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PAROLE PER RELAZIONI, DIFFERENZE IN UNA CITTADINANZA CONDIVISA

1. Strumenti e metodologia

Vorrei dunque cominciare questa mia discussione con un’analisi riguardante la metodologia e gli strumenti che abbiamo impiegato nelle classi durante le attività laboratoriali. Quali strumenti e quali metodologie si possono utilizzare in classe per stimolare la creatività e l’immaginazione e per educare, così facendo, al genere e all’intercultura?

Lo stile di conduzione dei laboratori è stato interattivo e relazionale: abbiamo privilegiato, in particolare, metodologie attive come l’(auto)narrazione, l’espressione di sé, il confronto in piccolo gruppo e in plenaria, con lo scopo di rendere alunni e alunne protagoniste del loro percorso di conoscenza e approfondimento. Cruciale in questo senso è stata la presa in esame dei vissuti personali, da cui abbiamo deciso di partire per evitare astrazioni di tipo ideologico o definizioni teoriche e fisse di cosa sia il genere. Come ci confermano le tante narrazioni prodotte da chi ha partecipato ai laboratori dell’anno scolastico 2015-2016, il genere non è un’ideologia, ma piuttosto un’esperienza vissuta; fa parte, come ci ricorda Michela Marzano (2015) citando Oscar Wilde, di quelle “cose vere della vita [che] non si studiano né si imparano, ma si incontrano.” Attraverso l’analisi di testi letterari e di linguaggi artistici vari abbiamo con studenti incontrato il genere nelle sue molteplici forme e metamorfosi. A contatto con ragazzi e ragazze e nella pratica dei laboratori, tale costrutto teorico assumeva di volta in volta forme concrete e si esprimeva attraverso esperienze vissute anche molto diverse tra loro. Cito a titolo d’esempio, il racconto del ragazzo che voleva fare pattinaggio artistico e ricordava almeno inizialmente di essere stato preso in giro dai propri compagni che

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consideravano tale sport troppo “femminile,” o ancora la storia di una ragazza di una scuola secondaria di secondo grado di Trento che desiderava imparare a suonare il trombone e che si era dovuta confrontare con le risatine e le battute dei compagni. Si trattava nel loro caso di desideri, passioni, sogni che venivano a scontrarsi con la dura realtà degli stereotipi e del pregiudizio. Recuperare tali ricordi anche dolorosi, mettere in parole tali esperienze inizialmente faticose, ma poi entusiasmanti, significava dare riconoscimento e valorizzare un difficile percorso verso la libera espressione di sé e l’affermazione delle proprie inclinazioni e dei propri desideri. Significava inoltre affermare nel concreto i principi di pari opportunità e di consapevolezza così cari alle politiche di genere.

Come si evince da questi due brevi esempi, nota distintiva del Percorso 4 sono il lavoro e la riflessione sugli affetti (la rabbia, il rispetto, l’odio, l’amore…) che la sociologa Sara Ahmed (2004) ha giustamente descritto come “una circolazione dinamica” (44), poiché tali affetti ci muovono verso o ci allontanano dagli altri. Ci siamo inoltre concentrate/i sulla parola come strumento indispensabile per dir-si e raccontar-si. A titolo d’esempio cito questa breve testimonianza raccolta durante una delle attività in classe, nel corso della quale a studenti veniva chiesto di partire dalla descrizione di un’immagine di una coetanea sconosciuta per parlare di sé: “E’ una ragazza che vive nella periferia di una cittadina. Ha 19 anni. Fa parte di un gruppo di giovani mirato al cambiamento, ma al tempo stesso è obbligata a trovare piccoli lavoretti e farsi sfruttare dal sistema per far tornare i conti. Sembra estremamente calma, ma comunica una rabbia silenziosa, una disillusione del mondo, insieme alla sicurezza della sua posizione quasi ostentata per comunicare ad esso di essere forte. Mi sembra sfrontata, saggia, calma. Mi riporta a ciò che sento io in questo momento.”

Come appare evidente qui, gli affetti e le parole sono componenti essenziali del Percorso 4, che è centrato sul costruire relazioni e parte dal presupposto che le parole e gli affetti non ci abitano né ci dominano, ma siamo noi di volta in volta a sceglierli, attivarli e a metterli in pratica a seconda delle situazioni e delle persone che ci troviamo davanti. È nostra convinzione che la scuola debba tornare ad essere un luogo degli affetti, un posto dove si coltivano non solo saperi, ma si “creano legami,” dove si impara a stare al mondo con la propria unicità e a con-vivere con gli e le altre. La scuola crediamo è molto più di un’agenzia educativa che fornisce saperi disciplinari standardizzati e conoscenze teoriche generali e deve essere molto più di un edificio scolastico di materiale refrattario. Illuminante a questo proposito la testimonianza di un ragazzo di una scuola secondaria di I grado che alla richiesta di trovare somiglianze e diversità tra lui e la scuola scrive: “Io e la scuola siamo simili perché non ci sopportiamo; siamo diversi perché lei è di cemento.” O ancora nelle parole di una ragazza: “Gli ‘ingredienti’ che mi fanno sentire bene in una relazione sono la sincerità e il rispetto. Non è possibile creare un legame con la scuola, perché essa letteralmente è un edificio, non prova sentimenti e sinceramente non ho ricordi piacevoli con la scuola.”

Come gli affetti e le parole, anche le identità sono plurali e relazionali; non esistono insomma categorie fisse e immutabili per dire chi siamo, ma il viaggio verso la definizione di sé è aperto e graduale come ben ci dimostrano il romanzo La felicità scivola tra le dita della scrittrice libanese residente in Québec Abla Farhoud e quello dal titolo fortemente ironico Porto il velo ma adoro i Queen della scrittrice italo-araba Sumaya Abdel Qader o ancora la poesia “Child of the Americas” che racchiude in sé le origini creolizzate, ebraiche e caraibiche, della poeta Aurora Levins Morales.

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2. Dalla teoria alla pratica

Il Percorso 4, e più in generale il Progetto Educare alla Relazione di Genere, nasce nel 2015 per volontà della Provincia di Trento e con l’intento di contrastare la violenza di genere. L’illustrazione dei documenti legali esistenti sia a livello internazionale che nazionale per contrastare la violenza è sempre stata accompagnata nel corso dei seminari con docenti e dei laboratori con studenti da un’analisi dei dati sia europei che provinciali e integrata da pratiche laboratoriali in classe che hanno permesso a studenti di ricondurre la violenza alla vita vissuta ed eventualmente anche di riconoscere parole e comportamenti violenti nel proprio quotidiano.

Nella raccolta di poesie Anime scalze della scrittrice franco-siriana Maram al-Massri si incontrano per esempio fugaci ritratti di donne compilati in tre lingue (italiano, francese e arabo), che mappano con delicatezza una cartografia di volti di donne colpite da violenza e di minori che a quella violenza hanno assistito. Si veda, ad esempio, il seguente ritratto:

Sef

figlio di Zohra età 10 anni

Ho visto mia madre piangere mentre preparava

il pranzo.

Chi ti fa piangere mamma? Dici che è la cipolla ma non hai le cipolle fra le mani… (p. 139)

Al Liceo coreutico Bonporti, la danza è stata utilizzata come metodologia di lavoro per tradurre in movimento alcune di queste poesie e dare corpo alle donne e agli adolescenti qui solo sommariamente delineati. L’intento è stato quello di integrare freddi dati statistici con una rappresentazione creativa, calda, affettiva, così da favorire un coinvolgimento reale, una rielaborazione, un approfondimento critico ed eventuali variazioni da parte di allievi e allieve sul tema.

Non solo di violenza, ma anche di prevenzione si è parlato durante i diversi laboratori. Nel caso di un istituto secondario di II grado di Tione, ad esempio, le attività laboratoriali si sono concentrate sulla riflessione in piccoli gruppi delle caratteristiche che distinguono un rapporto equilibrato da un rapporto (affettivo) abusante. Queste le conclusioni di un gruppo con esempi concreti tratti dal proprio quotidiano: “Caratteristiche di un rapporto equilibrato sono il rispetto, la libertà di parola e scelta, l’indipendenza, l’aiuto reciproco, la fiducia e una buona comunicazione. Questo significa ad esempio che eviterò di controllare il telefono o computer del mio partner, sarò libera/o di esprimermi senza temere le reazioni dell’altro/a e condivideremo insieme i lavori di casa, gli impegni relativi alla crescita e all’accudimento dei figli. Un rapporto non equilibrato invece si riconosce per la presenza di forme di violenza più o meno velate, la dipendenza di un partner rispetto all’altro, la sottomissione, la tendenza a sminuire e a umiliare, i condizionamenti, la gelosia e il possesso. La violenza si verifica, ad esempio, quando una

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persona viene umiliata in pubblico o uno dei due partner ritiene che l’altra persona gli/le appartenga. In una relazione abusante, non c’è ascolto o cura nei confronti dell’altro.” Non solo di violenza domestica, ma anche di violenza pubblica si è parlato nel corso dei laboratori. La riflessione tra pari, ma anche e soprattutto la scrittura creativa sono state utilizzata come strumento di approfondimento per calarsi ad esempio nei panni di chi è stato oggetto di violenza pubblica. Educare alla cittadinanza condivisa significa, crediamo, anche educare a riflettere su che cosa sia uno Stato di diritto, su cosa vogliano dire nel concreto libertà di parola e di espressione. Con l’attività “Le scarpe di Giulio,” è stato chiesto ad una classe di un istituto secondario di II grado di Trento di immaginare la storia di Giulio Regeni, ricercatore sequestrato, torturato e ucciso in Egitto, così come l’avrebbero potuta raccontare le sue scarpe. Ne sono usciti molteplici ritratti e un grido corale alla vita e alla nonviolenza come ben testimonia il seguente elaborato raccolto a conclusione dell’attività: “Eravamo abituate alla sensazione delle strade asfaltate, dell’erba, delle foglie per strada, del vento forte e ci siamo ritrovate dopo un lungo viaggio in un luogo così caldo che anche il terreno sembrava bruciare. Ogni metro che facevamo sentivamo la sabbia che entrava da ogni fessura possibile e le giornate sembravano passare più lentamente che in Italia. In Egitto abbiamo percorso molte più strade di quelle percorse a casa, sempre nuove e sempre differenti. Inizialmente stentavamo a capire cosa le indicazioni lungo le strade dicessero o quello che sentivamo pronunciare dalle persone. Siamo diventate sempre più fragili e deboli, consumate dal tempo e dalla voglia di esplorare il mondo e conoscere nuove persone.”

La scrittura creativa, mi pare, ha il vantaggio di andare oltre la rappresentazione mediatica, che molto spesso si riduce a semplice bombardamento che dà assuefazione, e di farci indossare i panni dell’Altro/a e fare un esercizio, seppur difficile, di immaginazione. Come ci ricorda la poeta Grace Paley, l’immaginazione rappresenta il primo passo verso una reale presa di coscienza e uno strumento indispensabile per promuovere ed esercitare il senso di responsabilità e l’allargamento del punto di vista. Essa rappresenta in questo senso un antidoto alla violenza che è per sua natura chiusura, oppressione, incapacità di vedere e sentire chi ci sta di fronte, cecità e perdita di orizzonti. A guidare dunque la nostra attività è stata la convinzione che ci sia un legame stretto tra scrittura e attivismo e che, nelle parole di Paley (1994), “ciascun essere, sia reale che inventato, meriti un destino della vita aperto” (p. 232). Questo è particolarmente vero, credo, nel caso di chi ha subito violenza e deve dunque ripartire per tratteggiare una nuova immagine di sé, degli altri intorno a sé e del proprio destino. La scrittura creativa apre dunque nuovi immaginari e orizzonti. Attraverso l’uso delle carte Cuntala, in una classe di un Istituto secondario di primo grado di Rovereto abbiamo chiesto a studenti di inventare una piccola storia che avesse come protagonisti personaggi femminili e maschili che mettessero in discussione stereotipi di genere, ruoli e mestieri tradizionali, convenzioni linguistiche. Si è trattato di un lavoro in piccoli gruppi, di un esercizio collettivo di fantasia senza regole fisse e con personaggi inconsueti e fuori dagli stereotipi. Qui di seguito alcune delle storie inventate durante l’attività:

“C’era una volta una famiglia che parlava molte lingue. All’aeroporto di Miami trovarono una valigia con dentro un frullatore. Corsero veloci al negozio di animali vicino alla rotonda e scambiarono il frullatore con un airone giallo.”

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“Sotto il sole un’astronauta, un ostetrico e uno zuccone si tuffarono in acqua. Trovarono un frigo frantumato e quando risalirono sulla spiaggia, l’astronauta si sentì così male che l’ostetrico dovette fargli una puntura.”

“La sindaca e l’elefante, muovendosi verso la savana, si misero a cantare utilizzando una tenaglia bollente come arma di difesa. Stanchi della giornata, si addormentarono russando fortissimo.”

In queste storie inventate, la sindaca entra nell’immaginario collettivo della classe assieme all’ostetrico e all’astronauta. Peccato che la realtà sia ben diversa e che la competenza e la professionalità delle donne vengano spesso scalzate nei media dalla bellezza. Con le alunne di un Istituto professionale di Trento abbiamo dunque riflettuto sul concetto di bellezza e sulla sua evoluzione storica e culturale, interrogandoci in particolare su come siano cambiati e su come continuino a cambiare sia nel tempo che nello spazio i canoni relativi alla bellezza e su quali siano gli stereotipi predominanti nella nostra società. Leggendo alcuni articoli sul ruolo che la bellezza ricopre tra gli e le adolescenti di oggi ci siamo chieste: in una società che persegue la perfezione a tutti i costi, quali sono i modelli e i condizionamenti che vengono proposti a uomini e donne e che influenzano le loro scelte, le loro relazioni, il loro modo di essere e stare al mondo? Quali affetti (paura del giudizio, frustrazione, narcisismo, emarginazione, esclusione, umiliazione…) produce la cieca adesione a parametri di bellezza imposti da altri? La visione del video “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo ci ha permesso di avviare una discussione sui modi in cui le donne vengono rappresentate in TV, sulla loro riduzione ad oggetto sessuale, sulla svalutazione continua delle loro competenze e della loro professionalità. Abbiamo concluso che l’attenzione al proprio benessere e alla cura di sé piuttosto che la rincorsa di modelli irraggiungibili imposti dalla società possono permetterci di uscire da una spirale altrimenti pericolosa. Oltre al video, sono stati portati in classe esempi di buone pratiche come il documento stilato dall’Ordine dei Giornalisti a livello nazionale in cui si fa appello alla decostruzione di stereotipi palesi o sottili sul genere femminile e alla sostituzione di immagini riduttive, non pertinenti e quasi sempre correlate alla sfera sessuale con rappresentazioni equilibrate di donne come cittadine attive e professioniste.

Tra gli stereotipi di genere più frequenti si segnalano quelli legati alle professioni: a questo proposito, con un’altra classe si è sentita la necessità di fare un lavoro specifico su questo tema, avviando una riflessione sui modelli proposti, sulle competenze e le abilità che una persona deve possedere per fare un determinato lavoro, ma anche sugli ostacoli e sui condizionamenti che può incontrare in campo lavorativo. Tra gli stereotipi più diffusi: l’idea che le donne siano portate “naturalmente” a svolgere lavori di cura come quello di psicologa, insegnante e assistente sociale, perché più propense all’ascolto e all’attenzione nei confronti degli altri, o lavori domestici come la casalinga e la donna delle pulizie, perché più pazienti e attente alla “cura del dettaglio”; al contrario, gli uomini sarebbero più adatti a svolgere lavori manuali come l’idraulico, l’elettricista, il meccanico, il chirurgo e il vigile del fuoco. Un’alunna volontaria dei vigili del fuoco ha prontamente smentito tale stereotipo permettendo di dare vita, proprio attraverso il suo auto-racconto, ad una messa in discussione, decostruzione e ripensamento di tali ruoli e lavori stereotipati. Per invitare alunni e alunne a pensare aldilà degli stereotipi e stimolare una presa di coscienza di desideri e aspirazioni, di eventuali ostacoli e condizionamenti che possono limitare o impedire la piena realizzazione di sé nel campo lavorativo, è stato chiesto a ragazzi e ragazze di fare l’esercizio creativo che Virginia

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Woolf ci invita a fare in Una stanza tutta per sé, ossia a immaginare quale sarebbe stata la vita di Judith, sorella immaginaria di William Shakespeare, se avesse avuto il talento del fratello. Unitamente a ciò, si è chiesto alla classe di condurre una ricerca su figure femminili e maschili che si sono distinte a livello nazionale e internazionale in campi che vedono di norma il predominio di uno o dell’altro genere.

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