinque e Seicento, quando il paradigma dell’infrazione politica sarà ormai penetrato a fondo negli ordinamenti penali degli Stati moderni. Ciò nonostante, la dottrina premoderna si dimostrò molto precoce nel porsi la questione se esistesse o meno una pluralità di titolari della maiestas, e nel risolverla positivamente. Se è quasi scontato per questi giuristi discutere di maiestas in capo all’Imperatore e al Papa, di maiestas si parla anche a proposito del populus, sebbene poi anche questo soggetto venga fatto rientrare nell’orbita dell’Impero95.

93 Cfr. M. ASCHERI, I giuristi e Firenze, “mater omnis eloquentiae”: qualche spunto dal Tre al Quattrocento, in Id., Diritto medievale e moderno. Problemi del processo, della cultura e delle fonti giuridiche, Rimini, Maggioli Editore, 1991, pp. 139-145, in part. pp. 140-141. L’idea che Firenze fosse da considerare una civitas, o una respublica libera, che non avesse cioè un superior nell’Imperatore, e che proprio per questa ragione era titolare di ogni maggiore iurisdictio, sì da tenere locum principis, affiora già nei consilia dei più eminenti giuristi del primo Quattrocento, muovendo da un celebre passo di Bartolo da Sassoferrato – quello che racchiuderebbe la teoria della civitas superiorem non recognoscens o sibi princeps – che è il commento a l. hostes sunt quibus, ff. de captivis (D. 49,15,24). Fra questi, Pietro d’Ancarano, che una provvisione del 24 dicembre 1394 incaricava, insieme con altri due doctores, di lavorare alla redazione dei nuovi Statuti secondo un progetto poi arenatosi. E poi, Raffaele Fulgosio, Niccolò de’ Tedeschi, Alessandro Tartagni, Bartolomeo Cipolla, Bartolomeo Sozzini, Giason del Maino, Filippo Decio. Lo stesso principale compilatore degli Statuti del 1415, Paolo di Castro, può considerarsi esponente di questo indirizzo di pensiero; sempre secondo Ascheri, infatti: «Paolo di Castro ricorda che [Firenze] si è comprata la libertà dall’Impero ed è parificabile al “Regnum Franciae”: entrambi “de facto non recognoscunt Imperium”. Cfr., PAULI CASTRENSIS, Consilia sive responsa, Venetiis, apud Gasparem Bendonum et socios 1571, lib. I, cons. 118, n. 1; cons. 171, n. 1; cons. 235, n. 2.

94 Diverse e, per certi aspetti, più originali le ragioni dell’analogo silenzio delle fonti giuridiche rilevato per la Repubblica di Venezia da MAGNANI, La risposta di Venezia alla rivolta di San Tito a Creta, cit., ∫∫ 50 e 51.

95 Un esempio dell’identificazione esclusiva del populus con il populus romanus in JACOBUS BUTRIGARIUS, Lectura super sec. cod., l. quisquis, Ad leg. Iul. maiest., Parigi, 1516.

107 La ricerca dei soggetti maiestatici si trasforma, tuttavia, per i doctores in un vero e proprio rompicapo nel momento in cui si tratta di coloro che «si collocano in un grado della scala del potere teoricamente subordinato a quello occupato dall’imperatore o dal papa»96. Se di più facile soluzione è il problema dell’attribuzione della maiestas ad esponenti del mondo feudale ovvero ai reges, decisamente più tortuoso si annuncia il discorso teorico per quel che riguarda le civitates. Discorso teorico che, data la sua complessità ma anche la ricchezza di studi che ha stimolato, non abbiamo modo qui di toccare97. Accenneremo principalmente all’opinione di Baldo e non tanto per l’autorevolezza dottorale dello stesso, ma molto più banalmente perché scaturita proprio da una vicenda fiorentina: un episodio di cospirazione del dicembre 1379, quando a Firenze governava ancora il regime delle Arti minori nato dal fallimento della rivoluzione dei Ciompi98.

Il giurista perugino comincia la sua argomentazione osservando che «licet eleganter pro et contra sint inducte leges proprie ad propositum facientes et determinantes tamen pro uberiori doctrina recensenda sunt tria, primo quis est titulus huius criminis, secundo, qua lege punitur, tertio qua pena»99. Rispondendo alla prima delle tre questioni sollevate, Baldo afferma che la maiestas è quadripartita perché il diritto parla di maestà a proposito di Dio, dell’Imperatore, del Popolo romano e del re. Viceversa, le città non sono contemplate in questa quadripartizione, giacché esse rientrano meramente nella sfera dei soggetti privati; e non sono contemplate nemmeno le parti (come le parti Guelfa e Ghibellina) perché esse sono semplicemente delle fazioni; in più molte città sono

municipia – autonome ma sempre soggette ad un superiore – e perciò non possiedono

96 SBRICCOLI, Crimen Laesae Maiestatis, cit., p. 207.

97 Oltre a Sbriccoli, cfr. F. CENGARLE, Lesa maestà all’ombra del Biscione. Dalle città lombarde ad una “monarchia” europea (1335-1447), Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2014, p. 45.

98 È l’episodio che vede, fra gli altri, coinvolto il giurista Donato Barbadori e che abbiamo raccontato retro al Capitolo I.

99 BALDUS DE UBALDIS, Consiliorum sive responsorum (volumina), Venetiis, 1580, I, cons. 59, nn. 1- 2; (trad.): «Al di là delle norme pro e contro invocate nel caso di specie, tre punti necessitano di essere messi a fuoco prima di pervenire ad una più fruttuosa esposizione: primo, di quale crimine si sta discutendo; secondo, da quale legge è punito; terzo, qual è la pena». Fra l’altro, lo stesso consilium si trova in una versione manoscritta conservata presso la Biblioteca Vaticana (Vat. lat. 8069, cc. 364v-367), dall’indicativa intitolazione «Utrum no revelare secreta seditionis sit crimen laesae maiestatis». Il parere è consultabile in versione microfilmata al sito www.beic.it/it/articoli/manoscritti-giuridici-medievali. Un’ottima ricostruzione del parere di Baldo e della vicenda ad esso sottesa si trova in FREDONA, Baldus de Ubaldis on Conspiracy and Laesa Maiestas, cit., pp. 141-160.

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maiestas. Sulla base del semplice nome, quindi, esse non possono formare oggetto del

crimine di lesa maestà. Tuttavia, contro di loro, può essere commesso il crimine di sedizione (seditio).

Al di là del suo indiscusso interesse, il parere di Baldo non può comunque essere assunto a valido parametro teorico-dottrinale per comprendere se, tra fine Trecento e primo Quattrocento, le civitates dell’Italia centro-settentrionale, come Firenze, potessero o meno fregiarsi dell’attributo maiestatico per il semplice motivo che si tratta di un parere

pro parte: Baldo sta difendendo un cittadino fiorentino che rischia, oltre alla condanna a

morte, la confisca dei beni, in quanto «rebellis contra rempublicam suae civitatis»100. Lo stesso ragionamento può ripetersi per un fascicoletto che l’Archivio di Stato di Firenze conserva nella particolare sezione dedicata agli Strozzi di Mantova101. Gli Strozzi di Mantova sono quel ramo dell’illustre famiglia cittadina trasferitosi nella città padana dopo le condanne all’esilio del 1382, e mai più rientrato a Firenze. In particolare, Tommaso di Marco Strozzi era stato uno dei maggiori esponenti del regime cittadino uscito dal tumulto dei Ciompi; il rivolgimento politico del 1382 lo costrinse alla fuga a Ferrara, poi in Lombardia, dove i suoi discendenti fondarono il ramo mantovano della famiglia.

Il fascicolo in questione contiene la copia di una rubrica degli Statuti del 1355102 e una rubrica degli Statuti del 1415, oltre ad alcune provvisioni sui condannati nel 1382. Esso non reca alcuna indicazione cronologica; tuttavia, necessariamente, deve essere stato composto dopo il 1415, anno dell’ultima redazione statutaria da cui il compilatore estrapolò il testo della rubrica 52 De non cancellandis condempnationibus et bannis

criminalibus propter nullitatem del libro primo103. Sono, viceversa, facilmente

100 Del resto, già Sbriccoli, che pure cita nel suo studio il consilium di Baldo, coglieva questo aspetto: «la sede del consilium spiega questo atteggiamento non coerente per un giurista legato agli interessi delle civitates, come effettivamente fu il perugino. D’altronde, diverso è il parere di Baldo quando, a proposito della falsificazione delle monete afferma: “Unde cum falsum hoc specialiter committatur contra Caesarem, et in derogationem suae maiestatis, idem dicerem in civitate: quod esset crimen laesae maiestatis si quis subditus istius civitatis falsaret istam monetam”», in Id., Crimen Laesae Maiestatis, cit., p. 211, nota n. 10. 101 ASF, Strozzi di Mantova, 128, cc. 2r, 7r, 9r. Fascicoletto di appena 11 carte.

102 ASF, Statuti del Podestà di Firenze del 1355, 18, libro terzo, rubrica 92 De pena rebellantis aliquem locum vel guerram facientis contra commune Florentie, cc. 37r-37v.

109 ricostruibili le circostanze che portarono alla trascrizione di quei documenti giuridici. I discendenti di Tommaso Strozzi, condannato a morte e quindi fuoriuscito nel 1382, si chiedono se la legge consenta loro di ritornare a Firenze, e raccolgono a tal fine una serie di riferimenti normativi sottoponendoli al giudizio di un esperto di diritto, rimasto anonimo.

Il giurista incaricato prende in esame i vari allegati, annotandoli puntualmente a margine. Il primo provvedimento che l’esperto commenta è una provvisione del dicembre 1382, con la quale i Consigli affidavano ai Signori e Collegi la facoltà di determinare il confino per i condannati per tumulto o congiura nell’anno trascorso. Sul punto, il giurista osserva che la provvisione riguardava i condannati personalmente e non i loro congiunti104.

Subito dopo, l’attenzione dell’esperto cade su un provvedimento del Capitano di Custodia il quale, in virtù dell’autorità a sua volta ricevuta dalla Signoria, dichiarava i diversi termini del confino, coinvolgendo anche i familiari dei condannati. Il giurista annota:

Non vi è alcun motivo di diritto in base al quale, per questo reato, i congiunti siano responsabili l’uno per l’altro, né che per il delitto di uno sia condannato l’altro, al contrario: e d’altra parte non si tratta di un delitto di lesa maestà, secondo l’opinione comune e la pratica corrente105.

Se il delitto in questione fosse stato di lesa maestà, si sarebbero potute attivare tutte le aggravanti processuali e sostanziali, ma dal momento che crimen laesae maiestatis non è, la procedura imposta dal provvedimento della Signoria è ricondotto alla dottrina («ita comuniter tenetur») e alla consuetudine («observatum fuit») nel senso che la condanna di un singolo non comporta una pena per i congiunti.

Vero è che la situazione non muta se scendiamo a considerare, di nuovo da una angolatura statutaria, il progredente ordine penale pubblico nella sua proiezione territoriale. Ad esempio, è interessante notare che al crimen proditionis è intitolata la

104 ASF, Strozzi di Mantova, 128, c. 2r: «Loquitur solum de condempnatis et relegatis […] Ex istis verbis que se cavetur sumpta est occasio disponendi contra coniunctas, quod sine dubio verba non importat». 105 Ivi, c. 7r: «nullo iure cavetur quod coniuncti teneantur pro aliis coniunctis in crimine isto, nec quod ex delicto unius alii sententiantur, ymo appositum, nec istud est casum lese may et ita comuniter tenetur et observatum fuit».

110 rubrica 16, libro primo, dello Statuto di Uzzano del 1389, De pena proditionis, e, similmente, la rubrica 2, libro terzo, dello Statuto di Massa e Cozzile del 1420 qualifica gli atti o comportamenti diretti a provocare una «permutatio pacifici status magnifici et excelsi Comunis Florentie sive Comunis Masse et Cozzilis vel alicuius dictorum castrorum», come proditio e non come crimen laesae maiestatis106.

Là dove tace la legislazione statutaria, è tuttavia altamente probabile che qualcosa emerga dalle centinaia e centinaia di consilia resi da giuristi molto più legati all’esperienza fiorentina di quanto non fu Baldo107, dietro commissione dei pubblici uffici della civitas-respublica – Otto di Guardia inclusi108 – su questioni criminali; una massa archivistica che attende ancora di essere estrapolata e completamente studiata109.

È tuttavia fuor di dubbio che l’apparente silenzio delle nostre rubriche statutarie può essere superato prendendo in considerazione – come abbiamo fatto nei due precedenti paragrafi – le modalità procedurali adottate dalle autorità nell’accertamento e nella repressione dei crimini politici così come l’utilizzo non casuale e preciso di determinati termini tecnici.

106 Lo statuto di Massa e Cozzile del 1420. Le norme giuridiche medievali in uso in un Comune rurale della Valdinievole, edizione e commento a cura di A. Lo Conte e E. Vannucchi, Firenze, Edizioni Polistampa, 2006, rubrica 2, III, De pena homicidii et quorundam aliorum delictorum, pp. 55-56.

107 Il giurista perugino aveva insegnato presso lo Studium fiorentino negli anni dal 1358 al 1364. Più tardi, al tempo dei primi due anni del regime delle Arti minori (1378-1382), aveva fatto ritorno a Firenze, dove scrisse alcuni consilia su importanti questioni politiche. Sulla biografia di Baldo, cfr. F. BAMBI, Baldo degli Ubaldi, in Il contributo italiano alla storia del pensiero. Diritto, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, Treccani, 2012, pp. 55-58.

108 Sfortunatamente, poco si conosce per quanto concerne il ricorrere della magistratura degli Otto di Guardia all’opera dei giuristi per il periodo quattrocentesco. Alcuni esempi di consilia commissionati dagli Otto, nei primi anni del Cinquecento, però, al Guicciardini si trovano in O. CAVALLAR, Francesco Guicciardini giurista. I ricordi degli onorari, Milano, Giuffrè, 1991, in part. pp. 74-78.

109 Il primo ad aver intuito la ricchezza di informazioni che la letteratura consiliare fiorentina è in grado di offrire fu, sul finire degli anni Sessanta del Novecento, Martines, che su quella costruì interamente la sua monografia. Lo storico americano, tuttavia, dette relativa importanza ai consilia in materia penale, concentrandosi su quelli in materia fiscale e di riparto di giurisdizione fra magistrature centrali e periferiche nel governo del Dominio, spiegando così le ragioni della sua scelta (Lawyers and Statecraft, cit., p. 416): «The authority of Florence, more than the rights of its fisc, is what was put to the test here. Generally speaking, when holding out for a prerogative (a claim in the realm of public law), Florence tended to be toughest about those matters which concerned public finance and crime against the state. But as proceedings of the latter type were nearly always summary, legal consilia which touch on public law most often involve fiscal dispute and questions of judicial or administrative competence». Indicazioni utili sui consilia eventualmente da intercettare si trovano nel repertorio di G. DOLEZALEK, Verzeichnis der Handschriften zum römischen Recht bis 1600, 4 voll., Frankfurt a. M., 1972.

111 E non è nemmeno del tutto azzardato ipotizzare, per Firenze, l’esistenza legislativa dell’attributo maiestatico, con tutto l’annesso armamentario repressivo, atteso che testi statutari compilati in altre realtà dell’Italia centro-settentrionale – le città lombarde, su tutte –, addirittura in epoca anteriore a quelli fiorentini, ricorrono senza tante