• Non ci sono risultati.

La capacità naturale

Nel documento Dipartimento di Giurisprudenza (pagine 188-194)

INTRODUZIONE STORICA

3. IL CONSENSO INFORMATO COME CONQUISTA DI CULTURA E DI CIVILTÀ DEI VALORI DELLA PERSONA CIVILTÀ DEI VALORI DELLA PERSONA

3.1 I requisiti di validità dell’informazione e del consenso: introduzione

3.1.13 La capacità naturale

Fino ad ora si è, in parte, sottinteso un dato fondamentale – anticipato nel paragrafo dedicato alle “Eccezioni alla regola del consenso del paziente” – specialmente per addivenire alla trattazione del cuore del tema in oggetto: perché il paziente possa

905 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.

906 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.

907 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.

908 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.

909 G. M. Vergallo, op. cit. 176 ss.

184

esercitare validamente la libertà di autodeterminazione deve essere capace di intendere e di volere910. Dunque, altra situazione in cui emerge la delicatezza dell’esercizio della professione medica, nel suo aspetto medico-legale, si ha nei casi in cui la persona bisognosa di cure, pur legalmente capace, non sia in grado di condividere le proposte terapeutiche o di rifiutarle911. In tale evenienza, il medico può essere chiamato a rispondere di trattamento arbitrario, che ha rilevanza anche penale, per aver praticato un intervento senza verificare la possibilità per il paziente di recuperare la capacità di intendere e volere e di esprimere un valido consenso912. Di conseguenza, è opportuno stabilire quali sono i comportamenti che il medico deve adottare e quali quelli da cui astenersi. La dottrina medico-legale, in proposito, ha introdotto una criteriologia valutativa fondata su tre parametri: la reversibilità dello stato di incapacità; la gravità e le potenzialità evolutive della malattia; l’utilità e la procrastinabilità dell’intervento913. Dal concorso di questi tre fattori si ricava l’individuazione dei casi in cui l’agire medico è doveroso. Il primo profilo riguarda l’accertamento del carattere non transitorio dello stato di incapacità, ossia il medico deve verificare se quest’ultimo non possa modificarsi in tempo utile affinché il malato sia in grado di esprimere la sua volontà914. Il secondo attiene all’idoneità della condizione clinica del paziente ad evolvere in un danno irreversibile per la sua integrità fisica. La terza variabile, invece, tiene conto dell’eventuale possibilità di posticipare il trattamento. Quando il paziente è esposto ad un pericolo concreto per la vita, o ad un grave pregiudizio per la sua salute, ed il suo stato di incapacità sia irreversibile o comunque persistente, il medico non deve lasciarsi condizionare dalla necessità di ottenere il consenso informato al trattamento915. Infatti, l’obbligo di curare trova il proprio limite nella difforme volontà del malato, la quale non può riscontrarsi in tali ipotesi perché egli non è in grado di formare il proprio convincimento916. Una stabile condizione di incapacità, tale da rendere ragionevolmente

910 G. M. Vergallo, op. cit. 137 ss.

911 G. M. Vergallo, op. cit. 137 ss.

912 Anche la scelta di procrastinare il trattamento nell’attesa che il paziente recuperi le sue capacità cognitive può essere fonte di responsabilità per il sanitario qualora ne derivi un danno o, peggio, la morte del paziente, temporaneamente incapace. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 137 ss.

913 D. Rodriguez, “Ancora in tema di consenso all’atto medico-chirurgico. Note sulla sentenza del 10 ottobre 1990 della Corte D’Assise di Firenze”, op. cit. 1143. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 137 ss.

914 G. M. Vergallo, op. cit., 137 ss.

915 G. M. Vergallo, op. cit., 137 ss.

916 D. Rodriguez, ne “Ancora in tema di consenso all’atto medico-chirurgico. Note sulla sentenza del 10 ottobre 1990 della Corte D’Assise di Firenze”, op. cit., 1143, evidenzia come il riconoscimento dell’obbligo del medico di intervenire nelle situazioni di incapacità non tempestivamente reversibili, non equivale a legittimare i trattamenti sanitari arbitrari, in quanto il medico in questi casi si assume anche la responsabilità dell’esistenza dei presupposti che lo obbligano ad omettere la procedura di informazione ed acquisizione del consenso, ossia l’irreversibilità in tempo utile dello stato di incapacità e l’impossibilità di

185

inutile il differimento del trattamento, dovrebbe determinare in capo al medico l’obbligo di intervenire anche nei casi in cui il danno al paziente sia solo lieve e temporaneo, purché ovviamente il rapporto tra costi e benefici resti vantaggioso per il malato917. Lo stesso obbligo opera nei casi in cui il rinvio del trattamento, nonostante il carattere transitorio dello stato di incapacità, sia impedito dall’urgenza della situazione clinica.

Se, invece, è possibile rinviare la prestazione terapeutica, in quanto non necessaria nell’imminente, e sussiste la possibilità, scientificamente fondata, che il paziente torni compos sui, è obbligo del medico aspettare918. Se il malato recupera la capacità prima che l’evoluzione della patologia renda necessario un trattamento finalizzato ad evitare un pregiudizio alla salute, il medico gli dà l’opportunità di scegliere se essere informato e, conseguentemente, se acconsentire o meno alla proposta terapeutica. Se, invece, l’evoluzione dello stato morboso matura quando il malato non è ancora capace di decidere, l’obbligo di cura non incontra ulteriori limitazioni919.

rinviare il trattamento in quanto il differimento lo renderebbe inefficace. A sostegno di quest’impostazione si può rilevare che, ferma restando ovviamente la responsabilità in relazione all’indicazione del trattamento ed alle modalità della sua realizzazione, quando si esegue una prestazione terapeutica che sarebbe pericoloso per il paziente procrastinare in attesa che questi recuperi le capacità di autodeterminarsi, è improprio parlare di violazione della regola del consenso informato. Infatti, l’acquisizione del consenso non è possibile nei casi di incapacità persistente ed inutile, se non dannosa, nelle ipotesi di irreversibilità in tempo utile dello stato di incapacità o di rinvio pericoloso del trattamento.

Pertanto, in tali circostanze, l’intervento del medico non rappresenta una violazione della regola del consenso, bensì l’adempimento di un obbligo di diligenza professionale che trova il proprio fondamento nell’esigenza di evitare che la regola del consenso si rivolga a danno dello stesso soggetto che invece ne dovrebbe beneficiare, ossia del paziente. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

917 G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

918 F. Giunta, “Il consenso informato all’atto medico tra principi costituzionali e implicazioni penalistiche”, op. cit., 383, secondo il quale è in concreto improbabile che il differimento del trattamento possa avvenire senza pregiudizio per la salute del paziente, in quanto il decorso del tempo aumenta il rischio per il soggetto bisognoso di cure. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

919 G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

186

4. IL CONSENSO INFORMATO IN PSICHIATRIA: INTRODUZIONE

Si rende necessario, giunti a questa sezione della trattazione de quo, individuare il punto di contatto tra quanto illustrato fino ad ora e la sua applicazione – il quomodo del suo manifestarsi – nella scienza psichiatrica. Parallelamente all’avvento delle tematiche connesse alla bioetica ed alla maturazione deontologica della classe medica, anche la psichiatria ha rivisto il proprio ruolo sociale ed ha trasferito il campo d’azione dalle strutture manicomiali al territorio920. Il radicale cambiamento nel modo di considerare il soggetto affetto da disturbi psichici, avviato con la legge 431/1968 e portato a compimento con la legge 180/1978, ha trasformato il malato di mente da “oggetto” di custodia e di coercizione intramurale in soggetto che, se non interdetto o minore di anni 18, ha il diritto di decidere circa la propria salute, a meno che ricorrano i presupposti del trattamento sanitario obbligatorio921. Anche nel caso della malattia mentale, pertanto, il rispetto per la dignità umana (“Menschenwürde”, in tedesco) impone al medico di provare a riconoscere al paziente psichiatrico spazi di autodeterminazione, che devono essere cercati attraverso l’incontro umano: è scomparso il filtro della malattia mentale e dell’istituzione psichiatrica922. Tuttavia, la “battaglia non è stata del tutto ancora vinta”, come il Cupelli ha affermato, poiché il ricovero negli ospedali psichiatrici giudiziari , noti come OPG (breviter), rappresenta/va la misura di sicurezza personale detentiva riservata, ex art. 222 c.p., agli autori di delitti dolosi, puniti in astratto con la reclusione superiore nel massimo a due anni, che, prosciolti per vizio totale di mente determinato da infermità psichica ovvero per intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti, siano stati ritenuti pericolosi923. La misura di sicurezza degli OPG è temporalmente indeterminata, definendone il codice penale la durata minima in relazione alla pena stabilita per il reato924. Decorso questo periodo, il giudice prende nuovamente in esame le condizioni della persona internata, per stabilire se sia ancora socialmente pericolosa e se risulta tale l’autorità giudiziaria fissa un nuovo termine per

920 G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.; C. Cupelli, “La responsabilità penale dello psichiatra”, Napoli, 2013, 63 ss.

921 F. Fasolo, “Etica e psichiatria. Dal manicomio al territorio”, Padova, 1994. Si veda C. Cupelli, op.

cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

922 P. Dell’Acqua, “Persone, malattia mentale e guarigione”, Milano, 2011, 783 ss.; E. Borgna, “Di armonia risuona e di follia”, Milano, 2012, 151 ss.; G. Allegri, “Per una “ragionevole follia”: le pratiche possibili di un nuovo costituzionalismo garantista, in Libertà sospesa. Il trattamento sanitario obbligatorio. Psicologia, psichiatria e diritti”, Roma, 2012, 9 ss. C. Cupelli, op. cit., 63 ss.

923 G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

924 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

187

un ulteriore esame, prorogando la misura segregante, ex art. 208 c.p.925 In realtà accade che la proroga intervenga comunque quando la famiglia d’origine o le strutture sanitarie territoriali non siano in grado di prendere in carico chi avrebbe il diritto di uscire dagli ospedali: si realizza così una sorta di “ergastolo bianco”926. Sono, inoltre, venute alla luce le gravità delle condizioni igienico-sanitarie, organizzative e clinico-psichiatriche dei sei OPG esistenti in Italia relativamente all’assetto strutturale ed alle condizioni appena menzionate, all’assistenza socio-sanitaria, prestata dal personale medico, infermieristico, riabilitativo, educativo, ausiliario e sociale, e alle contenzioni fisiche ed ambientali927. È come se la riforma del 1978 si fosse tradotta in un “mero mutamento di etichetta”, da “manicomio giudiziario” in “ospedale psichiatrico giudiziario”, dalla natura essenzialmente custodialistica e repressiva, incurante delle esigenze di cura, di riabilitazione e di reinserimento sociale nel rispetto delle fondamentali garanzie costituzionali della tutela della salute e della dignità della persona928. Tuttavia, con la Legge del 30 maggio 2014 n. 81 gli operatori sanitari sono stati chiamati a “governare”

le nuove strutture residenziali territoriali ove sono eseguite le misure di sicurezza, le c.d.

REMS, costituendo esse un rischio di “ritorno al passato”929. Il timore nasce osservando come all’interno delle strutture, destinate a soppiantare gli “indegni” OPG930, continuino a convivere compiti sanitari, indirizzati al trattamento ed al recupero dei

“malati” di mente, e “funzioni penitenziarie”, improntate al controllo ed alla custodia degli internati; con la differenza che mentre in passato la netta separazione tra

925 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

926 F. Schiaffo, “Le funzioni latenti del sistema penale: l’ospedale psichiatrico giudiziario”, in Crit. dir., 2012, 277, il quale sottolinea che “la funzione dell’ospedale psichiatrico giudiziario sembra risolversi essenzialmente nel ricovero e quindi nella cura di quelli che un tempo, a seconda del momento in cui è intervenuta la infermità psichica, venivano considerati folli rei o rei folli” e ad esso “potrebbero essere destinate esigenze sociali molto diverse da quelle del controllo penale”, e le sue funzioni reali e latenti

“potrebbero farne un sostituto o equivalente funzionale di altre strutture sociali, non necessariamente penali, che, in contesti sociali più o meno ampi, non funzionano come dovrebbero o, peggio, non esistono”.Si veda C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

927 C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

928 G. Fiandaca-E. Musco, “Diritto penale. Parte generale”, Bologna, 2009, 839 ss; A. Manna,

“L’imputabilità e i nuovi modelli di sanzione. Dalle “finzioni giuridiche” alla “terapia sociale”, Torino, 1997, 231 ss. Si veda C. Cupelli, op. cit., 63 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 139 ss.

929 C. Cupelli, “La colpa dello psichiatra. Rischi e responsabilità tra poteri impeditivi, regole cautelari e linee guida”, in “Diritto penale contemporaneo”, 7 ss.

930 Già con il D.P.C.M. 1 aprile 2008 (in particolare allegato C) ha preso avvio la c.d. sanitarizzazione degli OPG, con il traferimento della medicina penintenziaria al Servizio Sanitario Nazionale, con residue funzioni organizzative e di raccordo in capo all’Amministrazione penitenziaria ; il D.P.C.M., recante

“Modalità e criteri per il traferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria”, ha infatti espressamente previsto il trasferimento delle funzioni sanitarie svolte in tutti gli istituti penitenziari, OPG compresi, dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale, pur restando la struttura un’istituzione penitenziaria, governata quindi dal Ministero della Giustizia. C.

Cupelli, op. cit., 7 ss.

188

amministrazione penitenziaria ed amministrazione sanitaria, caratterizzata da latenti conflittualità e reciproca diffidenza, consentiva di marcare la distinzione tra compiti esclusivamente terapeutici, demandati agli operatori psichiatrici, ed aspetti custodiali e securitari, rimessi ai soli rappresentanti dell’amministrazione penitenziaria, l’odierna attribuzione in via esclusiva della gestione interna delle strutture alla componente medica finisce per riservare a questa anche i relativi compiti di “gestione della sicurezza”931. L’effetto prodotto è il seguente: avvenuta la sanitarizzazione, i due profili di cura e di custodia appaiono destinati a sovrapporsi, cossicché lo psichiatra sarà nuovamente chiamato a “garantire”, in via primaria, l’ordine pubblico e la tutela della collettività, con le annesse ricadute sul piano delle responsabilità penali che, proprio alla luce del segnalato trend giurisprudenziale, ne potranno derivare932. Questo è, dunque, il contesto profondamente instabile ed intrinsecamente “contraddittorio”, nel quale lo psichiatra da sempre si trova ad operare, stretto fra “l’incudine ed il martello”933 – come si vedrà in seguito nel paragrafo dedicato alla “posizione di garanzia dello psichiatra” – o meglio “tra due fuochi”, che incontra già nello stadio diagnostico e destinate ad amplificarsi allorquando, nelle valutazioni terapeutiche, è chiamato a calibrare i rischi non solo per il paziente, ma anche per la collettività934. Così diventa inevitabile per l’operatore psichiatrico trovarsi in un vicolo ove “non vi sia scampo”; esposto alle imprevedibili valurazioni ex post del giudice, che potrebbe contestargli, alternativamente o a seconda di ciò che si è concretamente verificato, di “non aver fatto abbastanza” o “di aver fatto troppo”: id est, o il mancato ricorso al trattamento sanitario obbligatorio, nel caso di gesti eterolesivi di un paziente non contenuto, o l’addebito di avere strumentalizzato quest’ultimo per esigenze diverse da quelle strettamente terapeutiche, e quindi anche a tutela di terzi, nell’ipotesi in cui derivino atti autolesivi in un contesto di arbitrarietà del trattamento, ad esempio nel caso di suicidio del

931 C. Cupelli, op. cit., 7 ss.

932 Accenna alla questione A. Massaro, “Sorvegliare, curare e non punire: l’eterna dialettica tra “cura”

e “custodia” nel passaggio dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza”, p. 1372. Si veda C. Cupelli, op. cit., 7 ss.

933 M. Zanchetti, “Fra l’incudine e il martello: la responsabilità penale dello psichiatra per il suicidio del paziente in una recente pronuncia della Cassazione”, in Cass. pen., 2004, p. 2859. Si veda C. Cupelli, op.

cit., 7 ss.

934 Egli versa in una situazione “di pressione sociale” in cui gli viene imposto un più o meno sistematico atteggiamento di repressione preventiva nei confronti di iniziative del suo paziente potenzialmente lesive di beni giuridicamente protetti, a scapito di un’azione realmente terapeutica, imponendogli così un tipico compito di controllo disciplinare; e da una speculare controspinta, di matrice normativa e deontologica, che gli impone di rivendicare la finalità esclusivamente terapeutica del suo agire, richiamandolo ai doveri tipici di prevenzione, cura e riabilitazione dei disturbi psichici. C. Cupelli, op. cit., 7 ss.

189

paziente935. Per concludere, la preoccupazione profonda è che si possano generare, da un parte, applicazioni elastiche dei requisiti terapeutici richiesti per il ricorso a forme di trattamento coattivo, e, dall’altra, atteggiamenti di vero e proprio abbandono terapeutico, di tipo “difensivo” – inteso in un’accezione spuria, nella quale si fondono istanze di difesa sociale, a tutela di terzi esposti a gesti lesivi, e personale, dal rischio giudiziario –, che segna il passaggio da una medicina di scelte tecniche, a base consensualistica, ad una medicina “dell’obbedienza giurisprudenziale”, con la conseguenza che tutto ciò, come sottolinea il Cupelli, porterebbe con sé ripercussioni negative su quello che dovrebbe essere il reale obiettivo terapeutico, e cioè la salvaguardia e la cura del paziente psichiatrico936.

Nel documento Dipartimento di Giurisprudenza (pagine 188-194)