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Profili egemonici del penale negli Statuti fiorentini del primo Quattrocento

2. Il paradigma dell’infrazione politica I crimini contro l’ordo civitatis.

La sezione penalistica così come riorganizzata nell’ambito del libro terzo degli Statuti del 1415, non si discosta in maniera significativa né dalle pregresse redazioni trecentesche né dalla Collatio VIII De maleficiis della versione del 140924. Al di là del dato quantitativo – 198 rubriche contro le 242 della versione del Montegranaro25 – la maggior parte delle disposizioni ospitate nel libro terzo degli Statuti del 1415 è modellata sulle rubriche del codice del 1409, a loro volta mutuate dalla silloge del 1355 e così via,

22 ASF, PR. 106, cc. 67v-69r.

23 Ivi, c. 67v: «in se multas continere obscuritates, intricationes et varietates et propterea posse gravia rei publice negotia perturbari dubia simul et scandala suscitari».

24 Cfr. TANZINI, Gli statuti fiorentini del 1409-1415: problemi di politica e diritto, in «Reti Medievali Rivista», III (2002), 2: «La materia penalistica è senza dubbio una delle più conservative negli statuti cittadini, nel senso che le norme penali e di procedura penale tendono ad essere ripetute con variazioni assai lievi nelle diverse redazioni statutarie, anche attraverso mutamenti politici ed istituzionali di rilievo». 25 Un numero, comunque, consistente considerando che, negli Statuti del 1322-1325, si raggiungeva un totale di 153 disposizioni a carattere criminale (132 nello Statuto del Podestà e appena 21 nello Statuto del Capitano del Popolo).

87 com’era d’altronde nella logica stessa del diritto statutario che, formatosi storicamente come corpus normativo ad implementazioni progressive, assai raramente ammetteva l’istituto della abrogatio26. Esemplificativo ai fini di questo discorso il testo della rubrica 2 De officio iudicum maleficiorum, et de modo procedendi in criminalibus, sullo svolgimento del processo penale27. È, in larghissima parte, la stessa disposizione che possiamo leggere negli Statuti del 1322-1325 e in quelli del 1409. Questa rubrica è significativa per due altre ragioni. In primo luogo, essa ci dà la conferma che, nel primo decennio del Quattrocento, il processo penale fiorentino è ancora compromesso con elementi della tradizione negoziale; non mancano, infatti, riferimenti a giuramenti e fideiussori. Permane persino l’obbligo di rivolgersi al giudice nella cui giurisdizione era compreso il quartiere non già dove era avvenuto il crimine, bensì dove dimorava l’accusatore, se questi era cittadino o comitatino o distrettuale, in omaggio al principio di diritto comune sequatur reus foram actoris. Addirittura, il reo doveva essere citato in giudizio a spese dell’accusatore. Un modo di procedere, quindi, di base accusatorio con punte di inquisitorio, ravvisabili tanto in una più rigorosa e puntuale regolamentazione dell’uso della tortura e della validità della confessione così ottenuta, quanto in una più scrupolosa registrazione di ogni singolo atto del processo penale.

Bisogna, pertanto, ricercare altrove i principi egemonici del penale informati a quel paradigma dell’infrazione politica, che crediamo di poter intercettare nel blocco di rubriche sui crimini politici. Lì, come andiamo subito a verificare, si percepisce tutt’altro.

Si tratta, con ogni probabilità, della sezione del libro terzo sulle cause penali più innovativa, nel senso che non si riscontrano negli Statuti trecenteschi così tante e, sovente, minuziose disposizioni su atti o comportamenti diretti a sovvertire il quieto, pacifico,

26 Cfr. TANZINI, Il governo delle leggi, cit., p. 66: «In un ordinamento fondamentalmente consuetudinario, l’atto di introdurre una novità attraverso un decreto, ovvero nel caso cittadino attraverso una provvisione o riformagione consiliare, è sempre sottoposto alla necessità della iusta causa: la norma, infatti, trova la sua giustificazione soprattutto a livello oggettivo, nel suo valore intrinsecamente giusto o necessario, e molto meno a livello soggettivo, come espressione di una volontà sovrana. Di conseguenza, ogni legge di per sé, soltanto per il fatto di esistere, assume un valore proprio che le impedisce di essere cancellata o abrogata per un solo atto volontaristico del princeps: in questo sta il motivo essenziale per cui difficilmente la norma medievale è abrogata, ma molto più di frequente derogata».

88 libero e guelfo stato del Popolo e del Comune di Firenze28. Ed è anche la sezione che, forse in considerazione della delicatezza della materia trattata, ha subìto qualche rimaneggiamento fra la redazione del 1409 e quella, definitiva, del 1415. Più precisamente, se la maggior parte di queste rubriche viene mantenuta, scompare tuttavia la disposizione più significativa al riguardo nella compilazione curata da Giovanni da Montegranaro: la rubrica 70 De confinandis condempnatis pro faciendo contra status et

de pena coniunctorum si illi non servaverint confinia et de premiando eos occidentes29, della Collatio VIII. Per il resto, sono le stesse previsioni che, con riferimento al libro terzo della redazione del Castrense, ritroviamo nelle rubriche: 39, 60-68, 71, 73, 163.

Nell’esaminare il blocco di rubriche isolate, percorreremo due strade: da una parte, insisteremo sul modus procedendi seguito dalle autorità nell’accertamento e nella repressione degli atti o comportamenti eversivi dell’ordo civitatis così come delineato nelle nostre rubriche, dall’altra ne valuteremo il lessico. Lessico che ci riconduce, senza ombra di dubbio, al filone di elaborazione teorico-dottrinale, nato a partire dalle celebri costituzioni dell’imperatore Enrico VII del 1313 Qui sint rebelles e Ad reprimendum inserite nella Decima Collatio del Corpus Juris Civilis e glossate da Bartolo, del crimen

laesae maiestatis. E il presente rilievo ci porterà inevitabilmente a confrontarci con

l’annoso problema se già a quei tempi, per i giuristi, ribellarsi a Firenze configurasse lesa maestà. Capire ciò è necessario a verificare se, all’epoca della compilazione statutaria in

28 Sfogliando a tal proposito lo Statuto del Podestà del 1325, rintracciamo appena un paio di disposizioni di questo tipo e, precisamente, la rubrica 103 De congragatione non facienda nisi certo modo e la rubrica 104 De pena acclamantis et concitationem facientis. Un grado di innovatività, quello incarnato dalle previsioni sui crimini politici, che non sembrano presentare neppure gli Statuti del 1355. La novità, dunque, è tutta quattrocentesca. Il testo delle rubriche menzionate è consultabile in Statuti della Repubblica fiorentina, cit., vol. 2, pp. 233-235.

29 Sul contenuto di questa rubrica e sulle particolari ragioni della sua cassazione, vedi TANZINI, Statuti e legislazione a Firenze dal 1355 al 1415, cit., pp. 290 e 293. Se, tendenzialmente, l’assetto normativo trecentesco non conosceva l’abrogazione delle leggi, gli sviluppi della fine del secolo giunsero, tuttavia, a qualcosa di molto vicino. A partire dagli anni Ottanta del Trecento inizia a diffondersi una tipologia di provvedimento consiliare finora sconosciuta, la suspensio legum. Presto, questa novità, nata nel contesto delle provvisioni, verrà ad interessare le stesse rubriche statutarie. Infatti, la redazione del 1415 non si limitava ad un’opera di aggiornamento e integrazione, ripetendo l’impostazione consuetudinaria del diritto statutario trecentesco, ma aveva l’ambizione di erigersi a codice onnicomprensivo, dentro il quale potesse convergere tutta la legislazione corrente, ivi incluse quelle provvisioni che avevano sperimentato la tecnica della suspensio. È probabile che qualcosa del genere, oltre alle più rilevanti motivazioni politiche, abbia comportato la mancata inclusione della rubrica 70 nel codice del 1415. Del resto, fin dalla sua prima formulazione, il progetto statutario era stato ispirato dalla costituzione giustinianea Deo auctore, rivendicando con quella la facoltà di rimodellare, anche per via di abrogazione, la legislazione precedente.

89 esame, la civitas-respublica si fosse dotata di quel massimo «strumento di arbitraria repressione di ogni forma di dissenso politico»30, insito nel sistema del crimen laesae

maiestatis.

Nell’ambito del modus procedendi occorre distinguere due momenti: il momento dell’infrazione politica vera e propria, e il momento della risposta repressiva31. Nel blocco di rubriche selezionate occorrerà, dunque, verificare: per il momento dell’infrazione, l’oggetto dei crimini politici e la condotta o le condotte in cui detti crimini politici si estrinsecano; per il momento della risposta repressiva, le pene comminate e l’iter giudiziario per il quale si arriva a comminare quelle pene.

L’oggetto dei molteplici atti o comportamenti che le rubriche statutarie considerano è, senza ombra di dubbio, l’ordo civitatis, frammento di quell’ordo più ampio che è l’ordine naturale delle cose orchestrato dalla grazia divina. Quest’ordo può essere violato in due modi, e questa distinzione ci lascia apprezzare il passaggio, storicamente saliente, dalla Firenze urbana alla Firenze territoriale: o offendendo direttamente la civitas dominante oppure offendendo il suo Dominio.

Nel primo caso, le previsioni in esame impiegano espressioni del tipo «contra statum pacificum, liberum, tranquillum, et guelfum civitatis Florentiae»32, «pacifici status populi et communis Florentiae»33, «contra libertatem ipsius [populi]»34, «contra pacificum statum»35.

Nel secondo caso, i compilatori degli Statuti hanno inteso restituire il senso della nuova proiezione territoriale della civitas-respublica fiorentina, ricorrendo a lessemi del genere «aliquam civitatem, terram, vel castrum dicto communi Florentiae suppositum,

30 SBRICCOLI, Crimen Laesae Maiestatis, cit., p. 255.

31 Ivi, pp. 363-365. Sbriccoli qualifica il momento dell’infrazione come il momento della rottura di un equilibrio e di uno status quo; il momento della repressione come il tentativo di imporre il ritorno alla situazione precedente, attraverso la punizione dei colpevoli e l’uso in senso dissuasivo della carica di terribilità da essa proveniente.

32 Statuti di Firenze del 1415, III, 60 De poena non revelantium tractatum, vol. I, p. 278, dell’edizione a stampa.

33 Ivi, III, 61 De poena facientis congregationem, vel invitatam pro violatione status pacifici civitatis Florentiae, vel invadendo aliquam civitatem, vel locum, vol. I, pp. 278-281, dell’edizione a stampa. 34 Ibidem.

35 Statuti di Firenze del 1415, III, 62 De premio revelantium tractatum, vol. I, pp. 282-283, dell’edizione a stampa.

90 seu in qua, vel quo dictum commune Florentiae haberet aliquam praeheminentiam, iurisdictionem, vel custodiam»36, «aliquam terram, castrum, vel fortilitiam ipsius communis, seu ipsi communi per modum custodiae, seu praeeminente subiectum»37.

Talvolta si può arrivare a colpire l’ordo civitatis, inteso sempre nella sua duplice dimensione, anche offendendo Signori e Collegi38, ovvero contravvenendo alle sue leggi fondamentali, come, ad esempio, compiendo atti o tenendo comportamenti in spregio degli «ordinamentorum iustitiae dicti populi [Florentiae]»39. Perché «la ribellione dei sudditi va evitata» anche conservando «le istituzioni» e «le leggi»40.

Se, dunque, l’oggetto dei crimini politici può ritenersi abbastanza circoscritto e definito, le modalità materiali, concrete, attraverso le quali quell’oggetto – l’ordo civitatis – può dirsi violato, sovvertito, turbato, alterato, travalicano gli steccati del certo e del definito, scomponendosi in un novero davvero imponente di occasioni del delinquere. Vanno incontro alla stretta mortale della repressione condotte del genere «facere aliquam invitatam, seu congregationem gentium, conventiculam, conspirationem, vel posturam pro violatione, vel subversione pacifici status populi, et communis Florentiae»41, ovvero il fatto di chi porti innalzata nella città qualsiasi insegna o bandiera «pro faciendo aliquam turbationem, aut tumultum, vel rumorem, seu scandalum»42. Addirittura la rubrica 71 De

litteris, vel nuntiis non mittendis ad inimicos communis Florentiae43 punisce tutti coloro che avessero in animo di inviare lettere, nunzi, denaro, cavalli o armi a qualunque «inimicos publicos communi Florentiae», ovvero di offrire loro qualsiasi ausilio, consiglio o favore, tacitamente o occultamente, oppure che ricevano da quelli lettere o messaggeri.

Un discreto numero di rubriche insiste, poi, sugli atti o comportamenti che offendono l’ordo civitatis nella dimensione esterna, quella cioè del Dominio territoriale.

36 Statuti di Firenze del 1415, III, 61. 37 Ivi, III, 62.

38 Come nel contesto della rubrica 39 De poena offendentis Dominos Priores, et alios officiales. 39 Come enunciato nella rubrica 61.

40 SBRICCOLI, Crimen Laesae Maiestatis, cit., p. 311. 41 Statuti di Firenze del 1415, III, 61.

42 Ivi, III, 65 De poena elevantis banderiam, vel insignam in civitate Florentiae pro rumore, vel tumulto faciendo, vol. I, p. 285, dell’edizione a stampa.

91 Al di là degli accenni più o meno consistenti, disseminati un po’ lungo tutto il segmento di disposizioni statutarie isolato44, possiamo leggere rubriche appositamente dedicate a questo specifico profilo della sovversione.

È il caso, innanzitutto, della rubrica 63 De poena rebellantis aliquem locum, vel

guerram facientis contra commune Florentiae45, dove assurge al rango di condotta penalmente rilevante il fatto di chi induca «aliquod castrum, terram, vel fortilitiam» a ribellarsi «contra populum, et commune Florentiae». Oppure, di chi invada o occupi uno dei posti suddetti e li mantenga in questo stato sempre nell’ottica di ribellarsi a Firenze, anche muovendo guerra contro la Repubblica. Viene, quindi, punito il comportamento di chi si ribelli «derobando, vel praedando, vel hostiliter cum banderiis elevatis in comitatu, vel districtu Florentiae, seu in terras, quas tenebat, vel tenet, vel tenebit dictum commune in vituperium populi, et communis Florentiae». Vengono, da ultimo, sanzionati quanti, nei luoghi menzionati, offrano qualunque forma di ausilio ai promotori dell’azione ribelle.

Ancor più indicativa, la rubrica 68 De poena dantis, vel restituentis aliquam

fortilitiam communis Florentiae alteri quam dicto communi46, soprattutto laddove punisce il fatto di chiunque invaderà, occuperà, prenderà o riprenderà delle fortezze erette fra contado e distretto e sottoposte al controllo permanente o temporaneo della Dominante, «minuendo de iurisdictione, custodia et honorantia dicti communis». Si avverte, in quest’ultimo lessema, un senso di unità territoriale molto forte – lo suggerisce l’uso del verbo «minuere» – e, nello stesso tempo, si percepisce il notevole impegno profuso nel difendere da minacce di qualsiasi tipo – vedi in tal senso la cura dedicata ai fortilizi – quest’unità così faticosamente conquistata e in via di progressiva implementazione. Anche perché la salvezza della civitas-respublica e, inevitabilmente,

44 Tipo il «pro invadendo aliquam civitatem, terram, vel castrum dicto communi Florentiae suppositum, seu in qua, vel quo dictum commune Florentiae haberet praeheminentiam, iurisdictionem, vel custodiam» alla rubrica 61.

45 Statuti di Firenze del 1415, III, 63, vol. I, pp. 283-284, dell’edizione a stampa. 46 Ivi, vol. I, pp. 287-288, dell’edizione a stampa.

92 della stessa élite al potere, dipende dall’accrescimento del territorio che circonda il quadro urbano e, prima ancora, dalla conservazione delle aree già assoggettate47.

Non ci si contenta della pura e semplice estrinsecazione materiale della condotta. Si può, infatti, essere puniti per la sola cogitatio ovvero per essere conscii non revelantes, come limpidamente attesta il dettato della rubrica 60 De poena non revelantium

tractatum48.

Lasciamoci dietro il momento dell’infrazione – e cioè il momento in cui il perturbatore dell’ordo civitatis agisce, o anche solo cospira nella sfera occulta della sua mente, contro l’ordine costituito, minacciando la perpetuazione del potere – e scandagliamo più distesamente il momento in cui la civitas-respublica e, nel concreto, chi la rappresenta e la anima, reagisce a tutti quei crimini che la offendono direttamente49. E compiamo un procedimento inverso, cioè a dire, sfogliamo prima il catalogo delle pene e poi, da quello, risaliamo all’iter giudiziario culminante nella irrogazione di quelle sanzioni.

Il catalogo contempla, innanzitutto, la pena suprema, la pena capitale. Pressoché l’intero blocco di rubriche selezionate ne fa menzione50. Ma quello che più comunica il penetrante grado di egemonizzazione del penale, misurabile nel saggiare il livello di efferatezza della punizione del colpevole, è il supplizio minuziosamente descritto nella rubrica 61: lacerazione delle carni con ferri roventi punitori o vendicatori («ultoribus») fino al patibolo, impiccagione con al collo una catena di ferro in maniera che nessuno

47 Cfr. GUICCIARDINI, Sui discorsi del Machiavelli, in Opere inedite di Francesco Guicciardini illustrate da Giuseppe Canestrini e pubblicate per cura dei conti Piero e Luigi Guicciardini, Firenze, Barbera, Bianchi e Comp., Tipografi-Editori, 1857, Vol. I, pp. 69-70, Considerazioni sul Capitolo XIX: «Chi dubita che la città di Firenze, che la repubblica di Vinegia sarebbono più deboli e di minore potenza se avessino rinchiuso il territorio loro tra piccoli confini che non sono? Avendo domato le città vicine, e allargato la loro iurisdizione, non è facile a ogni vicino assaltarle; non per ogni debole accidente si travagliano; tengono, se non viene moto grande, lo inimico fuori del tuorlo del suo Stato; non si accosta facilmente la guerra alle loro mura; fa la città dominante in privato più ricca».

48 Statuti di Firenze del 1415, III, 63, vol. I, p. 278, dell’edizione a stampa.

49 Perché come osserva SBRICCOLI, Crimen Laesae Maiestatis, cit., pp. 363-364, il reato politico «non si riduce, tout court, allo stabilirsi di una serie imponente di occasioni del delinquere, né tutta la sua essenza si risolve nella sottile costruzione di un ingranaggio complicato, capace di rispondere con prontezza e su di un’area estesissima, ad ogni possibile minaccia politica. Anche la risposta conta: non sono indifferenti la sua qualità, l’intensità che la caratterizza, il modo in cui viene data. Contano, cioè, e molto, le pene comminate e l’iter giudiziario per il quale si arriva a comminarle».

93 possa sottrarre il suppliziato all’esecuzione della giustizia pubblica – magari per evitare che la folla inferocita ne faccia scempio51.

Così come quasi tutte le disposizioni statutarie in esame concordano nel comminare al reo la confisca dei beni, con drammatiche ripercussioni sul nucleo dei familiari innocenti, in alcun modo coinvolti nel delitto52.

Altra costante è la diffamazione, la squalificazione del sovvertitore dell’ordine politico agli occhi della comunità intera, attuata nella maniera fissata, ancora una volta, dalla rubrica 61 – che non esiteremo a definire un po’ il cardine del sistema dei crimini politici disciplinati dagli Statuti fiorentini del 1415. Si dispone, cioè, la registrazione dei condannati come proditores in un apposito elenco tenuto presso l’ufficio di Parte Guelfa, intervenuta la quale era proibito ricoprire qualunque carica pubblica, comminando ulteriori pene di natura pecuniaria ai contravventori, pure qualora la sentenza di condanna fosse stata successivamente annullata53.

Sfidare le regole dell’ordo, il più delle volte, significava per il reo subire il bando, come si evince chiaramente dal testo della rubrica 163 De premio dando occidentibus

bannitos, et condemnatos pro rebellione, turbatione, vel subversione status, seu tractatu54, dove si prevede che chiunque sia stato condannato a morte «occasione rebellionis, turbationis, vel subversionis status pacifici civitatis Florentiae, seu tractatu facti contra dictum statum», possa, in qualunque parte del mondo, essere ucciso ovvero offeso in altro modo, impunemente. E chiunque lo uccida o lo consegni alle autorità beneficerà di alcuni privilegi55.

51 Statuti di Firenze del 1415, III, 61, vol. I, p. 278, dell’edizione a stampa: «debeat ultoribus ferris, seu tanaliis in eius corpore lacerari, seu attanaliari, vulgariter intellecto vocabulo, et demum suspendi cum catena nullatenus deponendus sed super furcis continuo stare debeat».

52 La publicatio omnium bonorum è menzionata nelle rubriche 61, 63, 65.

53 È tuttavia interessante notare come il marchio di infamia rappresentato dalla registrazione dovesse essere circoscritto alla sola persona direttamente responsabile. Anzi, si impone al notaio o cancelliere della Parte tenutario del registro di curare che questa pena infamante non recasse pregiudizio ai figli o comunque ai congiunti della persona condannata.

54 Statuti di Firenze del 1415, vol. I, pp. 363-366, dell’edizione a stampa.

55 Piuttosto ricca la letteratura di diritto comune sul bando: NELLUS DE SANCTI GEMINIANO, De Bannitis, in Tractatus universi iuris, vol. XI, Venetiis, 1584; IACOBUS DE ARENA, Tractatus de bannitis, in Tractatus illustrium iurisconsultorum, vol. XI, Venetiis, 1584; BARTOLUS DE SASSOFERRATO, Tractatus Bannitorum, 5 Praeses Provinciae, in Opera, quae extant, omnia, X, Venetiis, 1596. Per una ricognizione d’insieme, vedi A.A. CASSI, Il “segno di Caino” e “i figliuoli di Bruto”. I banditi nella

94 Laddove gli Statuti non indichino espressamente la pena che il reo dovrà subire, si lascia spazio all’arbitrium iudicis, come nel contesto della rubrica 66 De poena

clamantium, vel concitationem facientium56.

Come le pene, così anche l’iter giudiziario viene incanalato lungo i solchi dell’egemonico. Il processo può partire per denuntiationem vel notificationem oppure ex

officio vel inquisitionem. Si fa di tutto perché le trame cospirative partorite nel segreto

conoscano la luce della verità; pertanto, pure nel caso che non intervenga l’iniziativa d’ufficio, si stimola il civis obbediente a informare le autorità, premiando la sua fides alla

respublica e al regime di potere che la guida, con somme di denaro ovvero concedendogli

licenza di girare per la città e il suo Dominio portandosi dietro armi sia da offesa (di regola, proibite) sia a difesa57. Torna ad essere indicativa in tal senso la rubrica 61: la eventuale denuncia – eventuale, potendo il giudice procedere anche ex officio vel

inquisitionem – non deve necessariamente essere pubblica né sottoscritta, incentivando

così le delazioni. A ciò si aggiunge la previsione di dare ai Rettori «plenum et liberum arbitrium» tanto nell’istruzione, quindi nella raccolta delle prove («in inquirendo»),