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Se da una parte il mondo dell’educazione si propone di aprire delle alternative intorno alle questioni di genere, di condurre giovani donne e uomini allo sviluppo creativo delle personali possibilità e all’obbedienza e rispetto verso se stesse/i, piuttosto che ai molteplici messaggi proposti dai territori contemporanei; dall’altra, come anticipato, questo rafforza stereotipi e modelli prestabiliti. L’educazione (anche professionale) di genere rischia, infatti, di sfociare nella socializzazione di genere, nel processo attraverso il quale si consolidano ruoli e aspettative legate ai personali talenti (della donna e dell’uomo), confacenti nello specifico alle attenzioni femminili alla cura, al corpo e, dall’altra parte, alla mente maschile (Leonelli, 2011).

Come ha sostenuto Gabriella Seveso poi, nonostante la scelta di una professione di cura nasconda generalmente un’identificazione della propria appartenenza al genere femminile “come marcata dalla maggiore propensione al rapporto con gli altri” (Seveso, 2000, p. 131) e un tentativo di auto ed etero riconoscimento di sé in quanto donna, all’interno di servizi e progetti educativi si assiste non di rado a una svalutazione delle qualità femminili, percepite perlopiù come poco professionali. Questo genera – oltre che confronti alle volte conflittuali tra diverse soggettività di donne, ad esempio educatrici e madri (Seveso, 2000, pp. 129-135), che si contendono il potere della cura e la dipendenza di colui/colei che curano (dipendenza che ricorda loro la personale importanza, utilità, esistenza) – anche uno scarso riconoscimento della figura educativa femminile più in generale. Svalutazione questa che giunge, tanto da parte dell’istituzione, che predilige la figura maschile soprattutto nei ruoli di potere, quanto dei destinatari, che richiedono sempre più anche una riflessione interculturale.

“una donna che si presenta come educatrice in una famiglia per esempio straniera ultimamente è un problema, perché ci sono delle etnie che alla donna non riconoscono certi ruoli. Quando io ho fatto la coordinatrice in questo centro, per due anni, c’è stato il problema delle famiglie islamiche, per esempio, dove […] il padre non mi rivolgeva la parola e gli dispiaceva dovermi dare la mano per parlare con me di suo figlio e di sua figlia. Cioè, c’è anche un discorso culturale che va, in qualche modo, adesso più che mai, conosciuto e affrontato. Per cui io mi sono anche presa, ovviamente, i miei spazi per conoscere, per capire di più.” (T1- Int.EDF3)

Il mondo dell’educazione, ancora maggiormente abitato da donne, è un mondo però in cui si parla di educatori e poco di educatrici; è un mondo in cui le educatrici (in risonanza con quanto accade nei territori della contemporaneità) sono condotte all’aggiornamento, a mostrarsi efficaci e all’altezza dei cambiamenti. Sono inoltre chiamate a ciò nella difesa dello spazio a loro sempre affidato eppure ora minacciato dalla presenza di colleghi uomini, in alcuni casi richiesti con enfasi dallo stesso mondo dell’educazione proprio perché maschi. Esemplificativa, in questa direzione, è la testimonianza lasciata nel 2012 sul blog di pedagogisti/e, Bivio Pedagogico:

“Il dubbio è che, nell’immaginario diffuso, prima venga il maschio, il genere e poi l’educatore e che, di fronte alla scarsità di uomini in ambito educativo- professionale, ci sia il rischio di mettere in secondo piano le competenze e le pertinenze. Quando un’equipe psico-sociale mi chiede un educatore maschio per accompagnare un minore, inserito in una situazione familiare multiproblematica, a me sorge il dubbio che si stia dicendo “basta che sia

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maschio” mettendo davvero in secondo piano le competenze educative. In questa convocazione non penso ci sia solo un appiattimento conformista, ma anche un’urgenza, che va oltre il pedagogico e che richiama l’assenza di figure maschili disponibili ad assumersi fino in fondo le proprie responsabilità educative” (dal blog Bivio Pedagogico, 2012).

Se però all’interno dei percorsi formativi in Scienze dell’Educazione (e poi nel mondo dell’educazione) lo squilibrio di genere permane, è probabile che proprio le donne (più o meno consapevolmente) tentino ancora di strutturarsi e di rispondere in maniera coerente ai dover-essere femminili tradizionali, tuttora presenti, come si è visto, anche nella contraddittorietà e complessità dei territori contemporanei. Questi stessi retaggi della tradizione, che legano la cura, l’educazione e il servizio alla donna, a una dimensione naturale e nello specifico alla capacità biologica femminile dell’essere madre, si ritrovano inoltre nella storia del lavoro educativo. A partire dal Medioevo infatti, il compito educativo era perlopiù assolto dalla famiglia e dalla chiesa, che per prima, attraverso i suoi contesti territoriali (congregazioni prima e oratori poi), ha tentato di affiancarsi ai genitori (nello specifico alle madri) per rispondere alle esigenze tanto di alfabetizzazione, quanto assistenziali, rivolgendosi soprattutto ai e alle giovani in crescita. Con la rivoluzione industriale e la nascita delle prime città moderne però l’educazione cambiò volto: oltre all’intervento di tipo vocazionale dei religiosi e a quello “naturale” delle madri, si iniziò ad avere un’educazione a servizio dello Stato, il cui obiettivo era quello di prendersi cura della società, allontanando dalle città, attraverso un controllo costante, coloro che erano visti e definiti come anormali e quindi pericolosi per la sopravvivenza e il progresso dei centri industriali (Villa, 2008, pp. 22-28).Proprio da queste fasi storiche hanno origine alcuni stereotipi, che hanno dato vita al binomio cura-controllo e che, ancora oggi, aleggiano all’interno (oltre che all’esterno) dello stesso contesto educativo, influenzandone così l’immaginario comune. Da una parte si ha l’idea che educatrici ed educatori scelgano di essere tali per dar voce alla propria predisposizione. Per questo motivo forse il mondo educativo vede in numero significativo donne e religiosi occuparsi, apparentemente in modo naturale, di altri: le prime in quanto potenzialmente madri, i secondi invece per vocazione, fatto altrettanto “naturale”, personale ed esclusivo, non trasmissibile o apprendibile attraverso la formazione. Dall’altra parte però, in connessione al ruolo che l’educazione ha assunto nelle società moderne, ha vita lo stereotipo che lega la figura educativa alla funzione sociale di controllo, contenimento e potere; caratteristiche da sempre associate alla virilità dell’uomo maturo, alla figura paterna (Bellassai, 2011). È così che, anche in ambito educativo, il materno, richiamante la cura dell’infante, viene a coincidere con il femminile e l’essere donna, e il paterno invece con il maschile, l’essere uomo. È dunque dove si percepisce la necessità di controllo e contenimento (con gli adolescenti ad esempio o con altri destinatari dell’intervento educativo considerati più marginali) che la presenza maschile viene privilegiata (contesa), nonostante presente nel mondo dell’educazione in numero decisamente inferiore rispetto a quella femminile.

L’idea di una predisposizione naturale (non professionale e con valore sociale) femminile alla cura, come anticipato, per quanto connessa a stereotipi e tradizioni (a storie segnate da educazione informale), è tutt’oggi portata aventi anche dalle stesse educatrici (Dello Preite, 2016; Guerrini, 2016). È nuovamente un’educatrice, infatti, ad affermare:

“io credo ci sia anche una predisposizione […] certi lavori vengono scelti perché qualcuno ce li ha, tra virgolette, nel DNA […] una predisposizione…

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quasi biologica, al di là che si sia donne o uomini, però anche quello secondo me credo che abbia il suo peso. […] Allora io sono convinta che ci sia una predisposizione dovuta proprio a come siamo fatte fisiologicamente, biologicamente e quindi di conseguenza credo anche a livello intellettivo, emotivo, abbiamo sicuramente una sensibilità che è diversa. […] Però sono anche convinta che, a livello proprio emotivo, sensibile, psicologico, insomma gli uomini e le donne sono diversi… su questo non ho dubbi!” (T1-Int. EDF3)

Lo scarso riconoscimento sociale di cui godono le educatrici e il mondo educativo (da esse maggiormente abitato) può essere dunque attribuito, non solo all’origine storica, ma anche a questa connessione con un ruolo percepito (e auto-percepito) come naturale, molto più che come professionale. Lo scarso riconoscimento sociale si traduce facilmente in scarso riconoscimento economico, ma in forte riconoscimento identitario: riconoscimento di sé in quanto donna. Questo rafforza l’idea che la donna si occupi degli altri per natura, piacere, predisposizione, non per professione e competenza. Così facendo si allontana nuovamente dalle educatrici l’idea di un rapporto consapevole ed efficace con il sapere, ma anche con il denaro, compenso necessario per soddisfare le proprie necessità e riconoscimento adeguato per la personale competenza e professionalità (Parricchi, 2016).

La presenza maggiore di donne in educazione ha poi inevitabilmente molteplici ricadute informali. In prima battuta rafforza una pedagogia dell’esempio femminile (Ulivieri, 1997), legata a una tradizione che vuole le donne dipendenti e connesse al saper fare più che capaci nelle pratiche di pensiero e riflessione. Un’altra conseguenza di questa sproporzione (che si alimenta in un circolo vizioso tra mondo dell’educazione e del sociale) coincide con il rafforzamento di stereotipi e immaginari diffusi, connessi non solo alle donne ma anche alla stessa educazione. Contesto, quello educativo, visto come di subordine rispetto agli ambiti tecnici e tecnologici, che rendono la stessa pedagogia poco riconosciuta nella sua validità scientifica. Proprio la pedagogia, poi, si trova nell’attuale a essere in crisi nella sua autonomia di pensiero sull’educare, appannaggio non più solo di esperte/i (Tramma, 2015). Tutti i soggetti – luoghi o persone di riferimento che nell’oggi paiono in aumento (Brambilla, De Leo, Tramma, 2014) –, presenti sui territori e sempre meno controllabili dalla pedagogia ufficiale, sono portatori di un potere educativo, che concorre a delineare quella socializzazione di genere che in parte si è provato a evidenziare. Ciò non può che confermare l’inefficacia femminile delle educatrici che, abitanti della contemporaneità, rischiano di vivere in maniera fallimentare le molteplici richieste a loro rivolte, in quanto donne, ma anche in quanto professioniste, che si trovano a contrastare un potere educativo informale sempre più forte, spesso difficilmente leggibile anche da loro, isolate (e isolati) nella rielaborazione dei vissuti. La crisi economica che colpisce anche gli enti che si occupano di educazione, porta infatti questi stessi a lavorare sull’emergenza e a ridurre/eliminare le formazioni e le supervisioni pedagogiche, limitando così il potenziale della stessa educazione intenzionale.

Ancora una volta, dunque, numerose paiono essere le contraddizioni dentro le quali, gli educatori, ma soprattutto le educatrici, donne della contemporaneità e professioniste del sociale, devono strutturarsi e orientarsi, senza smarrirsi, per la costruzione di sé, in quanto presenze femminili attuali e in quanto educatrici per professione e non propensione.

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4. Possibilità per la formazione

Davanti a questa doppia dequalifica delle educatrici, intrecciata con la svalutazione femminile e dei saperi da sempre affidati esclusivamente alle donne (Mortari, 2006), appare necessario che la formazione di base per operatrici/ori del sociale, avente l’obiettivo di formare professioniste/i attenti alle dinamiche di apprendimento, strutturi esperienze orientate all’acquisizione di consapevolezza sulla storia di formazione – letta nelle sue dinamiche informali – singolare e allo stesso tempo collettiva; stimoli una riflessione sulla reciprocità, sulla professionalità della cura, sull’opportunità di riconoscerla come una dimensione plurale e di dialoghi molteplici. Queste possibili attenzioni formative potrebbero sostenere personalità educative femminili (maschili) – a cui altre/i faranno poi riferimento – più consapevoli e riconoscenti la complessità dell’esistenza di donne e uomini; potrebbero poi attivare quella che Cristina Palmieri ha definito cura dell’esperienza educativa (Palmieri, 2011). Essa, svincolandosi dall’accudimento materno e dalla regola maschile, integra le due dimensioni e le amplifica, riconnettendole alla figura educativa generale. Si attiva poi nei confronti dei e delle destinatarie dell’intervento educativo su più livelli: concreto, riflessivo e meta- riflessivo, ponendo quindi l’attenzione sulla relazione; sui mediatori12 e sulla dimensione di finzionalità, che connota l’educazione come esperienza protetta in cui si apprende della vita rileggendola in uno spazio altro, costruito ad hoc; come pure sugli strumenti che sostengono l’azione e la riflessività delle stesse educatrici ed educatori. Tra questi: la formazione, la consulenza e la supervisione, efficace sostegno alla professionalità educativa (Oggionni, 2013).

È possibile infine intravedere un ulteriore passaggio: da un’ri-appropriazione pedagogica delle prospettive di genere, che – entrando nei “crinali in ombra” e leggendo i risvolti di una questione che “giace […] nelle piaghe dell’esperienza educativa” e segna le biografie (soggettive e collettive) (Marcialis, 2004, p. 159) – mettono in luce dinamiche svalorizzanti il femminile e il mondo dell’educazione, si può giungere a un maggiore riconoscimento e riqualificazione della stessa professione educativa, da valorizzare nella sua utilità sociale13 (Oggionni, 2014). Un campo della ricerca universitaria potrebbe quindi essere quello che prova a ri-considerare i concetti di cura e di educazione, slegandoli dalla naturalità femminile e connettendoli invece a una professionalità più ampia, attraverso tanto un’autocritica e un’autoriflessione, quanto una re-impostazione didattica e formativa, più aderente alle necessità e alla realtà educativa esterna (in entrata e in uscita) alle stesse aule universitarie.

Quello che qui si propone quindi, partendo da una prospettiva di genere e da una riacquisizione di questa all’interno della stessa formazione di base per le e gli educatori, è un percorso che chiama in causa la loro formazione in modo radicale, la interroga e ne rende visibili alcune mancanze che permangono e che, più o meno consapevolmente,

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Secondo Cristina Palmieri in educazione si può parlare di “arte del mediare”; dove mediare comporta la possibilità di frapporre uno spazio tra chi sta apprendendo, sta crescendo, e l’ambiente in cui esso vive: una sorta di “cuscinetto” animato da pratiche, esperienze, persone, simboli e linguaggi, in grado di dare avvio a processi di scoperta personale, che consentano al tempo stesso di stare in una struttura sociale condivisa. Si danno quindi, attraverso la cura dei mediatori, le possibilità di aprire campi d’esperienza e di curare la stessa esperienza educativa.

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Su questo si veda anche quanto richiesto dalla rete nazionale degli operatori sociali, reNOS (Cfr. https://retenazionaleoperatorisociali.noblogs.org/, data ultima di consultazione: 6 dicembre 2016).

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vengono portate avanti dalle stesse educatrici, prima di tutto donne, figlie della tradizione e della contemporaneità. Tra queste mancanze è annoverabile la carenza di corsi in Pedagogia di genere nella formazione per educatrici ed educatori, utili invece per riflettere sui messaggi promossi nella quotidianità, che più o meno consapevolmente sostengono ed educano a una svalutazione del femminile e di tutto ciò che a esso è associato, compreso dunque il mondo dell’educazione. Una formazione critica è quindi indispensabile soprattutto nel tentativo di interrompere la riproduzione (promossa dalle stesse operatrici del sociale) di quella che Valeria Fedeli ha definito errata “grammatica dei sentimenti” (Pasolini, 2014), che ancora chiude i e le giovani donne e uomini in crescita in gabbie fisse, escludenti la complessità del proprio essere.

In accordo con Silvia Leonelli dunque si pensa che “Educazione di genere e Pedagogia di genere sono ambiti che dovrebbero essere di pertinenza della formazione iniziale e in servizio di tutti i professionisti dell’educazione, per le loro potenzialità di trasformazione culturale e sociale” (Leonelli, 2011). Proprio il corso di laurea in Scienze dell’Educazione infatti, attraendo in misura maggiore le donne, può aprire una riflessione sulle storie di formazione (femminili e maschili) e sostenere un’interruzione nella riproduzione di disuguaglianze. A partire da una riappropriazione consapevole dei propri vissuti (singolari e collettivi), educatrici ed educatori possono così divenire strumenti nella relazione educativa con altre donne/uomini; capaci di aprire riflessioni, pensiero critico e legittimazioni nuove. Le stesse educatrici dunque potrebbero proporre momenti di rielaborazione, avendo riflettuto, loro per prime, sull’educazione diffusa negli ambienti di vita quotidiana: sull’oratorio, territorio dal quale molte studentesse (studenti) arrivano con un’esperienza formativa in esso, passata o ancora in corso; sulle trasmissioni intergenerazionali; sui contesti, segnati da storie di migrazione e femminilità differenti, dai quali esse stesse spesso giungono e nei quali molto probabilmente andranno a inserirsi in fase successiva come professioniste.

Da ultimo quindi si sostiene la necessità per la ricerca pedagogica di continuare a esplorare i saperi di genere, che non riguardano solo altri, donne e uomini destinatari degli interventi educativi, ma lo stesso mondo dell’educazione e la società tutta, che ancora – in modo silenzioso e contraddittorio, ma determinante – promuove modelli relazionali tradizionali, educanti le stesse/i (futuri o meno) educatrici ed educatori a una “vita inconsapevole […], programmata, condizionata” (De Mello, 1995, pp. 76-77).

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