Gli apprendimenti promossi dal “mondo del sociale”, che conducono maggiormente le donne a scegliere contesti professionalizzanti che hanno a che fare con l’educazione, possono essere rintracciati nei territori della contemporaneità, nonostante (in alcuni casi) la loro radice sia assolutamente storica. Come ha affermato infatti una delle educatrici incontrate nel primo percorso di ricerca, la presenza maggiore di donne all’interno del mondo dell’educazione è connessa prevalentemente alla storica divisione del lavoro tra donne e uomini, che ha poi dato vita a una visione della cura (anche professionale) come propriamente femminile.
“storicamente erano proprio della donna gli spazi di cura, non solo di cura tra virgolette, legata alla crescita, legata alla famiglia, ma anche la cura, quella che poi si è professionalizzata, rispetto insomma a quello che conosciamo oggi, alle professioni sanitarie, ai malati, ai disabili. Comunque la donna si faceva carico di tutto questo lavoro di cura e di maternage, che di fatto, poi, ha fortemente influito su come le donne si vedono all’interno delle professioni poi, no?” (T1- Int.EDF1)
Nel contesto contemporaneo, in cui i destini precostituiti si allentano e i percorsi soggettivi prendono le distanze dalla tradizione aprendo potenzialmente a nuove possibilità di scelta individuale, il percepito disorientamento risulta però significativo (Brambilla, De Leo, Tramma, 2014), come pure il conseguente ancoraggio a frammenti
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solidi di messaggi antichi. Le giovani donne infatti, pur avendo oggi l’opportunità di creare un nuovo “destino di genere”, nel contemporaneo “mare ambiguo e difficile”, tendono a raccogliere i “frammenti di esperienza […], scialuppe di materiali riadattati con cui navigare, esplorare il possibile e sostenere la propria volontà di esistenza” (Weber, 2004, pp. 111-116). Ciò può condurre le stesse giovani, se non sostenute nell’elaborazione critica dell’attuale e nella scelta tra i molteplici messaggi esistenti, a reinterpretare in modo ambiguo e contraddittorio (o semplicemente inalterato) alcuni messaggi antichi, che, legati a un passato solido appunto, permangono come sottofondo quotidiano, portandole così, anche nel tentativo di essere altro dai dover-essere storici riservati alle donne, a colludere invece con un ordine maschile da tempo prestabilito (Bourdieu, 1998), che le vede ancora una volta come legate indissolubilmente alla cura (di se stesse e degli altri), al corpo più che alla mente o alla cultura, all’elaborazione di pensiero, saperi e novità per sé e il sociale più in generale.
A rafforzare questo modello di donna-corpo – da sempre contrapposto alla superiorità uomo-mente – è tanto il modello estetico apparentemente più emancipato (Pedrocco Biancardi in Bignardi, 2009; Vigliani, 2016), quanto quello religioso, che traduce facilmente il binomio in donna-madre. Queste associazioni sottolineano, più o meno esplicitamente in base a come vengo interpretate e vissute, l’essere per gli altri delle donne, viste ancora oggi come presenze a servizio e, per questo, più impegnate in attività “etero-orientate” (Dei, 2002, p. 100; Ruspini, 2003). Secondo Luigina Mortari è proprio la cultura cristiana della redenzione che tende a dettare alla “città degli uomini” dei dover-essere ancora forti e tradizionali (Mortari, 2006, p. 3). Questi, dal punto di vista che si sta tentando di assumere, non possono non interessare anche le future educatrici, le quali sono condotte, come le altre, a rispondere positivamente al loro essere donne, stabilito dal contesto sociale da loro abitato e ancora segnato dalle regole del maschile (Volpato, 2013). Proprio lo sguardo maschile tende a dire tutt’oggi alle presenze femminili del riconoscimento ottenuto o da ottenere ancora, del personale esserci adeguato o meno. Mentre lo sguardo materno in un primo momento dice a figli e figlie del loro essere nel mondo, quello maschile continua a dire alle donne del loro valore o disvalore (Weber, 2004). Inevitabile è chiedersi quanto queste dinamiche di riconoscimento ancora esistenti conducano maggiormente le donne – nel tentativo di essere considerate conformi all’ordine sociale prestabilito e invisibile – a scegliere la professione educativa, da loro stesse spesso vista come naturalmente femminile. Sembra, infatti, non un caso che anche tra le educatrici incontrate per i lavori di ricerca emergano percezioni di questo tipo: sottolineanti l’ovvietà (appresa) del lavoro svolto, più che la sua complessità e la professionalità e competenza da loro – professioniste oltre che donne – messa in campo quotidianamente.
“strutturalmente, mi viene da dire che ci sono dei lavori, sicuramente più portati per l’ambito femminile […]. Secondo me il fatto di essere donna implica quello che tutte abbiamo, che è il senso materno e nel senso materno ci sta molta educazione. […] Tutte queste cure proprio di dipendenza da una persona. […] Secondo me, da una parte c’entra proprio la genetica.” (T1- Int.EDF2)
In oratorio poi, luogo in cui da sempre si esprime la cultura cristiana, di cui i e le adolescenti in crescita (perlomeno in Lombardia) hanno esperienza più o meno diretta, è possibile trovare differenti presenze femminili che si strutturano attorno ai binomi
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donna-corpo, donna-cura, donna-servizio e che, attraverso la loro presenza e azione educano le giovani agli stessi. In esso si vive tuttavia il conflitto tra modelli femminili a prima vista percepiti come distanti: tra quelli generalmente assunti dalle adulte e quelli invece vissuti dalle più giovani, le quali, soprattutto se considerate marginali, appaiono alle prime come agli antipodi. Vecchi e nuovi modelli, di madre disponibile o di corpo emancipato, che nella loro incomunicabilità, trovano comunque dei contatti inaspettati che evidenziano similitudini e rendono l’oratorio, segnato dalle contraddizioni contemporanee e dalla sua tradizione, sede di riproduzione di antichi riferimenti. Per le donne che si rifanno esplicitamente a un passato, questi risultano ben identificabili nella Mater Dolorosa (Murgia, 2011, pp. 39-40). Chi invece vuole prendere le distanze da essa, nel disorientamento quotidiano, tende inconsapevolmente a riacquisirne alcuni aspetti. Proprio questi riposizionano le ragazze in crescita (e spesso le stesse future educatrici che in questi contesti si formano) nuovamente a sevizio, nello specifico di un’aggregazione maschile, educante i giovani uomini, anche in oratorio o sulla sua soglia, all’ossessione per il successo sessuale (Bellassai, 2010), a cui le donne, sempre più bisognose d’attenzioni, tendo a rispondere, cadendo precocemente in trappole emotive (Pedrocco Biancardi in Bignardi, 2009, p. 17). All’interno dell’oratorio l’aggregazione femminile rimane così tendenzialmente connessa al servizio (dei più piccoli o della virilità maschile) o altrimenti difficile da trovare e sostenere. L’oratorio, luogo da cui molto spesso le stesse educatrici arrivano o nel quale si potranno trovare in seguito a lavorare (o collaborare), è un contesto in cui le donne, pur essendo presenti, sono ombre invisibili ma indispensabili ad altri, tanto nel loro mostrarsi, quanto nel loro nascondersi. Interessante è allora rileggere queste connessioni attraverso le parole di un’educatrice professionale che, attiva in tale ambito, ha provato a sottolineare gli elementi caratterizzanti la presenza femminile nell’attualità dell’oratorio,
“contesto in cui le donne in qualche modo si devono sempre nascondere o si devono tenere un passo indietro. Comunque è un nascondimento anche quello, no? [pausa] Una suora deve sempre abbassare il tono, non si deve mostrare troppo forte. A un’educatrice non è chiesto di andare in prima linea è richiesto più di accompagnare, di stare a fianco, ma non di andare in prima linea […] la ragazzina si deve coprire, […] la ragazzina che fa il maschiaccio è proprio una roba… è un po’ una puttana. […] La ragazzina è troppo disinibita… per cui cosa fai? O esplodi o ti nascondi. […] Sarà molto portata […] ad aver bisogno o di mostrarsi del tutto, senza limiti, o di non mostrarsi di nuovo senza limiti. […] [La donna in oratorio] È un po’ una cantina, dove si accumulano tante cose e difficilmente si impara poi a riusarle, no? A tirarle fuori. Però ci sono un sacco di cose e se si impara a farsene qualcosa eh, è una gran cosa per tutti, è una gran cosa per tutti… Una cantina, assolutamente, della casa. L’uomo è molto più visibile, è al centro.” (T2- Int.EDF1)
Pare dunque modificarsi alle volte la forma ma non del tutto il contenuto delle femminilità proposte e vissute nei territori della contemporaneità, in cui l’oratorio, soprattutto in un tempo segnato dalla crisi del welfare state (Saraceno, 2013; Tramma, 2015), gioca ancora un ruolo centrale nello strutturare e concorrere alla definizione di percorsi formativi di molte e molti giovani. I messaggi e i modelli proposti, i comportamenti nuovi e antichi offerti nell’oggi non possono dunque non interessare anche le educatrici che, donne della contemporaneità e professioniste dei/nei territori
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contemporanei, si trovano ad agire e vivere gli stessi. Esse, riprendendo Edgar Morin, sono il risultato della società nella quale vivono e contemporaneamente riproducono la società che le ha prodotte (Brunori, Peirone, Poffa, Ronda, 2006, p. 27). Tuttavia esse stesse (come i loro colleghi), sono responsabili anche della promozione di cambiamento e dell’apertura di possibilità nuove per le vite soggettive e collettive (Oggionni, 2014, pp. 99-100). Proprio in funzione di questo compito trasformativo, possono essere sostenute (e sostenuti) nel leggere i risvolti educativi dei cambiamenti contemporanei e della permanenza di elementi della tradizione; cambiamenti ed elementi tradizionali permanenti che insieme strutturano didattiche informali educanti al maschile o al femminile, gli stessi educatori e le stesse educatrici.
Proprio le educatrici, ancora maggiormente presenti nel mondo dell’educazione, sono condotte però, nel conseguire questo compito, a molteplici contraddizioni. Se da una parte le dinamiche contemporanee mostrano come esse stesse, nella perdita attuale di riferimenti e nel tentativo di vivere nuovi modelli di donne, corrano il rischio di ribadire comunque le associazioni sopra mostrate e dunque la subalternità femminile; dall’altra, quelle professionali le vedono – oltre che come adulte o giovani adulte, oggi perlopiù in “crisi” (Palmieri, 2012) – come professioniste appunto, responsabili di progetti di cambiamento, capaci di guardare al futuro, anche in termini identitari, di possibilità femminili e di relazioni nuove tra generi. Tuttavia, se lo stesso futuro appare oggi in generale imprevedibile, per le educatrici un’ulteriore difficoltà sta nel proporre altro da ciò che, più o meno consapevolmente, hanno appresso nei rapporti con le donne (e gli uomini) delle generazioni precedenti (Callari Galli, 1988) e nei territori – segnati peraltro da storie migratorie differenti, caratterizzanti i rapporti tra i generi e le generazioni (Campani, 2000) – che hanno rafforzato (e rafforzano) il loro essere per gli altri e la dimensione del sacrificio naturalmente femminile. Una delle donne intervistate per il lavoro in corso, rappresentante la “generazione-cerniera” (tra le “nonne” e le “figlie”), ha esplicitato in modo evidente proprio questa riproposizione tra donne, sottolineandone anche le fatiche emotive.
“l’unica cosa che secondo me mi ha influenzato è questo essere devota al sacrificio, che secondo me non è così positivo, questo proprio essere devota al sacrificio. Io mi devo sacrificare, come si dice? L’animale sacrificale… Ecco! Questo no, questo non mi piace! Questo, dentro di me sento, sento questo tarlo del sacrificio, che sicuramente mi ha trasmesso lei. Ed essere così sacrificale, a volte ti porta veramente a metterti sulle spalle situazioni più grosse di te, che se non sei così forte, ti schiacciano! E questo è quello che succede a me! […] mia mamma appunto, è molto più forte, reagisce a queste situazioni in maniera, non so, più, in maniera più determinata, non lo so. Invece a volte io mi sento proprio schiacciata. E questa è una cosa che lei mi ha trasmesso di cui non sono grata.” (T3-Int.MF1)
Un’altra contraddizione che le educatrici sono chiamate a vivere è quella relativa al tempo, o meglio ai tempi (Leccardi, 2009). Se, da una parte, infatti il linguaggio globale (Ungaro, 2001, p. 74-78) chiede a chiunque di vivere un tempo accelerato, necessario per restare al passo con i cambiamenti; la tradizione, come si è visto ancora influente, chiede alle donne, in diverse forme (istituzionali, pubbliche o legate alla comunicazione di massa), di essere anche madri e di vivere tempi diversi: lenti, inerenti la cura e la relazione. Tempi che per le educatrici, se madri, diventano di doppia natura: connessi all’ambito privato e a quello lavorativo. Tutto ciò le renderebbe così disobbedienti alla
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norma sociale dell’accelerazione e della produttività in maniera altrettanto duplice. Facendo esplicito riferimento alla campagna del Fertility Day, si può sostenere poi come questa, ricordando alle donne la loro funzione materna, le responsabilizzi (colpevolizzi?) in relazione all’invecchiamento demografico, legandole così, con il laccio della loro possibilità biologica, allo sviluppo del paese e tralasciando invece le competenze da loro acquisite nel tempo e nella loro storia, in favore piuttosto di una riproposizione della naturalità femminile.
Anche l’educazione alla colpa, di cui si trova traccia in questa stessa campagna, risulta essere un retaggio del passato e nello specifico della cultura cattolica (Ulivieri, 1997). È infatti Eva il secondo modello, dopo Maria di Nazareth, che rimane in maniera pervasiva come offerta cattolica alle donne, le quali, identificandosi in essa, possono espiare il proprio peccato originale ponendosi a servizio di altri (Miriano, 2013, p.93).
Sostenere la (connaturata) colpa femminile, in vari discorsi pubblici oltre che privati, contribuisce a sottolineare la debolezza della donna, la sua vulnerabilità, instabilità e dunque l’inevitabile subordinazione. Questa tuttavia, riconosciuta esplicitamente in culture altre, che arrivano in Italia e che vengono percepite come arretrate e maschiliste, in antitesi a quella occidentale, è invece negata – legittimata – nella cultura dei territori d’arrivo delle popolazioni accusate (Dominijanni, 2016). La stessa subordinazione, come si è visto, è però presente (in varie forme, più o meno visibili) e influente anche nei contesti di vita quotidiana che associano ancora la donna all’accudimento, al corpo, al materno. Ciò ha poi dei risvolti importanti anche in ambito economico, da sempre abbinato allo spazio pubblico e agli interessi maschili (Parricchi, 2016), lontani dal domestico e dai compiti di cura, che, spostandosi dal privato al sociale, faticano comunque a slegarsi dal mondo esclusivamente femminile. Legame questo che continua a riproporre, in accordo con un welfare fondato sul modello delle solidarietà familiari e parentali (Naldini, 2002), uno scarso riconoscimento delle competenze professionali delle donne, soprattutto di quelle che, per professione appunto, si occupano proprio di cura ed educazione, compiti percepiti ancora come naturalmente femminili.
Le donne di oggi tuttavia non sono indifferenti alle nuove possibilità di realizzazione economica e vengono definite, anche per questo, acrobate. Donne che cercano (perlopiù in maniera individuale, basandosi sulle personali risorse e strategie) un equilibrio tra due modelli: della donna romantica, fedele alla tradizionale della donna- madre, e della donna post-moderna, giovane e attiva, rispondente a tutte le aspettative che su di lei vengono riversate, tanto dal mondo del privato quanto del sociale. Se una possibile deriva del primo modello vede la delegittimazione in quanto donna di chi prepone all’essere madre il lavoro; quella del secondo può prevedere invece l’omologazione alle regole del maschile. Ciò limiterebbe le possibilità di portare saperi alternativi in ambienti di potere da sempre associati all’uomo, conducendo le stesse donne ad adattarsi piuttosto all’ordine gerarchico esistente (Santolini, Militello in Bignardi, 2009). Non abbandonando del tutto l’idea della tradizione e aderendo alle logiche maschili, le donne acrobate corrono così il rischio di illudersi intorno all’infallibilità femminile. Tra queste diverse spinte e possibili derive si snoda, spesso in maniera improvvisata e solitaria, la loro quotidianità: delle femminilità contemporanee e, come tali, anche delle educatrici (Rosci, 2010).
Esse, operando per il cambiamento, devono provare a muoversi in ambito privato eppure sociale; in un contesto dove il futuro è incerto e imprevedibile, precario e denso di responsabilità, alle quali pare necessario rispondere per riconoscersi ed essere
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riconosciute in quanto donne dell’oggi e per far fronte all’attuale dispersione identitaria (Bauman, 2003). Loro stesse sono condotte a pensare il futuro, a sostenere un pensiero di trasformazione, previsto e legittimato per le storie altrui con cui entrano in contatto, ma difficilmente realizzabile (in autonomia) per quanto riguarda le questioni di genere. Se non accompagnate nella rielaborazione, infatti, le stesse educatrici saranno portate a riprodurre ciò che hanno vissuto in prima persona (Dello Preite, 2016; Guerrini, 2016). Il pensiero di trasformazione, inoltre, appare anche difficilmente anticipabile per se stesse, per il proprio percorso personale e professionale, all’interno del quale viene richiesta sempre maggior flessibilità. Devono infatti tener conto, nella loro quotidianità, della costitutiva imprevedibilità del lavoro educativo, perché generalmente connesso a bandi e a progetti a tempo, e dell’insicurezza economica a cui pare essere legato, perché erogato attraverso contratti spesso altrettanto a tempo che implicano instabilità per i e le lavoratrici. La flessibilità per le educatrici donne è però maggiore: non solo poiché inserite in un contesto contemporaneo che richiede in generale di essere flessibili e per la natura costitutiva del lavoro educativo (Tramma, 2003) o le condizioni di poco prestigio in cui oggi versano i servizi e i progetti in quest’ambito (Saraceno, 2013, p.116), ma proprio perché donne, viste come potenzialmente madri e interessate al Gender Gap, che oggi appare più elevato proprio nei servizi (Ricciardi, 2016). Se anche poi il modello del male-breadwinner venisse totalmente sostituito da quello dell’aiutante (Della Puppa, Miele, 2012), la permanenza dell’idea diffusa di cura come prevalentemente femminile e la svalutazione economica del mondo dell’educazione, non garantirebbero una facile identificazione maschile con la figura professionale dell’educatore, che rimarrebbe così legata ancora alla donna, bloccata in un gioco di rimandi svalutanti che si rafforzano reciprocamente. In questo gioco di rimandi e rispecchiamenti poi si inserisce anche la tendenza, soprattutto della “tradizione cattolica”, a sostituire l’educazione professionale con quella volontaria. Mentre però il volontario uomo vede con più facilità rafforzata la propria identità all’interno della “comunità cristiana”, per le donne la volontarietà si traduce in oblatività, favorendo così una maggior dimenticanza di sé in favore piuttosto di una noità in cui l’io si viene a scioglie. La debolezza del mondo dell’educazione si traduce in debolezza sociale di operatori e operatrici, ai quali tuttavia viene chiesto di essere e farsi punti di riferimento solidi per altri/e momentaneamente a loro affidati. Debolezza questa che inevitabilmente fa da specchio a un’altra idea più diffusa di una debolezza identitaria connessa all’essere donne. Queste però, se educatrici, vedono estendersi la responsabilità di cui sopra dall’ambito familiare, che permane prevalentemente al femminile (Saraceno, 2013), a quello del sociale. È evidente dunque come la complessità e le contraddittorietà contemporanee che si combinano insieme ai frammenti solidi della tradizione, da cui pure le educatrici ricavano apprendimenti per la loro stessa identificazione, abbiano delle ricedute significative anche sulla strutturazione dell’identità professionale. Dai problemi identitari contemporanei che vedono il fluidificarsi di ancoraggi sociali ben definiti (Bauman, 2003, pp.24-25), si giunge così a un problema di identità delle professioni di cura (Seveso, 2000, p. 130), che, in maniera non sempre problematizzata, permangono come femminili e svalorizzate nella loro funzione sociale.
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