PAROLE PER RELAZIONI, DIFFERENZE IN UNA CITTADINANZA CONDIVISA
3. Criticità e interrogat
Nel complesso, le classi hanno partecipato attivamente e con entusiasmo alle attività proposte anche se rimane da sconfiggere la convinzione diffusa che parlare di violenza maschile contro le donne sia fare uno “sgarro” al genere maschile come testimoniano domande del tipo: “Perché non parliamo della violenza delle donne sugli uomini?” oppure “Come donne abbiamo già troppe agevolazioni” o banalizzazioni del tipo “L’amica di mia mamma dice sempre che suo marito è un incapace.”
Dalle cosiddette “espressioni creative” portate in classe da ragazzi e ragazze sul tema della violenza poi, è apparso evidente come l’immaginario collettivo sia pervaso da immagini e storie a dir poco inquietanti. Cito a titolo d’esempio il video di Emineem e Rihanna “I’m a superman” o di Avenged Sevenfold “A Little Piece of Heaven,” in cui la donna protagonista del video viene pugnalata con cinquanta coltellate e il suo cuore mangiato dal partner.
In chiusura, appare importante segnalare che il percorso 4 non fornisce nozioni o saperi impacchettati e predefiniti una volta per tutti né contenuti sistematizzati, ma piuttosto modalità operative e spunti di lavoro per esercitare il pensiero critico assieme a proposte di metodologie didattiche mirate all’integrazione di una prospettiva di genere nell’ordinaria attività didattica. Può capitare dunque che allievi e allieve coinvolte nelle attività facciano a volte fatica a individuare con chiarezza le nuove competenze acquisite che spesso coincidono con un aumento della consapevolezza, la promozione della riflessione e dell’auto-riflessione, lo sviluppo di un pensiero critico mirato alla decostruzione di eventuali stereotipi e alla messa in discussione di ruoli e mestieri tradizionali. Infine, proprio perché molto spesso le tematiche di genere sono vissute e sentite in prima persona, può capitare che ragazzi e ragazze le percepiscano come “scontate” o come già affrontate e dunque da archiviare. In realtà, l’osservazione in classe e i risultati raccolti durante i laboratori assieme al confronto diretto avuto con docenti e genitori ci dicono che c’è ancora molto da fare per raggiungere una reale consapevolezza di cosa siano le pari opportunità e di come si possa fare per immaginare e praticare la cittadinanza condivisa dentro e fuori dalla scuola.
Accanto a questi nodi critici, si sollevano qui di seguito alcuni interrogativi finali:
Come elaborare saperi che risveglino e catturino l’interesse delle nuove generazioni e che abbiano un reale impatto sulle loro vite?
Come facilitare la circolazione dei saperi di genere dalla teoria alla pratica, dal mondo accademico alle diverse realtà scolastiche e soprattutto alle diverse soggettività che lì si incontrano, si confrontano e a volte si scontrano?
Ma soprattutto come evitare di imporre dall’alto un sapere che è animato da principi quali l’emancipazione, la libertà, le pari opportunità? E infine come tradurre tali saperi da una disciplina all’altra, da una cultura all’altra nel rispetto della differenza altrui?
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Di recente, durante una conferenza in Marocco, è parso evidente come non sia sufficiente limitarsi a registrare l’esistenza di stereotipi di genere in libri scolastici e denunciarne la pervasività. Neppure il semplice “ritocco estetico” e dunque l’inclusione di immagini alternative può dirsi sufficiente e soddisfacente, se tale pratica di superficie non si accompagna ad una pratica più profonda che va a toccare tutto il tessuto sociale in maniera pervasiva. È necessario allargare l’immaginario di ciascuno/a con l’inclusione di nuove immagini paritarie, ma anche e soprattutto nominare e praticare ruoli e modelli paritari con parole, affetti e performance concrete. La revisione paradigmatica dei saperi disciplinari per produrre un reale cambiamento culturale deve essere accompagnata da azioni concrete che valorizzano la competenza e la professionalità femminile invece che screditarla, che promuovono la libera espressione di sé invece che sanzionarla in maniera più o meno velata. La semplice aggiunta di voci femminili nel canone della letteratura nazionale e mondiale, l’inserimento di immagini di donne ministre, ingegnere, astronaute è mera facciata se non si stimolano con attività creative ragazzi e ragazze a immaginarsi fuori dai canoni e dai classici standard e non si mettono alla portata di tutti parole, ruoli, modelli mirati alla libera espressione e piena realizzazione di sè. Che succede, ad esempio, se un giorno porto in classe una voce non solo femminile, ma anche (e qui attingo dal mio bagaglio di studiosa della diaspora araba) una voce musulmana, nera, africana, marocchina. Che succede mi chiedo se un giorno porto in classe la poesia “Africa” di Mina Boulhanna in cui è scritto:
Africa, nera
Colore del lutto, sei in lutto Immensa
Mi manca il tuo abbraccio Calore di affetto Di generosità, d’amore e chi ti capisce? Sei nera e brutta
Sei povera maledetta
Sei l’Africa da rimanere in Africa
Come cambia la nostra idea di geografia se un giorno porto in classe l’Africa in poesia? Scrittrice di confine, Boulhanna in questa poesia ci offre lo spunto per immaginare una geografia alternativa, ma ci impone anche un punto di vista violento che facciamo fatica ad accettare, pur essendo purtroppo realtà. Immigrata marocchina arrivata in Italia negli anni ’90, le sue due poesie “Immigrata” e “Africa” sono racchiuse nel Nuovo Planetario Italiano curato da Armando Gnisci. Nulla si sa della sua biografia e non vi è altra traccia dei suoi scritti dopo queste due poesie che appaiono come due isole disperse in mezzo ad un mare di nuovi scrittori. Avrei potuto scegliere altre scrittrici marocchine più affermate forse anche in virtù della loro classe sociale privilegiata, ma ho preferito portare qui oggi Boulhanna e parlare del suo inizio abortito.
A me pare che il contatto con questa come con altre scrittrici faccia saltare per aria il concetto di canone, ma anche i confini geografici tracciati a tavolino, così come modelli e ruoli gerarchici (lei dopotutto è un’immigrata che vuole fare la scrittrice, una donna araba che non sta solo in cucina come spesso pensano molti studenti che ho incontrato). Non si tratta semplicemente, come ci ricorda Edward Said (2008), di sostituire un gruppo di figure di riferimento e di verità con un altro, di rimpiazzare un centro con un altro centro ma piuttosto di far irrompere in classe corpi e parole che esistono non solo nelle antologie ma anche oltre i muri della scuola e che ci permettono di cercare di capire accadimenti, pratiche e modelli al contempo locali e globali che altrimenti restano
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oscuri, perché non convenzionali e imprevedibili. Come ci ricorda Clotilde Barbarulli “la lingua, come la società, ha una sua vita. Non è un veicolo convenzionale e prevedibile, ma è una struttura ogni volta rifondata, dinamizzata da chi scrive e riscoperta da lettori/lettrici” (p. 12).
È con questa immagine di una lingua e di una società dinamiche, imprevedibili, da scoprire e riscoprire che desidero chiudere questo mio intervento.
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