Marialisa Rizzo
1. Introduzione
Questo contributo propone una riflessione attorno ai saperi femminili, a “paradigmi differenti, sopravvissuti e trasmessi accanto e al di fuori del sapere ufficiale” (Seveso, 2000, p. 15). Essi, non naturali e non professionali, sono connessi a un saper fare che produce concretamente degli effetti, anche in termini di scelte di formazione e professione futura, le quali, se riguardanti il campo educativo, continuano a essere portate avanti perlopiù dalle donne, risultando così scelte di/da donne. Sono saperi però che, pur riguardando l’educazione e la pedagogia, non conferiscono a essa potere scientifico, né tantomeno permettono di riconoscere il valore professionale di chi, appunto per professione, si muove in tale ambito, animato peraltro anche da molti e soprattutto molte volontarie. Proprio questi saperi vengono, infatti, considerati, spesso dallo stesso mondo dell’educazione, naturali e in opposizione invece alle conoscenze professionali (Seveso, 2000, pp. 14-16).
È dall’esplorazione di questi stessi saperi che nasce quindi il lavoro qui presentato. Esso trae origine da un percorso personale di studio e ricerca, iniziato nel 2012 e ancora in corso. La sua prima tappa ha provato una riflessione introno alla triangolazione donne- cura-educazione, tentando di comprendere le possibili interconnessioni tra le tre dimensioni e quali fossero (siano) i messaggi di genere, i modelli diffusi e ancora proposti alle donne, in grado di trasformarsi, velocemente e perlopiù inconsapevolmente, in dover-essere a cui aderire per essere riconosciute in quanto tali. Si è tentato dunque di capire se ci fossero, ed eventualmente quali fossero, le aspettative (sociali e poi inevitabilmente personali) e i bisogni soggettivi (ma anche collettivi, femminili) che portano tutt’oggi maggiormente le donne a scegliere un percorso di studi come quello in Scienze dell’Educazione. Ci si è chiesti quindi se questa scelta fosse realmente così definibile o se al contrario fosse connessa perlopiù a didattiche informali, le quali, “a prescindere dalla loro intenzionalità e rigore metodologico” e dalla consapevolezza di chi le vive (Tramma, 2009, p. 97), producono apprendimenti e delineano performances anche di genere (Viggiani, 2010).
Tra i messaggi e i modelli emersi dal primo percorso di ricerca, un peso rilevante, in termini di ricadute sulla strutturazione di sé in quanto donna, è stato assunto dalla cultura cattolica. Questa infatti condiziona ancora oggi il modo di stare insieme di uomini e donne: anche chi suppone di allontanarsi dal mondo di chi crede e di essere indifferente – e immune – alle ricadute dello stesso sulla propria biografia, in realtà vive il medesimo imprinting culturale e anzi lo subisce con tanta più efficacia quanto meno lo comprende e lo sottopone a pensiero critico (Murgia, 2011, p. 7). Davanti a tutto ciò si è deciso di proseguire nella direzione riflessiva intrapresa con il primo lavoro – inerente l’educazione informale di genere (Tramma, 2010; Brambilla, 2016) – osservando da vicino il territorio-oratorio, inteso come spazio vissuto nel quale molti e molte giovani in crescita (anche studentesse in Scienze dell’Educazione) sperimentano ancora nell’attuale molteplici significati (Iori, 1996, pp. 41-43), derivanti tanto dalla chiesa e
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dalla sua tradizione, quanto più in generale dai territori della contemporaneità. Indagando la relazione esistente tra donne-oratorio-educazione informale, si è cercato così di comprendere quali messaggi, rispetto all’essere donna (o uomo), venissero promossi, offerti e vissuti (più o meno consapevolmente) all’interno del contesto- oratorio e che ricadute questi stessi abbiano avuto (e abbiano ancora) in termini di strutturazione di identità, comportamenti, scelte e abitudini. Ci si è interrogati sulle relazioni esistenti tra oratorio e territorio, tra oratorio e società; sul contributo o meno, dato dall’ambito oratoriano a una cultura maschilista, androcentrica, tutt’oggi comunque ancora presente, tanto in ambito ecclesiastico (Codrignani, 2013), quanto in quello sociale (Volpato, 2013), e influente sulla definizione delle strutture di potere diffuse (Connell, 2002) e inevitabilmente sulle biografie soggettive e collettive.
Questo secondo lavoro ha condotto poi a un’ulteriore possibilità riflessiva che, ora in corso di elaborazione, ruota attorno all’intreccio donne-migrazioni interne-educazione informale. Tentando di leggere le connessioni tra queste tre dimensioni, si sta provando a sviluppare un pensiero sulle alterazioni/reiterazioni di messaggi di genere tra donne di tre generazioni differenti (“nonne”, “mamme”, “figlie”), aventi origini del Sud Italia, nello specifico pugliesi, e abitanti a Milano o nel suo hinterland. Si vuole riflettere sul processo di appropriazione – non trasmissione lineare, ma inevitabilmente “modificata e rinnovata”(Anolli, 2006, p. 15) – di messaggi/modelli di femminilità, che traggono linfa vitale da una cultura che, seppur non vista come un qualcosa di monolitico e statico, appare comunque forte, caratterizzata da un sistema di credenze coerenti rafforzate da “stimoli facilitatori” esterni (istituzioni, discorsi, mass media, servizi, etc.) (Anolli, 2004, p. 146). A far nascere quest’ultimo interesse di ricerca è stata proprio l’osservazione del legame tra donne, tradizionalismo religioso e Sud Italia, emersa dalla riflessione sull’oratorio nelle sue connessioni con il territorio. Queste hanno sottolineato come gli oratori – soprattutto in quartieri periferici (nel caso specifico di Milano) definiti spesso come marginali (Forgacs, 2015) – debbano ancora fare i conti con “tradizioni meridionali”, strutturanti inevitabilmente un’educazione territoriale, portatrice di messaggi di femminilità e mascolinità. Educazione informale che porta con sé dunque norme di genere, più o meno derivanti dalla “cultura del Sud”, alle quali nel tempo sono andate ad aggiungersi nuove (o meno) norme, ruoli, funzioni, riservate a donne e uomini e traenti origine da abitudini altre, dei e delle migranti più attuali. Proprio la dimensione educativa territoriale (anche rispetto alle questioni di genere) diviene così composita in questi luoghi, in cui, non solo gli oratori, ma anche i servizi educativi, le educatrici e gli educatori per professione, a causa della connotazione assunta da tali contesti, si trovano spesso a operare. Esse ed essi devono così essere messi nelle condizioni di poter leggere l’educazione diffusa nelle sue molteplici sfaccettature e, prendendo posizione in relazione ai messaggi di femminilità e mascolinità proposti, che interrogano inevitabilmente anche le loro biografie in quanto donne e uomini, strutturare occasioni educative intenzionalmente orientate (Leonelli, 2011).
Il tentativo è, dunque, qui quello di proporre un’analisi dell’educazione informale di genere e delle ricadute che questa ha nelle scelte di formazione, prima, e nella vita professionale delle educatrici, poi, partendo da un percorso personale (di vita e formazione) e sostenendo la necessità di indagare più a fondo la stessa educazione ricevuta; comprendendo la funzionalità, anche per il corso di laurea in Scienze dell’Educazione, di esplorare alcune possibili linee che concorrono a definire le diverse storie di formazione delle donne, e quindi delle stesse studentesse. In questo contributo
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si tenterà così di sostenere un pensiero tanto sulle didattiche informali promosse dal mondo del sociale e dai territori vissuti quotidianamente, che conducono le donne alla scelta dell’educare per professione, quanto dallo stesso mondo dell’educazione, che, con la presenza non problematizzata e quasi esclusiva di donne, rischia di rafforzare l’idea, ancora diffusa nei territori della contemporaneità, di un’educazione naturalmente femminile e di chiamare a sé, nuovamente, in misura maggiore, le giovani. Lo squilibrio di genere presente nel corso di laurea in questione, e poi di conseguenza nel mondo dell’educazione professionale, fa correre il rischio di rafforzare, seppur non con intenzionalità, un ulteriore squilibrio: le condotte connesse alla cura, all’educazione, ma anche al servizio, vengono viste non come socialmente costruite (e socialmente necessarie), ma piuttosto ancora come naturalmente ascrivibili alle donne. Esse – nel caso svolgano la professione di educatrici – vengono così difficilmente riconosciute in quanto professioniste e come portatrici di competenze acquisite, ma più semplicemente come rispondenti alla loro “natura femminile”, non necessitanti di eccessivi compensi e riconoscimenti pubblici. Davanti a questo gioco di specchi e rimandi disconfermanti la professionalità educativa e la competenza acquisita dalle donne, operatrici del sociale – da qui il titolo “Il disagio dell’educatrice” –, sembra importante non prescindere dall’analisi di apprendimenti informali (esterni o interni al mondo dell’educazione) che ancora vincolano le donne nell’essere ascoltate come vere interlocutrici (alla pari), promotrici di cultura e pensiero, non solo di cura e di saperi legati al fare. Saperi questi ultimi dai quali comunque è necessario partire, riconoscendoli e sostenendone l’elaborazione consapevole, capace di promuovere nuovi saperi e competenze, non solo femminili ma professionali, spendibili a livello sociale, intenzionale e collettivo.