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Le modalità ed i tempi

Nel documento Dipartimento di Giurisprudenza (pagine 168-171)

INTRODUZIONE STORICA

3. IL CONSENSO INFORMATO COME CONQUISTA DI CULTURA E DI CIVILTÀ DEI VALORI DELLA PERSONA CIVILTÀ DEI VALORI DELLA PERSONA

3.1 I requisiti di validità dell’informazione e del consenso: introduzione

3.1.5 Le modalità ed i tempi

Le medesime informazioni, scritte ed orali, possono essere comunicate con differenti modalità, definite standard dell’obbligo di informazione, riconducibili a tre modelli: a) lo standard “professionale”, secondo cui il connotato essenziale dell’informazione è la sua correttezza clinica secondo lo stato delle conoscenze scientifiche; dunque, l’obbligo di informazione potrebbe considerarsi adempiuto qualora le informazioni fornite al paziente fossero tecnicamente corrette e complete; b) lo standard “medio”, per il quale l’informazione andrebbe rapportata a quello che comunque potrebbe comprendere una persona ragionevole; c) lo standard “soggettivo”, in base al quale la correttezza tecnico-scientifica delle informazioni non è sufficiente per considerare adempiuto il relativo obbligo, perché l’informazione deve essere trasmessa con le modalità più indicate affinché la persona concretamente assistita possa comprendere e decidere consapevolmente791. In assenza di disposizioni di legge, sembra trovare applicazione lo standard “soggettivo”, sia perché più funzionale all’effettiva tutela della libertà di autodeterminazione del singolo paziente, sia in virtù dell’art. 33, commi 2 e 3, del c.d.m., secondo cui “il medico dovrà comunicare con il soggetto tenendo conto delle sue capacità di comprensione, al fine di promuovere la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche. Ogni altra ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere soddisfatta”792. Infatti, il consenso informato non deve essere il frutto di “un incontro impersonale, anonimo ed

790 M. Paradiso, “Il dovere del medico di informare il paziente. Consenso contrattuale e diritti della persona”, in AA. VV., “La responsabilità medica”, Milano, 1982, 143 ss.,il quale individua un unico limite all’obbligo di dire tutta la verità: “Potrà risultare opportuno o necessario tenere celata la verità a chi, per l’età immatura o le instabili condizioni psichiche, sia incapace pienamente di intendere e di volere e dunque non sia in grado di autodeterminarsi con consapevolezza”.Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 125.

791 Sui diversi standard di informazione si veda M. Criscuoli, “Ragionevolezza e “consenso informato”

del paziente”, in Rass. Dir. Civ., 1985, 544 ss. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

792 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

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umanamente disimpegnato, tra prestatore e fruitore d’opera”793; bensì deve essere inteso come un atto di autonomia attraverso il quale il paziente accetta di sottoporsi all’attività diagnostico-terapeutica concordata col medico per la salvaguardia del proprio diritto alla salute794. Se la comunicazione avvenisse secondo lo standard “professionale” o quello “medio”, l’informazione sarebbe un’attività più di forma che di sostanza.

Conseguentemente, la dottrina considera invalido il consenso rappresentato da una firma in calce ad un modulo senza alcun elemento di personalizzazione dell’informazione resa795. La scelta di prediligere lo standard “soggettivo” apre le porte al problema di individuare quali siano le modalità che consentono di ritenere adempiuto l’obbligo di informazione in relazione alle tante variabili della condizione del paziente.

Tali modalità devono avere carattere generale ed oggettivo, perché la norma giuridica non può imporre al medico un determinato livello di sensibilità e particolari qualità umane, come la capacità comunicativa, la disponibilità, la pazienza e l’affabilità796. Non si può tradurre in norma giuridica un insieme di qualità umane e caratteriali, perché mancherebbero parametri significativi di giudizio per colui che è chiamato ad accertare la responsabilità del medico797. Inoltre, se si esasperasse il carattere soggettivo dell’informazione, si farebbe gravare sul medico l’obbligo di far capire al malato tutto ciò che gli viene comunicato, arrivando all’assurdo di dar vita ad un’obbligazione di risultato, con la conseguenza di doverlo far condannare per inadempimento ogni qualvolta il paziente dichiarasse in giudizio di non aver capito un qualche aspetto del trattamento eseguito798. Se è, dunque, necessario stabilire fino a che punto debba spingersi la personalizzazione dell’informazione, tale confine oggettivo sembra doversi sostanziare negli obblighi di correttezza ex artt. 1175 e 1337 c.c. e di diligenza ex art.

1176 c.c., che richiedono al medico di attivarsi affinché il paziente prenda una decisione

793 Comitato Nazionale per la Bioetica, “Informazione e consenso all’atto medico”. Si veda G. M.

Vergallo, op. cit., 125 ss.

794 Trib. Venezia, in tal senso, 4 ottobre 2004, afferma che “il consenso deve essere il frutto di una relazione interpersonale tra i sanitari ed il paziente sviluppata sulla base di un’informazione coerente allo stato, anche emotivo, ed al livello di conoscenze di quest’ultimo(...) segnando il passaggio (...) dalla fase dell’assenso a quella del consenso, ossia del convergere delle volontà verso un comune piano di intenti”.

Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

795 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

796 G. M. Vergallo, op. cit., 125 ss.

797 G. M. Vergallo, op. cit., 130 ss.

798 Peraltro, anche ipotizzando che il medico disponga della massima sensibilità e competenza oltre che delle migliori capacità comunicative, il raggiungimento del risultato di far prendere al suo assistito una decisione perfettamente informata e consapevole è ostacolato comunque sia dall’enorme sproporzione di cultura specifica esistente tra il medico ed il paziente, sia dalla condizione stessa della malattia che, con i suoi corollari di sofferenza e di angoscia, sempre disturba la serenità del giudizio e di conseguenza comprime la libertà di scelta.Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 130 ss.

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consapevole799. Nell’ambito di tale obbligazione di diligenza e di buona fede, appare necessario che il medico si attivi per valutare l’effettiva consapevolezza della scelta fatta dal malato800. A tal fine sarebbe sufficiente, completata l’attività informativa, chiedere al malato i motivi per cui ritiene di accettare o di rifiutare il trattamento indicato, e poi valutare se la risposta data sia determinata da una cattiva comprensione o sia invece sintomatica dell’effettiva consapevolezza del paziente, essendo logica e conseguente rispetto alle informazioni fornite, senza aggravare il medico né l’organizzazione sanitaria di particolari incombenze801. Tuttavia anche la natura di obbligazione di mezzi, comportando per il professionista il dovere di fare il possibile per tutelare la libertà di autodeterminazione del paziente, pone a carico del medico il compito di sincerarsi che nel caso concreto non sussistano elementi tali da far credere che il consenso o il rifiuto siano frutto di un’incomprensione delle informazioni ricevute802. Occorre discutere anche di un altro elemento fondamentale nell’acquisizione del consenso, in cui l’informazione è funzionale a mettere il paziente in condizione di prendere una decisione effettivamente consapevole in ordine al trattamento medico cui sottoporsi: la tempistica803. Al riguardo, occorre considerare l’eventualità in cui il modulo di consenso informato sia portato all’attenzione ed alla firma del paziente contestualmente al suo trasporto in sala operatoria804. Tale modus operandi, frutto di un’immatura sensibilità verso la libertà di autodeterminazione del malato, incontra l’implicita riprovazione del codice deontologico, il quale, al secondo comma dell’art.

35, afferma che il consenso “è integrativo e non sostitutivo del processo informativo di cui all’art. 33”805. Tale processo segue una determinata tempistica: dall’informazione sul rapporto costi-benefici e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, ex art.

33, comma 1 c.d.m., si può giungere all’acquisizione del consenso solo dopo aver tenuto conto delle “capacità di comprensione” del paziente “al fine di promuovere la massima partecipazione alle scelte decisionali e l’adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche”, ex art. 33, comma 2 c.d.m., e solo dopo aver soddisfatto “ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente”, ex art. 33, comma 3 c.d.m.806 Dunque,

799 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

800 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

801 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

802 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

803 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

804 La questione della validità dell’informazione fornita e del consenso ricevuto in prossimità dell’intervento è divenuta oggetto di crescente attenzione in giurisprudenza, la quale non ha sempre trovato risposte univoche. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

805 G. M. Vergallo, op. cit., 131 ss.

806 G. M. Vergallo, op. cit., 133 ss.

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se l’attività di informazione è definita dall’art. 35 c.d.m. come un “processo” che non si può completare senza aver prima dato risposta alle richieste di ulteriori informazioni da parte del paziente, ne consegue che tra l’informazione del medico e la manifestazione di volontà del paziente deve intercorrere un lasso di tempo tale da consentire all’assistito quella minima riflessione indispensabile per comprendere le informazioni ricevute e per chiedere, eventualmente, chiarimenti807. Una regola operativa coerente ed equilibrata sembra essere quella di “prenotare” la sala operatoria solo dopo che il paziente ha espresso il consenso808.

Nel documento Dipartimento di Giurisprudenza (pagine 168-171)