RELAZIONI SCOLASTICHE GENERATIVE DI RISORSE SOCIALI: IL SAPERE FEMMINILE FONTE PRIMARIA DI ATTIVAZIONE E DI CURA
3. Capitale sociale e relazioni scolastiche
Il concetto di capitale sociale é un tema che nel passato ha avuto, proprio in campo educativo, uno degli ambiti elettivi del suo impiego e sviluppo ma che in Italia, fino a tempi recenti, ha trovato scarsa applicazione come chiave di lettura dei processi educativi (Scanagatta e Maccarini, 2009) soprattutto da parte della pedagogia (Bottani, 2002), sebbene esso individui proprio in campo educativo un ambito di ricerca dal quale attingere conoscenze e stimoli sul piano teorico e di ricerca empirica. Come ricorda Symeou (2008) molte delle definizioni di capitale sociale hanno animato studi anche intorno ad ambiti educativi e tuttavia il viaggio di questo concetto nel mondo dell’educazione non è stato molto lungo (Dika, Singh, 2002; Bottani, 2002).
“Social capital remai an elusive concept” (Leonard, 2005), la sua definizione rimane una questione di difficile demarcazione. Gli studiosi si trovano concordi nel considerare il tema all'interno delle reti di relazioni a carattere fiduciario e cooperativo dalle quali un soggetto può trarre un beneficio personale sia in termini materiali sia immateriali (Donati, Colozzi, 2006). La molteplicità di definizioni ha portato anche all’elaborazione di altrettanti approcci metodologici che ostacolano un generale consenso su come indagare le forme di capitale sociale e come ricavarne utili risvolti applicativi.
Il tema ha le sue origini agli inizi di questo secolo e prende le mosse dallo studio di un educatore americano L. J. Hanifan, supervisore incaricato nelle rural schools del West Virginia.
L'autore coniugò il tema ad una visione di scuola come luogo di relazioni, spazio sociale fondamentale nel quale coltivare l’identità e la coesione sociale delle famiglie, della comunità, del quartiere, grazie al contributo di tutti gli attori in campo.
Sono i lavori di Coleman ad essere maggiormente citati quando il concetto di capitale sociale viene messo in relazione con quello di educazione. Il capitale sociale per Coleman inerisce alla struttura delle relazioni con e tra tutti gli attori in campo (Symeou, 2008). Egli lo considera incorporato nelle relazioni tra le persone e in quanto tale non tangibile. Stando a quanto affermato da Coleman in una relazione sarebbe possibile riconoscere un certo tipo di capitale sociale che diventa direttamente proporzione alla messa in campo del capitale umano delle persone, che partecipano a quella relazione. In altre parole, la qualità e il tipo di relazione che viene stabilità da due o più soggetti sta nella messa in gioco dei propri capitali, che corrispondono a ricchezza, competenze, obiettivi,
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aspirazioni, desideri, e che spingono le persone a mettersi nel gioco delle relazioni. Coleman parla anche di potenziale educativo contenuto nelle relazioni sociali, intendendo il capitale sociale come risorsa per scambi utili di informazioni che il soggetto può ricavare da altre persone, e grazie a questo, migliorare la sua azione: gruppi di genitori che si uniscono in associazione per sostenere l’attività della scuola costituiscono una forma di capitale sociale. Il loro coinvolgimento nella vita scolastica dei figli è stato identificata come un esempio paradigmatico della rilevanza del capitale sociale come istanza educativa. Una capacità che porta le scuole e le famiglie in interazione a costituirsi come comunità funzionale, all’interno della quale i precetti normativi si rafforzano e sono più chiaramente ed efficacemente trasmissibili ai giovani. “Per Coleman le scuole possono operare per ridurre le disuguaglianze ascritte dalla nascita agli individui, non entrando in competizione con la socializzazione primaria o tentando di rimuoverla, ma costruendo una comunità funzionale con le famiglie degli studenti, aumentando la frequenza degli incontri con queste e rafforzando le relazioni con loro, creando cioè capitale sociale” (Tronca, 2007: 16-17).
Recentemente anche in Italia il dibattito sul tema ha animato la discussione non solo della sociologia ma anche di altre scienze umane. Tra gli autori che si stanno interessando al tema, di particolare interesse per il nostro ambito di ricerca é la “prospettiva relazionale” elaborata da Donati. Egli definisce il capitale sociale come “un certo tipo di relazioni sociali e precisamente quelle relazioni in cui le persone mostrano e praticano la fiducia reciproca e seguono norme di cooperazione, solidarietà, reciprocità” (Donati, 2003: 33). Quella di capitale sociale per Donati è una tesi e non solamente un’utile metafora: essa coglie una forma specifica di relazioni le quali si differenziano razionalmente da altre forme di relazioni, perché producono “beni relazionali” (Donati, 2006: 7) . In questo senso creare capitale sociale significa costruire un senso nuovo del vivere le relazioni nelle dimensioni del tempo e dello spazio che abbiamo a disposizione; senso nuovo che supera la rigidità dell’istituzionale per avvicinarsi in modo più umano all’essere persona, come le organizzazioni vitali aperte e mobili, di cui parla Piussi (2006), continuamente reinventate e rilanciate in altre direzioni.
Non si può dire che quello di capitale sociale sia un concetto nuovo. Da sempre le scienze dell'educazione fondano le loro riflessioni su concetti quali relazione, incontro, fiducia, responsabilità e corresponsabilità. Il concetto di relazione rimane uno dei cardini fondamentali attorno al quale si pensa, si programma, si orienta l’agire educativo, che non é mai un agire casuale ma sempre voluto e desiderato. “L’evento educativo si caratterizza innanzitutto come evento relazionalistico. Esso non riguarda infatti soltanto un singolo soggetto, sia esso l’educatore o l’educando, ma concerne sempre necessariamente un livello di complessità superiore poiché coinvolge entrambi i poli della relazione educativa” (Iori, 2000: 109).
La relazione che crea capitale è molto vicina a quel tipo di “relazioni senza fine”, come le definisce Piussi, “la cui vita non dipende dal sistema di potere e dal denaro, ma che si attiva e riattiva per un bisogno-desiderio umano di senso, di partecipazione e di scambio fuori da rapporti di astratta equivalenza o di unidirezionale o utilitaristico investimento” (Piussi, 2006: 29). Il capitale sociale è un certo modo di essere delle relazioni sociali, oppure, detto in altri termini, “le relazioni sociali possono, a certe condizioni, divenire capitale sociale” (Tronca, 2007: XXIII).
Questa visione amplia la considerazione di una relazione educativa individuale, verso la sfera sociale, come capitale per l’individuo ma anche per la comunità intera.
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4. Racconti di scuola
Una delle esperienze di scuola che ho osservato durante la mia ricerca sul campo risulta emblematica rispetto al tema preso in esame e costituisce un esempio abbastanza ricorrente, pur nella sua specificità, dello stato di salute in cui versa la maggior parte delle nostre scuole.
Le scuole del centro della città di Verona dalla fine degli anni '90 hanno perso la loro connotazione di scuole di quartiere. La migrazione di alunni da una parte all'altra della città, l'accoglienza di utenti dalle zone della provincia e il contemporaneo arrivo massiccio di famiglie immigrate, soprattutto in certe zone periferiche, ne hanno in pochi anni cambiato il volto.
Ciò ha rotto equilibri consolidati nel tempo, sui quali anche il fare scuola trovava elementi di continuità a rassicurazione.
Posta geograficamente al confine del quartiere, la scuola Bartolomeo Rubele si trova vicina a zone residenziali ricche della città ed ha ospitato fino alla fine degli anni novanta bambini provenienti per lo più da famiglie borghesi. Accanto a questo tipo di utenza frequentavano la scuola anche alunni provenienti da una scuola speciale, con handicap e disagi anche gravi, e di case famiglia. Poi i primi arrivi di stranieri. Si assisteva quindi anche al contemporaneo abbandono della scuola da parte di molte famiglie italiane. Le cause furono attribuite a tutte le problematiche che questa utenza così variegata comportava, che ha fortemente messo in crisi questa scuola che nell’anno 2000/2001 avrebbe accolto solo sei bambini per la nuova classe prima.
Il Provveditorato agli Studi e il comune ne avevano già prospettato la chiusura e l’utilizzo dell’edificio per altri scopi.
Alla dirigente e alle insegnanti si presentava in prospettiva un problema non da poco: la possibile chiusura di un ambiente importante non solo per i bambini e le loro famiglie, ma per l’intera comunità. Un luogo adiacente alla parrocchia, quindi anche spazio di aggregazione e incontro. Sarebbe stata una grande perdita per tutti. La necessità di attivarsi per scongiurare tale minaccia chiamava alla messa in campo di convinzioni, motivazioni e competenze delle insegnanti alla ricerca di alternative possibili come soluzioni della crisi.
La preside che in quegli anni era presente nell'istituto mi raccontò di quel pomeriggio, in cui di ritorno da un incontro presso il Provveditorato agli Studi, era stata discussa la situazione della Rubele. Il ridotto numero di nuovi bambini iscritti non consentiva l’assegnazione di un’insegnante per la nuova classe prima. La contrazione dell’organico era un segnale allarmante delle decisioni, che rispetto alla scuola, si stavano prendendo a livello di amministrazione scolastica.
A scuola aveva trovato le insegnanti ad attenderla:
Torno dal provveditorato ad un quarto le tre. Dovevamo essere tutti già a casa, insegnanti e direttrice insieme, ma era troppo grossa la cosa. Mi sono fermata a vedere chi c’era; loro sapevano che avevamo in ballo la discussione dell’organico ed erano lì, in attesa, frementi di sapere come era andata. Dico: “E' così, non ci danno l’insegnante perché abbiamo pochi bambini iscritti”. Nel giro di ventiquattro ore abbiamo fatto una riunione con tutti i genitori della futura prima e con i rappresentanti delle altre classi. Si era fatto poi un tam tam con il passa parola, per cui già il pomeriggio successivo avevamo l’incontro con gli insegnanti e i genitori per guardaci in faccia e dire “guardate
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che qua rischiamo che il quartiere perda la scuola, vediamo cosa fare!” (Laura)
La prospettiva della chiusura, divenuta così reale, aveva portato ad una mobilitazione delle insegnanti, unite in una forte presa di posizione. L’idea era quella di elaborare una diversa proposta educativa e formativa che riconquistasse il consenso delle famiglie. Già da tempo alcune insegnanti avrebbero voluto avviare una sperimentazione di apertura delle classi a gruppi di lavoro misti e attuare un’esperienza di classi aperte. Come avviene in molti casi fu quella emergenza a diventare l'occasione per elaborare un progetto in cui si poteva realizzare un forma di “scuola attiva” già da tempo desiderata. Ciò fu possibile mobilitando le risorse umane e professionali richiamate dal desiderio di difendere uno spazio sociale che loro stesse ritenevano fondamentale per i bambini e le famiglie, considerato prima di tutto luogo di incontro e di socializzazione, punto di riferimento per il quartiere e per la comunità. La presenza nella scuola di soggettività molto forti, che avevano avviato quell' idea progettuale, era riuscita a coinvolgere non solo le altre colleghe, ma a valorizzare la presenza attiva dei genitori, considerandola una risorsa indispensabile per attuare il loro ideale di rinnovamento. Gli stessi genitori dei pochi bambini iscritti alla nuova classe prima, con molta determinazione esprimevano il desiderio di voler comunque far frequentare la scuola ai loro figli, sebbene si prospettasse la formazione di una pluriclasse. Queste famiglie avrebbero potuto rivolgersi alle altre strutture scolastiche vicine, le scuole private cattoliche, che in quegli anni di abbandono della scuola statale accoglievano molti bambini del quartiere; ma la chiusura della scuola “di tutti” era sentita come perdita di uno “spazio pubblico” in cui potevano convergere le pluralità e trovare confronto opinioni molteplici. Per questo tutti i soggetti coinvolti vennero attivati dall’emergenza, e in pochissimo tempo fu avviato un progetto di lavoro in cui dirigente, insegnanti e genitori parteciparono attivamente.
L’ obiettivo era di riconquistare il consenso e riportare nella scuola un numero sufficiente di bambini che consentisse di continuare ad essere una relatà territoriale di riferimento.
La preside racconta come lei stessa fosse molto perplessa sulla possibilità di riuscire in questa intrapresa:
C’è stata una cosa incredibile dal mio punto di vista: gli insegnanti nessuno escluso, cosa che di solito c’è l’astenuto o il contrario, lì nessun astenuto, nessun contrario, tutti che volevano far funzionare la scuola oltre modo. Non nascondevo neanche io le perplessità, ma vedevo tanto entusiasmo da parte delle insegnanti e anche da parte dei genitori, nonostante fossimo in una situazione di … veramente eravamo con le orecchie basse, molto demoralizzate; però il fatto di mettersi in gioco, soprattutto da parte dei genitori, è stata una cosa incredibile. (Laura)
Le azioni di risposta si muovevano in diverse direzioni: si puntò inizialmente ad un’offerta didattica diversa, che ribaltava i tradizionali canoni di insegnamento.
Alla base di questa nuova strategia di insegnamento vi era l’idea del superamento della classe come entità stabile e la formazione di gruppi misti, che prendevano ognuno il
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nome di un colore, nei quali i bambini venivano inseriti non in base alla loro età anagrafica ma rispetto una valutazione delle loro competenze iniziali.
Si superava così l'aggregazione degli alunni per classi di età, ma venivano invece raggruppati in gruppi misti a seconda delle loro competenze e in base alla loro situazione di partenza che non erano necessariamente uguali a quelle dei compagni della loro stessa età.
Organizzare un tipo di scuola fondata su queste premesse, significava rivedere l’aspetto progettuale delle discipline, le modalità didattiche da attuare in classe ed elaborare una diversa modalità di lavoro anche riguardo la valutazione finale delle competenze. Le insegnanti si erano ispirate alla didattica laboratoriale suggerita dagli orientamenti pedagogici di Ferreiro e Teberoski sul metodo naturale di insegnamento della lingua. Un approccio che suggeriva di partire dalle conoscenze di base acquisite in famiglia, nel proprio ambiente naturale e nella scuola materna.
Organizzare gruppi disomogenei per età, conduceva le professionalità insegnanti su terreni nuovi anche rispetto una diversa modalità di vivere le relazioni tra di loro. Si trovarono cioè a sperimentare modalità di collaborazione e di affidamento reciproco, tra di loro e con i genitori, che richiamava molto da vicino l'esperienza che Hanifan aveva maturato durante la sua permanenza nelle scuole rurali e che lui stesso definì “storia di un successo”. L'autore non si riferiva alle performance dei rendimenti dei ragazzi, questo era un obiettivo eventualmente conseguente. Prioritario invece per Hanifan era creare uno spazio di collaborazione fattiva e di accordo simbolico, il cui fine era migliorare l’ambiente scolastico per il benessere dei bambini, delle insegnanti e delle famiglie attraverso un'ampia partecipazione di tutti gli attori in campo. La scuola diventava in questa ottica un luogo dove si creava benessere e capitale per la comunità e questo si traduceva in traguardi positivi anche rispetto i percorsi conoscitivi, i risultati e le competenze acquisite dai bambini.
Il progetto didattico della scuola Rubele richiedeva di rivedere molti degli approcci tradizionali dell’insegnamento: ad esempio una diversa concezione dei “tempi dell’apprendimento” dei bambini consentiva di porre attenzione ai singoli casi, attraverso una valutazione iniziale che individuava le competenze di ognuno e un adeguato inserimento nel gruppo di riferimento. Ciò rappresentava pertanto un criterio molto efficace, che dimostrava tutta la sua forza nei momenti di accoglienza dei bambini stranieri ad esempio, per i quali nella visione del metodo naturalistico, le loro scarse conoscenze della lingua italiana non rappresentavano certo un elemento di svantaggio. L’organizzazione del lavoro didattico dei gruppi richiedeva inoltre una progettazione comune delle attività e ciò aveva portato ad una forma di lavoro collaborativo tra le insegnanti e complementare tra gruppi di lavoro che in alcuni momenti dell'anno scolastico, le feste di Natale o di fine anno, veniva proposto ai genitori come il risultato di un grande progetto di lavoro comune, frutto di un'ampia collaborazione interna ed esterna alla scuola
Certo, il nuovo progetto non poteva realizzarsi solamente attraverso la nuova proposta didattica, ma doveva appellarsi anche a risorse esterne alla scuola. Ciò portò le insegnanti a cercare altre strategie, a potenziare ad esempio i rapporti con le scuole materne vicine, con le quali progettarono innovative attività di continuità didattica. Queste nuove forme di relazione divenivano dei dispositivi di mediazione e di conoscenza, attraverso i quali raggiungere le famiglie dei bambini, potenziali futuri utenti.
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5. Tempi e spazi diversamente pensati
Emergeva un elemento di particolare interesse nella ricostruzione dell'esperienza vissuta nella scuola: le iniziative che erano state prese rispetto un’idea innovativa di scuola, riguardavano una diversa modalità di concepire le due categorie fondamentali dello “spazio” e del “tempo”.
Il primo investimento fu proprio rispetto al “tempo scuola”. I genitori si erano resi disponibili a collaborare per garantire un tempo scuola lungo, gestendo loro stessi il servizio mensa, alternandosi in turni di lavoro, al fine di mantenere l’organizzazione oraria così come era stata proposta fino ad allora.
Il fatto di mettersi in gioco da parte dei genitori è stata una cosa incredibile; siccome non c’era una mensa per tutti i cinque giorni, i genitori hanno iniziato col dire “se il comune non ci darà la mensa, perché abbiamo pochi bambini, ci organizzeremo e garantiremo una mensa comunque, con un nostro avvicendamento. Noi non vogliamo che questa scuola chiuda e vogliamo intervenire se non ci vengono garantite tutte le strutture necessarie.”(Laura)
Nei pomeriggi non occupati da lezioni venne attivato un progetto di potenziamento avvalendosi della collaborazione dell'associazione “FantasIsolo”. Alcuni educatori organizzavano attività a scuola e garantivano la sorveglianza dei bambini sia nel tempo mensa sia nelle ore pomeridiane, con attività ricreative e di supporto al lavoro scolastico.
Anche i tempi orari delle insegnanti venivano ripensati. La mancanza di una insegnante, che non era stata assegnata per la nuova classe prima a causa del limitato numero di bambini, richiedeva che gli orari delle altre docenti fossero strutturati in modo da coprire l’intero orario scolastico settimanale. Per questo le insegnanti si erano rese disponibili ad organizzarsi con tempi spezzati nell' arco della giornata, differenziando le loro presenze anche nel tempo mensa, al fine di utilizzare al meglio il loro orario.
Rinunciavano a quelle che erano le garanzie sindacali e si erano organizzate l’orario con un tempo spezzato: “Noi faremo presenze in tutte le maniere per non sprecare, tra virgolette, anche il tempo mensa con la doppia presenza”. “Io vado a casa e poi ritorno”. C’erano persone che abitano vicino altre no: “faremo orari calibrati, faremo il possibile per salvare questa scuola”.(Laura)
La diversa organizzazione oraria aveva dei risvolti anche sul piano della didattica: le insegnanti facevano interventi in più classi, organizzandosi su moduli verticali incrociati. L’intreccio orario e la presenza di ognuna in più di una classe aveva portato alla formazione di un unico grande modulo, del quale tutte erano parte.
Iniziava da qui un’esperienza di lavoro comune, che continua anche oggi, che aveva messo in atto una modalità relazionale condivisa e collegiale in ordine alle decisioni da prendere rispetto la programmazione delle attività, le modalità di insegnamento, le varie iniziative. Ciò richiedeva un continuo confronto per negoziare decisioni attorno ad un modo di fare scuola il più possibile partecipato.
Il vantaggio era che essendo un gruppo molto affiatato, appoggiato dalla dirigente e dai genitori, noi abbiamo sempre lavorato come una grande
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famiglia. Si faceva la gita di fine anno, si andava via tutti insieme. Per andare in montagna abbiamo procurato giacche a vento scarponi e scii ai bambini, perché tantissimi non avevano proprio niente. Anche le problematiche dei signoli erano sempre discusse in interclasse allargata, perché riguardavano un po’ tutte. (Annalisa)
Una modalità di lavoro che si era imposta, ma che con il tempo é diventata una prassi consolidata. Le scelte vengono prese “insieme” e ciò richiede un notevole impegno relazionale e di negoziazione, che porta ad una contrattazione continua per quello che riguarda le scelte didattiche, la progettualità, i rapporti con le famiglie e gli enti esterni.
Al termine delle lezioni del mercoledì, viene scelta una classe dove fare la riunione. Con i banchi dei bambini si forma un grande tavolo sul quale, prima