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I casi giudiziari sulla schiavitù dei primi anni del XXI secolo

4. La distinzione tra tratta e schiavitù: nuovi spunti per un antico dibattito

4.1. I casi giudiziari sulla schiavitù dei primi anni del XXI secolo

Emblematici sono, all’interno di questo dibattito, i primi due casi giudiziari del nuovo millennio (Kunarac e Siliadin), uno discusso di fronte al Tribunale Penale

207 Ivi, p. 147.

208 VAN DER WILT H., Trafficking in Human Beings, Enslavement, Crimes Against Humanity:

Unravelling the Concepts, cit., pp. 303-304.

209 Anne Gallagher ha partecipato ai lavori preparatori della Convenzione sul crimine transnazionale

organizzato e dei suoi Protocolli durante il periodo 1998-2000 come rappresentante dell’Alto Commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite e come leader del gruppo di agenzie interne delle Nazioni Unite include UNHCR, UNICEF e IOM.

210 GALLAGHER A., The international legal definition of “trafficking in persons”: scope and

application, in KOTISWARAN P. (a cura di), Revisiting the law and governance of trafficking, forced labor and modern slavery, cit., p. 87.

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Internazionale per la Ex-Iugoslavia211 e l’altro di fronte alla Corte europea dei diritti

umani212. L’interesse per l’esame di queste decisioni risiede sostanzialmente nel fatto

che le due Corti, interpretando la definizione di schiavitù della Convenzione del 1926, giungono, nell’arco di pochi anni a distanza di una dell’altra, a risultati diametralmente opposti.

Nel caso Prosecutor v. Kunarac di fronte al Tribunale Penale Internazionale per la Ex-Iugoslavia l’accusa era di riduzione in schiavitù come crimine contro l’umanità. Si tratta della prima decisione giudiziaria sulla schiavitù emessa in epoca contemporanea: essa si riferisce agli episodi di sistematica detenzione e stupro di donne da parte delle forze dell’ordine serbe nella città di Foca (Bosnia-Erzegovina) nel 1992.

Come si è visto nel precedente capitolo, l’ampiezza della definizione di schiavitù costituisce la premessa logica sottostante la valutazione giuridica compiuta dal Tribunale per la Ex-Iugoslavia.

In effetti, quest’ultimo si trovò, per la prima volta, da quando aveva iniziato a svolgere la propria funzione, a dover giudicare imputati accusati di riduzione in schiavitù, reato che, a norma dell’art. 5, lett. c), dello Statuto, è incluso tra i crimini contro l’umanità oggetto della giurisdizione del Tribunale. Tuttavia, non contenendo tale articolo una sua propria definizione che qualificasse la fattispecie da esso perseguita, e non rinviando ad alcuno strumento convenzionale pertinente, il Tribunale dovette accertare il contenuto della norma di diritto internazionale consuetudinario che proibisce la schiavitù213. Nel procedere a tale operazione, che implica il compito di individuare un principio giuridico non scritto, può assumere un ruolo fondamentale partire dalla norma scritta fornita da uno strumento convenzionale caratterizzato da un alto numero di ratifiche o adesioni214.

Per verificare se gli imputati avessero potuto essere effettivamente condannati per riduzione in schiavitù, i giudici furono, infatti, costretti ad accertare se il contenuto della fattispecie definita dall’art. 1 della Convenzione del 1926 coincidesse o meno con la corrispondente norma di diritto internazionale consuetudinario.

211 International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, Kunarac et als., Case No. IT-96-23 T

and IT-96-23/1, Judgment of Trial Chamber II, 22 february 2001.

212 Corte europea dei diritti dell’uomo, Siliadin c. Francia, cit.

213 International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, Kunarac et als.,cit., par. 515.

214 LENZERINI F., La definizione internazionale di schiavitù secondo il Tribunale per la Ex-

Iugoslavia: un caso di osmosi tra consuetudine e norme convenzionali, in Rivista di diritto internazionale, 2001, 4, pp. 1026 ss.

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Tale coincidenza venne confermata dalla sentenza del Tribunale mediante l’esame della prassi internazionale in materia di schiavitù a partire dall’adozione della Convenzione del 1926.

Un argomento particolarmente rilevante utilizzato dai giudici riguardò il fatto che la Convenzione supplementare del 1956 ribadisce la definizione di schiavitù con formulazione identica a quella del 1926, dimostrando come già all’epoca si fosse cristallizzato, in senso alla comunità internazionale, un consenso generale sulla corrispondenza di tale definizione all’effettiva connotazione sostanziale della schiavitù.

Ulteriore dimostrazione in tal senso si evinse dalle statuizioni del Tribunale militare di Norimberga, il quale, in mancanza di un’autonoma definizione di schiavitù nell’art. 6, lett. c), dello Statuto, ritenne che il concetto di schiavitù applicabile ai sottoposti alla giurisdizione del Tribunale di Norimberga fosse proprio quello della norma di diritto internazionale.

Alla luce di tali constatazioni, e della prassi ormai ampiamente consolidatasi, il Tribunale per la Ex-Iugoslavia affermò la coincidenza tra la definizione di schiavitù enunciata dalle convenzioni pertinenti e quella che costituisce il nucleo della norma di diritto internazionale consuetudinario relativa al medesimo fenomeno. In altre parole, secondo i giudici, la definizione del 1926 è divenuta norma di diritto internazionale consuetudinario.

La sentenza precisò, inoltre, che anche il lavoro forzato – quando non rispetti i limiti legali per potersi dire lecito – potesse rientrare nella definizione di schiavitù, a patto, però, che le modalità di costrizione fossero tali da integrare gli elementi costitutivi della stessa definizione, all’interno della quale sono inclusi gli elementi della schiavitù e della proprietà, nonché della restrizione, del controllo dell’autonomia individuale, della libertà di scelta o della libertà di movimento215. Quest’ultimi, in particolare, costituiscono degli indicatori importanti per individuare la sussistenza di una situazione di schiavitù.

La sentenza emessa in primo grado venne confermata in appello216. Qui il Tribunale sembrò operare una distinzione tra la schiavitù di diritto (de jure), a cui si riferiva con

215 International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, Kunarac et als.,cit., parr. 542-543: «the

‘control of someone’s movement, control of physical environment, psychological control, measures taken to prevent or deter escape».

216 International Criminal Tribunal for the former Yugoslavia, Kunarac et als., Case No. IT-96-23 T

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l’espressione chattel slavery e la schiavitù di fatto (de facto), rispetto alla quale preferì parlare di forme contemporanee di schiavitù, in cui

«the victim is not subject to the exercise of the more extreme rights of ownership

associated with chattel slavery but in all cases as a result of the exercise of any or all of the powers attaching to the right of ownership, there is some destruction of the juridicial personality; the destruction is greater in the case of chattel slavery but the difference is one of degree»217.

Tale operazione stabilì una sorta di gerarchia tra le forme di schiavitù, distinguendole secondo il grado di distruzione della personalità giuridica che esse comportano, essendo maggiore nei casi di schiavitù tradizionale (chattel slavery) e minore nei casi più attuali.

Con riferimento agli indici della schiavitù, la sentenza di appello integrò quella di primo grado, precisando che la lista da quest’ultima stilata non potesse considerarsi esaustiva, includendo, oltre a

«the control of someone’s movement, control of physical environment, psychological

control, measures taken to prevent or deter escape», anche «force, threat of force or coercion, duration, assertion of exclusivity, subjection to cruel treatment and abuse, control of sexuality and forced labour».

Il Tribunale così facendo elaborò alcuni indici della condione di schiavitù che verranno successivamente utilizzati da altre Corti (Special Court for Sierra Leone, Community Court of the Economic Community of West Africa State e Corte europea dei diritti dell’uomo)218.

Qualche anno più tardi, sulla stessa linea tracciata del Tribunale penale internazionale della Ex-Iugoslavia la Suprema Corte australiana rese un’altra rilevante decisione sul tema, nel caso Queen c. Tang219. I giudici australiani, distinguendo i concetti di status e condizione menzionati dalla definizione di schiavitù contenuta nella Convenzione del 1926, affermarono che lo status è un concetto legale, mentre la condizione implica

217 Ivi, par. 117; Cfr. ALLAIN J., Slavery in International Law of Human Exploitation and Trafficking,

cit., p. 269.

218 Si veda, in proposito: ALLAIN J., Slavery in International Law of Human Exploitation and

Trafficking, cit., pp. 119-120.

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un chiaro riferimento anche alle ipotesi di schiavitù di fatto, e non solo quelle di diritto. Tale tesi – secondo cui la definizione di schiavitù del 1926 comprenderebbe anche le ipotesi di schiavitù de facto – sarebbe, inoltre, rafforzata dalla considerazione per cui, già nel 1926 in molti Stati facenti parte della Convenzione, lo stato legale della schiavitù non esisteva più220.

La Suprema Corte australiana si interrogò, inoltre, su cosa si dovesse intendere per «powers attaching to the right of ownership», richiamando, a differenza del caso Kunarac, il Memorandum del 1953 del Segretario Generale delle Nazioni Unite, già citato nel precedente capitolo. In particolare, gli elementi valorizzati dalla Corte australiana per affermare la sussistenza della schiavitù furono: il fatto che i denuncianti erano stati oggetto di acquisto; che, per la durata dei contratti, i proprietari avevano la capacità di utilizzare i denuncianti e la manodopera dei denuncianti in maniera sostanzialmente illimitata; e che i proprietari avevano diritto ai frutti del lavoro dei denuncianti senza un compenso adeguato.

Secondo Jean Allain, la Suprema Corte australiana ha fornito l’esame più approfondito e convincente della nozione di schiavitù all’interno del diritto internazionale, in quanto, prendendo le distanze dal Tribunale iugoslavo, statuì che:

«[p]owers of control, in the context of an issue of slavery, are powers of the kind

and degree that would attach to a right of ownership if such a right were legally possible, not powers of a kind that are no more than an incident of harsh employment, either generally or at a particular time or place»221.

Nell’ambito del Consiglio d’Europa, mentre i rappresentanti degli Stati erano impegnati nella stesura della Convenzione sulla lotta contro la tratta di esseri umani, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rese la sua prima decisione applicando l’art. 4 della CEDU ad un caso che, secondo alcuni, sarebbe potuto rientrare nella definizione di tratta di cui all’art. 4 della Convenzione di Varsavia, ma che i giudici di Strasburgo ritennero, all’epoca, di analizzate unicamente sotto i profili della schiavitù, della servitù e del lavoro forzato222.

220 Cfr. ALLAIN J., The Queen v. Tang: Clarifying the Definition of ‘Slavery’ in International Law, in

Melbourne Journal of International Law, 2009, 10, pp. 246-257, reperibile sul sito:

https://www.researchgate.net/publication/286456369_The_Queen_v_Tang_Clarifying_the_Definitio n_of_'Slavery'_in_International_Law.

221 High Court of Australia, Queen v. Tang, cit., p. 16. 222 Corte europea dei diritti dell’uomo, Siliadin c. Francia, cit.

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Occorre premettere che, nonostante sia assente nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) uno specifico divieto concernente la tratta di esseri umani, ciò non ha impedito alla Corte di ricavare, in via interpretativa, un divieto in tale senso nell’art. 4 della CEDU.

Il primo caso di applicazione dell’art. 4 ad un’ipotesi di lavoro forzato originò da una vicenda riguardante una giovane ragazza di origine togolese affidata dai genitori all’età di quindici anni ad una conoscente perché fosse condotta in Francia con l’accordo che la giovane avrebbe ricevuto un’istruzione e, con i suoi propri servizi domestici, avrebbe restituito il denaro anticipato dalla sua accompagnatrice per l’acquisto del biglietto aereo e la regolarizzazione della sua posizione di migrante. Una volta in Francia, tuttavia, la ragazza venne privata dei documenti e costretta a lavorare come domestica senza retribuzione, dapprima nella casa della propria accompagnatrice e poi presso un’altra famiglia. La giovane togolese lavorò oer oltre quattro anni, quattordici ore al giorno e sette giorni a settimana, in condizioni di clandestinità. Il procedimento penale, avviato in seguito alla denuncia della ragazza, si concluse, tuttavia, con un’assoluzione in quanto la legge penale francese non contemplava il reato di riduzione in schiavitù, servitù o lavoro forzato. Ciò indusse la giovane a fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo lamentando la violazione dell’art. 4, in combinato disposto con l’art. 1 della CEDU.

Nell’affrontare il caso di specie, la Corte precisò, innanzitutto, che l’art. 4 consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche e che il divieto di cui al paragrafo n. 1 secondo cui «nessuno può essere tenuto in condizioni di schiavitù o di servitù» non è ritenuto suscettibile di deroga.

In questa sentenza, la Corte tentò di tracciare una distinzione tra le tre situazioni rilevanti ai sensi dell’art. 4 alla luce del panorama normativo internazionale.

La Corte rinvenne la nozione di schivitù, come era prevedibile, dalla Convenzione del 1926.

In ordine al lavoro forzato o obbligatorio, la Corte specificò che lo stesso evocava l’idea di un costringimento fisico o morale, cioè di un lavoro che si esige sotto la minaccia di una pena qualsiasi e contraria alla volontà dell’interessato, per il quale non si è offerto volontariamente. Anche qui, i giudici di Strasburgo dovettero rifarsi al panorama normativo internazionale, prendendo ‘in prestito’ la definizione contenuta nella Convenzione ILO sul lavoro forzato del 1930 secondo cui, come si è visto, il «termine lavoro forzato o obbligatorio indica ogni lavoro o servizio estorto

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a una persona sotto minaccia di una punizione o per il quale detta persona non si sia offerta spontaneamente»

Maggiori problemi pose, invece, la servitù, in ordine alla quale, come si è visto, non esisteva all’epoca (e non esiste nemmeno oggi) un’univoca definizione a livello internazionale, ma solo specificazioni concrete di tale concetto (ad esempio nella Convenzione Supplementare del 1956). In assenza di riferimenti precisi – e sta proprio qui la portata innnovativa della pronuncia – la Corte tentò di elaborare lei stessa una definizione di servitù, affermando che la stessa implicherebbe l’obbligo di fornire ad altri certi servizi, l’obbligo di vivere sulla proprietà altrui e l’impossibilità di cambiare la propria condizione223. Tale statuizione rimase, tuttavia, priva ulteriori precisazioni. In questo caso, infatti, la Corte si limitò a stabilire, in maniera pressoché lapidaria, che la situazione in cui era venuta a trovarsi la ricorrente si inquadrava nel lavoro forzato e nella servitù, ma non nella schiavitù.

La motivazione della Corte sembra, però, formulata in termini negativi, nel senso che si concentra più sulle ragioni che indussero i giudici ad eslcudere la sussistenza della schiavitù, e meno sulle motivazioni per cui il caso di specie fu fatto rientrare nella servitù o nel lavoro forzato. La Corte affermò, infatti, che la situazione della giovane donna non era assimilabile alla schiavitù in senso proprio perché la coppia di coniugi presso cui viveva e lavorava non aveva esercitato su di lei un vero e proprio diritto di proprietà. I giudici interpretarono la definizione di schiavitù contenuta nella Convenzione del 1926 come unicamente legata alla schiavitù di diritto (chattel slavery), richiedendo, ai fini della sua configurabilità, un «genuine right of legale ownership».

In conclusione, la Corte, in applicazione dell’art. 4 della CEDU, condannò la Francia per non aver previsto all’interno del proprio ordinamento penale la servitù e il lavoro forzato.

Come si è accennato, sebbene il caso concreto posto all’attenzione della Corte configurasse una chiara ipotesi di tratta – perpetrata attraverso il mezzo dell’inganno

223 Ivi, par. 123: «With regard to the concept of “servitude”, what is prohibited is a “particularly

serious form of denial of freedom” (see Van Droogenbroeck v. Belgium, Commission's report of 9 July 1980, Series B no. 44, p. 30, §§ 78-80). It includes, “in addition to the obligation to perform certain services for others ... the obligation for the 'serf' to live on another person's property and the impossibility of altering his condition”. In this connection, in examining a complaint under this paragraph of Article 4, the Commission paid particular attention to the Abolition of Slavery Convention (see also Van Droogenbroeck v. Belgium, no. 7906/77, Commission decision of 5 July 1979, DR 17, p. 59)». Cfr. altresì: Van Droogenbroeck v. Belgium, Commission’s Report of 9 July

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– a fini di servitù domestica, la fattispecie non fu analizzata sotto tale profilo. In altre parole, nonostante fossero presenti – nel caso della ragazza di origini togolesi – tutti gli elementi della tratta di esseri umani, come definita dal Protocollo di Palermo e dalla stessa Convenzione di Varsavia, i giudici di Strasburgo preferirono lasciare sullo sfondo il problema del trafficking, non espressamente menzionato dall’art. 4 della CEDU.