INTRODUZIONE STORICA
1.1 L’origine americana del consenso
Da quanto discusso brevemente, appare evidente come l’adesione del malato alle scelte del medico non possa essere equiparata all’attuale concetto di consenso informato, i cui albori, invece, possono essere rintracciati487 in alcuni processi che si sono celebrati negli Stati Uniti a partire dalla fine del ‘700 e che per la prima volta, in maniera organica, affrontano problematiche di grande attualità, come l’importanza giuridica della differenziazione tra un contenzioso promosso in relazione ad un consenso comunque difettoso488, il c.d. vizio del consenso, e quello basato su una incompleta o errata informazione, il c.d. vizio di informazione, la quale rappresenta il fondamento ed il presupposto irrevocabile per giungere al consenso stesso489. In un processo del 1905 i
485 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
486 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
487 V. Mallari, “Le origini del consenso informato”, op. cit. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
488 Il riferimento è al “caso Slater” del 1767. Il paziente si era lamentato del comportamento dei medici, i quali, dopo aver rimosso le fasciature da una gamba fratturata, essendosi accorti che la frattura si era ricomposta solo parzialmente, avevano deliberatamente e senza il consenso proceduto a rifratturare l’arto, allo scopo di tentare una successiva e definitiva riduzione, ed a bloccarlo con una imbracatura sperimentale. I medici vennero condannati sia per aver agito con negligenza ed imperizia sia perché la soluzione di fratturare nuovamente la gamba del paziente era stata eseguita senza il consenso del malato.
Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
489 La problematica dell’interdipendenza tra “consenso” ed “informazione” emerge nel “caso Carpenter”.
Il medico aveva curato la slogatura di un gomito con tecniche che egli riteneva innovative; i giudici, invece, gli addebitarono l’insuccesso dell’intervento perché aveva adottato una condotta negligente e non aveva informato il paziente sulle precauzioni da adottare né sulle indicazioni da osservare durante la convalescenza. In più il consenso era fortemente viziato (“The misrepresentation vitiated the consent”)
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giudici ebbero ad affermare che “il primo e più nobile diritto di ogni libero cittadino, fondamento di tutti gli altri, è il diritto sulla propria persona, “the right to himself”, universalmente riconosciuto; questo diritto vieta rigorosamente al medico ed al chirurgo, per quanto esperto e di chiara fama, di violare a suo arbitrio l’integrità fisica del suo paziente con una operazione più ampia e/o diversa rispetto a quella programmata, intervenendo sul malato sotto anestesia senza il suo consenso”490. La Corte concluse che il medico non aveva libera licenza rispetto all’intervento chirurgico predisposto, mentre dalla mera circostanza che il paziente si era affidato alla competenza medica non poteva evincersi un implicito consenso a qualsivoglia trattamento chirurgico, rispetto al quale era sempre necessario un consenso specifico ed esplicito491. È significativo notare che nella sentenza si afferma che un valido consenso richiede la preventiva conoscenza da parte del paziente dei pericoli e dei rischi insiti nella terapia, ma non si fa alcun cenno al diritto all’autodeterminazione o all’autonomia del malato, “self-determination” o “autonomy”, bensì a un diritto su sé stesso492. La svolta avviene con il processo noto come il “caso Schoendorff” del 1914493, durante il quale il giudice Beniamino Cardozo, chiamato a pronunciarsi sulla vicenda, predispose il criterio della “self-determination”, in base al quale “Ogni essere umano adulto e capace ha il diritto di determinare cosa debba essere fatto con il suo corpo; un chirurgo che esegue un’operazione senza il consenso del paziente commette una violenza personale, per la quale risponderà dei danni”494. Tale principio, destinato a diventare un concetto guida nella gestione del rapporto tra medico e paziente, è oggi trasfuso in Italia con la locuzione “principio di autodeterminazione”, che ribadisce la regola secondo cui, da un lato, l’individuo malato ha il diritto di salvaguardare e di tutelare l’inviolabilità della propria persona scegliendo il trattamento chirurgico, e dall’altro, il disattendere questo diritto configura, anche se l’intervento si conclude con
dalle imprudenti, incaute, probabilmente ingannevoli assicurazioni sulla sicura e soddisfacente risoluzione della malattia. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
490 Questo è il processo della “signora Mohr”, nel 1905, la quale cita in giudizio il medico che aveva ottenuto il consenso per operare l’orecchio destro, affetto da un’otite cronica, anche sull’orecchio sinistro.
Non fu solo l’esito negativo dei due interventi a spingere la paziente alla citazione in giudizio del medico, ma il fatto che costui non aveva chiesto il dovuto consenso”. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
491 “... the physician has no free license respecting surgical operations (...) Express consent to a particular surgery is required”). Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
492 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
493 Il paziente aveva programmato con il medico l’esame in anestesia dell’addome con la specifica richiesta di non intervenire chirurgicamente. Il medico, invece, nella presunta convinzione di agire per il bene del paziente, rimosse un fibroma. Si veda G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
494 “Every human being of adult years and sound mind has a right to determine what shall be done with his own body; and a surgeon who performs an operation without his patient’s consent commits an assault, for which he is liable in damages”. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
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esito favorevole, una violenza arbitraria ed ingiusta sul malato495. Circa trentacinque anni dopo si verifica un’ulteriore ed importante svolta dottrinale: la comunità internazionale prende coscienza dei gravi interrogativi posti sul piano etico dai progressi della medicina, a partire dalle sperimentazioni sull’uomo. Dalla riflessione sulle atrocità commesse nei campi di sterminio e di concentramento emerge la necessità di distinguere tra la sperimentazione lecita e l’attività che si avvicina più alla tortura496. A Norimberga, il 19 dicembre 1946, si celebra davanti ad un tribunale militare composto solo da magistrati statunitensi il processo ai medici nazisti. Nella sentenza dell’ottobre 1947 i giudici stilano un documento, noto come codice di Norimberga, che all’art. 1 recita: “È assolutamente necessario il consenso volontario del soggetto umano497. Ciò presuppone che la persona abbia la capacità legale di dare il consenso; sia in condizioni di esercitare il libero potere di scelta senza l’intervento di alcun elemento di forza, frode, inganno, costrizione, sopraffazione, o altra ulteriore forma di costrizione o coercizione ed abbia sufficiente conoscenza e comprensione degli elementi dell’esperienza, tanto da essere in grado di prendere una consapevole ed illuminata decisione498. Quest’ultimo elemento richiede che prima di formulare una positiva decisione, il soggetto deve essere edotto sulla natura e sui fini dell’esperimento, sul metodo ed i mezzi con i quali esso sta per essere condotto, su tutti gli inconvenienti e pericoli ragionevolmente prevedibili e sugli effetti nei riguardi della salute che possono derivare dalla sua partecipazione all’esperimento. Il dovere e la responsabilità di constatare la validità del consenso pesano su chiunque inizia, dirige o è implicato nell’esperimento”499. Il Codice di Norimberga, quindi, contiene una visione della ricerca e della tecnologia medica molto chiara: la scienza non deve mai trasformare la persona in uno strumento utilizzato per raggiungere solo scopi scientifici e contiene anche l’esigenza di legittimare le prestazioni mediche attraverso la pratica del consenso informato500. Da quel momento, il principio del consenso, supportato da idonee garanzie relative all’informazione sull’operazione, è stato trasferito nel rapporto tra medico e paziente, marcando il passaggio dal “paternalismo” medico al principio
495 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
496 AA.VV., “The Nazi doctors and the Nuremberg code: human rights in human experimentation”, Oxford University Press, Oxford-New York, 1992; A. Santosuosso, “Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza”, Milano, 2001, 100 ss., il quale rileva come proprio la Germania già nel 1931 aveva emanato circolari che stabilivano i criteri per distiguere i trattamenti terapeutici da quelli sperimentali, entrambi da effettuarsi con consenso informato di chi vi si sottoponeva. G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
497 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
498 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
499 A. Santosuosso, “Corpo e libertà. Una storia tra diritto e scienza”, op. cit.; G. M. Vergallo, op. cit., 3.
500 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
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dell’autodeterminazione del paziente. La prima affermazione giudiziaria del principio del “consenso informato” è sancita nel 1957 dal caso Salgo v. Leland Standford Jr.
University Board of Trustees ad opera della Corte dello Stato della California, che fonda l’affermazione di responsabilità del sanitario sulla carente informazione fornita circa l’atto da eseguire e sulla conseguente inefficacia del consenso prestato dal paziente501. Durante l’esecuzione di un’arteriografia su un soggetto affetto da vascolopatia, il chirurgo omette di avvertire il paziente delle possibili complicanze, poi verificatesi, connesse all’uso di un mezzo di contrasto necessario per l’esecuzione dell’accertamento invasivo502. Nonostante alcuna censura venga mossa circa il rispetto delle regole dell’arte nell’esecuzione dell’atto in sé, il chirurgo viene condannato per essere venuto meno al dovere di illustrare “any facts which are necessary to form the basis of an intelligent consent by the patient to proposed treatment”, violando così il diritto all’autodeterminazione del paziente stesso503. I magistrati statunitensi con questa sentenza sottolineano che l’obbligo di informazione al fine di ottenere un adeguato e consapevole consenso, definito con il termine “intelligent consent”, si deve tassativamente estendere non solo agli eventuali e probabili pericoli legati al tipo di prestazione proposta, ma anche alle possibili terapie alternative che in concreto possono essere scelte ed effettuate504. Il tribunale, a differenza delle modalità procedurali impiegate dai giudici che avevano esaminato i casi ricordati, pone l’accento sull’entità e sulla qualità dell’informazione che deve precedere l’acquisizione del consenso, introducendo così un nuovo elemento giuridico oggettivo da considerare come fattore indipendente505. Quindi, in termini espliciti, i giudici affermano che il consenso deve essere preceduto dall’informazione del paziente, quale condizione di validità del consenso stesso. Il “consent”, diviene, pertanto, “informed consent”506. A differenza delle precedenti decisioni, la Corte non si limita ad accertare la sussistenza o meno di un effettivo consenso del paziente alle terapie proposte, ma concentra la sua attenzione proprio sulla presenza di un consenso informato al momento in cui viene prestato, introducendo, così, un nuovo elemento giuridico507. Inoltre, i giudici, per la prima volta, unificano le due teorie della responsabilità medica fondate sul consenso: la richiesta del consenso come un aspetto della diligenza medica, “good medical care”; ed il consenso
501 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
502 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
503 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
504 V. Mallardi, “Le origini del consenso informato”, op. cit.; G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
505 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
506 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
507 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
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inteso come dovere di rispettare l’autonomia del paziente, “duty to respecting”508. Quest’orientamento si consolida in tre decisioni successive, il “caso Grey” del 1966, il
“caso Berkey” del 1969, ed il “caso Cooper” del 1971, relativi ad interventi praticati senza che il paziente fosse informato dei rischi collegati all’intervento chirurgico509: i giudici statunitensi censurano l’operato dei medici basandosi sul presupposto che la relazione di cura si caratterizza per il carattere fiduciario del rapporto medico-paziente, per cui il medico ha l’obbligo di far conoscere al suo assistito le caratteristiche della malattia con una chiara e puntuale informazione, il “duty of full disclosure”. Negli Stati Uniti il dibattito bioetico sul consenso informato è un dibattito ancora aperto510. Vi sono numerose e diverse definizioni nelle leggi e negli standard giudiziari dei vari Stati:
alcune pongono l’accento sul fatto che il consenso è una determinazione e quindi un’azione autonoma del paziente; altre, invece lo considerano un coinvolgimento del paziente, ottenuto secondo una procedura legale511. Tutte, però, evidenziano l’importanza dell’informazione, che assolve il compito non solo di rendere edotto il paziente sui vantaggi e sui possibili rischi della terapia, ma anche di tranquillizzarlo psicologicamente e di dargli “security” e “satisfaction”512. Il problema diventa, quindi, come comunicare con i pazienti513. Al riguardo, è necessario precisare che mancano soluzioni univoche sul fronte dei rapporti tra comunicazione e informazione. In proposito, acuta dottrina ha precisato che “l’affermazione formale, secondo la quale il
“consent” deve necessariamente essere “informed”, non fa che spostare la controversia da “se” informare il “paziente” a quale informazione dare514. Al centro della discussione si collocano così lo standard di informazione richiesta e la possibilità che in casi specifici sia giustificata la riduzione o l’esclusione dell’obbligo di informazione o una sua particolare configurazione che ne riduca la portata innovativa”515. Partendo dal principio dell’ “informed consent”, la giurisprudenza americana è approdata, quale logico corollario dello stesso, al pieno riconoscimento del “right to die”, ovvero del diritto del paziente di rifiutare i trattamenti sanitari, anche se “life saving”516. Il dibattito ha preso le mosse dai casi giudiziari, dal caso Quinlan, del 1976, e dal caso Cruzan, del
508 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
509 Descritti in V. Mallardi, “Le origini del consenso informato”, op. cit.; G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
510 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
511 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
512 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
513 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
514 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
515 A. Santosuosso, “Il consenso informato tra giustificazione per il medico e diritto del paziente”, Milano, 1996, 70 ss.; G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
516 G. M. Vergallo, op. cit., 3 ss.
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1990, che ha visto la Corte Suprema Federale pronunciarsi sul “right to die”, enunciando il principio in base al quale la scelta del paziente di rifiutare le cure “life saving” è strettamente personale, o “deeply personal decision”, e , se il malato è compos sui, la sua volontà deve essere rispettata517. A tal riguardo, importante è ricordare il caso di Terry Schiavo, la donna in coma che per quindici anni aveva continuato ad avere una vita vegetativa grazie ad una gastrostomia che la alimentava, caso per il quale il Presidente degli Stati Uniti , per garantirle una assistenza meccanica, aveva firmato d’urgenza una legge da affidare all’interpretazione della Corte della Florida518.