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Il rogo della Teresa Moda e l’applicazione dell’art 12 T.U.I per lo

4. Il caso Prato

4.2. Il rogo della Teresa Moda e l’applicazione dell’art 12 T.U.I per lo

È il primo dicembre del 2013 quando alle prime luci dell’alba, a Prato, in Via Toscana, si verifica un incendio nel capannone industriale dell’azienda «Teresa Moda di LI Jianli», situato nella zona del c.d. Macrolotto, uno dei tanti dove si svolge attività di confezione nel settore dell’abbigliamento.

All’arrivo delle forze di polizia, la scena rivela un quadro ben noto alle autorità, quello che non ci si aspettava era il rinvenimento dei cadaveri di sette cittadini cinesi, irriconoscibili per effetto dell’avanzato stato di carbonizzazione in cui versavano. Le gravi e numerose violazioni della normativa antincendio, rappresentate dalla mancanza di vie d’uscita tali da garantire un abbandono dell’immobile in sicurezza, anche in considerazione del fatto che il percorso risultava ostacolato dalla presenza di materiale tessile, aveva reso pressoché impossibile per gli operai mettersi in salvo.

448 Forme di sfruttamento lavorativo a Prato, cit.

449 Le informazioni sono state tratte dai colloqui con numerosi operatori di uno dei CAS gestiti dalla

Fondazione Opera Santa Rita nella città di Prato, che hanno raccontato come molti loro ospiti lavorino per aziende cinesi in condizioni di pseudo-sfruttamento.

450 Si veda le recenti proteste dei lavoratori pachistani costretti a lavorare per un’azienda cinese a

Montemurlo per 2,50 euro al giorno, 7 giorni su 7:

http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2018/11/17/news/lavorano-nell-azienda-cinese-per-una-paga- di-2-50-euro-l-ora-1.17472760?refresh_ce.

451 Si rinvia al Tirreno di Prato che ha riportato la notizia: http://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2016/05/19/news/le-aziende-cinesi-pagano-in-base-alla- nazionalita-1.13497211.

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Le indagini452 hanno permesso di accertare che, al pari di quanto accadeva in molti

altri capannoni dediti all’attività di confezionamento di materiali tessili nella zona di Prato, l’edificio in cui è divampato l’incendio veniva utilizzato sia per l’attività lavorativa sia per uso civile, grazie ad una serie di dormitori, di modestissime dimensioni, in pessime condizioni igieniche, realizzati con strutture in legno e suddivisi tra loro con pannelli di cartongesso. Era presente, altresì, un ambiente adibito a cucina e consumazione pasti.

Per ciò che qui interessa, tra le varie contestazioni formulate dal PM453, risulta meritevole di approfondimento quello di cui al capo b), «del delitto di cui agli artt. 110 c.p. e 12 d.lgs. 25 luglio 1998», in particolare nell’ipotesi contemplata dal comma 5.

Come rilevato dalla sentenza ex art. 438 ss. c.p., pronunciata all’esisto del giudizio immediato richiesto dal PM e depositata in data 22.5.2015 (Dott.ssa Silvia Isidori), le indagini hanno accertato come tutti gli operai della ditta Teresa moda – clandestini e non – lavorassero in condizioni di sfruttamento.

È emerso con chiarezza, e purtroppo senza stupore, visto che la situazione di sfruttamento dei cittadini cinesi era ben nota da molti anni, che l’attività lavorativa si protraesse ininterrottamente per almeno tredici ore al giorno, anche in orario notturno e capitava che non fosse previsto alcun tipo di riposo settimanale. L’incessante orario era favorito, tra l’altro, dal fatto che anche tutti gli operai mangiavano e dormivano presso il capannone. Come la memoria del PM osserva, infatti, la continuità dell’attività lavorativa era proprio consentita dall’uso quotidiano e promiscuo degli ambienti lavorativi per svolgere tutte le altre attività.

La sentenza precisa, inoltre, «sotto il profilo retributivo, certamente, la remunerazione non era proporzionata all’impegno lavorativo ed erano applicate forme di pagamento a cottimo» con oscillazioni dai 700 ai 2.300 euro al mese, ma con sensibili variazione a seconda delle esigenze della produzione.

La perdurante presenza nei luoghi del capannone ha consentito agli imputati di poter

452 La ricostruzione delle indagini e dello svolgimento del processo è stata possibile grazie al prezioso

contributo del materiale di indagine e del processo, gentilmente offerto dalla Procura della Repubblica di Prato, nella persona del Procuratore Capo di Prato, Dott. Nicolosi, e dal Sostituto Procuratore incaricato delle indagini, Dott. Lorenzo Gestri.

453 Le contestazioni del PM riguardavano il delitto di cui agli artt. 110, 437, comma 1 e 2, c.p., il delitto

di cui agli artt. 110 c.p. e 12 d.lgs. 286/1998, il delitto di cui agli artt. 61 n.3), 41, 110, 449, comma 1, in relazione all’art. 423 c.p. il delitto di cui agli artt. 41, 110, 589, comma 1, 2, 4, 590 comma 1, 3 c.p.

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«fare leva sulla contingente condizione personale degli operai, ossia sullo stato di

clandestinità, consapevoli che esso avrebbe loro impedito di trovare autonomamente un luogo ove dimorare».

Venendo all’analisi, in diritto, dell’art. 12 T.U.I. offerta dalla sentenza, si rammenta che il favoreggiamento della permanenza irregolare si configura come reato a condotta libera per la cui consumazione non è richiesta la verificazione dell’evento dato dalla permanenza effettiva dello straniero sul territorio. Sotto il profilo dell’elemento psicologico, il fine dell’ingiusto profitto non può essere individuato nel mero impiego dello straniero come mano d’opera senza il rispetto delle norme sul lavoro subordinato, occorrendo la sussistenza, come si è visto, di un quid pluris che distingua tale fattispecie da quella di cui all’art. 22 T.U.I. La sentenza richiama la giurisprudenza della Cassazione orientata nel senso di riconoscere che tale specifica finalità perseguita dal datore di lavoro (ingiusto profitto) può ritenersi sussistente in presenza di determinate condizioni, ovvero ogniqualvolta ai cittadini extra-comunitari siano imposte condizione gravose e discriminatore, diverse e ulteriori rispetto al mancato pagamento dei contributi, come qualora siano impiegati in condizioni disumane, tali da poter essere accettate solo per la mancanza di ogni forza contrattuale454.

Nel caso di specie, ritiene il giudice che appare con tutta evidenza come i dipendenti della Teresa Moda svolgessero la propria attività lavorativa in condizioni di sfruttamento e, dunque,

«nella assoluta violazione delle prerogative loro riconosciute dall’ordinamento, in

termini retributivi, di orario di lavoro, di diritto al godimento del periodo di riposo, previdenziale assicurativo, senza ovviamente, richiamare nuovamente la normativa antinfortunistica e, dunque, in ambienti di lavoro (e residenziali) assolutamente inadeguati a consentire condizioni sicure».

Nelle argomentazioni della sentenza, così come nella stessa contestazione del PM, l’ingiusto profitto è rappresentato dalle condizioni di particolare sfruttamento lavorativo in cui vengono a trovarsi le vittime. Si afferma, nella sentenza come la condotta fosse mossa dal fine dei datori di lavoro di trarre un vantaggio economico

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che non avrebbero conseguito se fosse stata applicata la normativa cogente che disciplina il rapporto di lavoro.

Tale impostazione è stata confermata anche nei gradi successivi e, in particolare, nella sentenza della Corte di Cassazione che, in coerenza con il proprio consolidato orientamento, ha ritenuto corretta la sussunzione della fattispecie concreta nell’art. 12, comma 5, D.lgs. 286/1998 così motivando:

«L’approfittamento delle condizioni di clandestinità di almeno una parte dei

dipendenti della ditta, in base al quale venivano imposte condizioni di lavoro ed economiche comunque ben al disotto del normale sinallagma, integra in effetti il dolo specifico del fine di trarre un ingiusto profitto dallo stato di illegalità dei cittadini stranieri, situazione questa che si realizza quando l’agente, approfittando di tale stato, imponga condizioni particolarmente onerose; e non è escluso dal fatto che analoghe condizioni sarebbero state praticate anche nei confronti di dipendenti in regola con il permesso di soggiorno (…) Il fatto che venissero oggettivamente sfruttati anche gli operai regolari sul territorio (…) significa unicamente che vi era identico, disumano trattamento tra tutti i lavoratori operanti nel capannone e che, tra le ragioni che concorrevano a consentire alle imputate di praticare condizioni retributive e contrattuali estremamente onerose, e che inducevano i lavoratori ad accettare tali condizioni»455.

La conclusione della vicenda giudiziaria legata al caso Teresa Moda suscita non pochi interrogativi.

Merita partire da un dato che ci appare palese: l’art. 12, comma 5, T.U.I. non è un reato posto a tutela della dignità dei lavoratori.

Come rilevato già all’epoca della riforma del 2002, sebbene nella fattispecie di cui al quinto comma rientrino solo le attività propriamente finalizzate allo «sfruttamento» (che si desume, come si è visto, sia dal dolo specifico dell’ingiusto profitto che dal riferimento alle «attività punite» dall’art. 12 T.U.I.), ciò non determina uno slittamento del bene giuridico dell’art. 12 T.U.I., volto essenzialmente a tutelare l’ordine pubblico: secondo tale opinione, l’interesse alla protezione dello straniero da condotte finalizzate al suo sfruttamento non sembra, infatti, assurgere a rango di bene giuridico protetto456.

455 Cass. pen., sentenza 6.2.2018, n. 12643.

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Rileva a questo proposito l’assenza nell’art. 12 T.U.I. di strumenti di protezione dello straniero dai fenomeni di sfruttamento e traffico di migranti457. Fatta eccezione per il

permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale di cui all’art. 18 T.U.I., nonché del permesso per motivi di giustizia di cui all’art. 11, comma 1, lett. c-bis), D.P.R. n. 394/1999, il destino del migrante è di regola quello dell’espulsione. Non solo, l’estraneità della protezione del lavoratore dalla sfera dell’oggettività giuridica dell’art. 12 T.U.I. appare confermata anche dalla scelta del legislatore di punire solo le condotte favoreggiatrici della permanenza degli stranieri irregolarmente presenti sul territorio, sebbene tali condotte siano spesso frequenti anche con riferimento agli stranieri regolari.

Quest’ultimo dato appare senz’altro decisivo per affermare che il bene giuridico della fattispecie incriminatrice risiede nell’interesse pubblico al contrasto dell’immigrazione irregolare.

Una simile interpretazione consentirebbe, peraltro, di individuare in termini unitari l’interesse tutelato dalle diverse fattispecie incriminatrici di cui all’art. 12 T.U.I., ossia l’ordine pubblico458, il ché appare in linea con l’approccio fortemente repressivo della

normativa sull’immigrazione. L’oggetto giuridico dei delitti di favoreggiamento delle migrazioni illegali può essere definito attraverso il riferimento al controllo dello Stato sull’immigrazione, ossia in termini che sembrano assecondare l’antica vocazione della difesa dell’ordine pubblico a tradursi nella protezione dei principi e delle istituzioni «alla cui continuità e immutabilità si vuole sia affidata la sopravvivenza della comunità organizzata»459.

Svolte queste necessarie premesse, occorre perciò chiedersi che ruolo possa assumere in questo contesto normativo lo sfruttamento lavorativo.

Come si è visto, nella fattispecie di cui all’art. 12, co. 5, T.U.I., nonché nella ricostruzione della vicenda concreta offerta dal PM, dal GIP e dalla stessa Suprema Corte, lo sfruttamento lavorativo acquista rilievo in quanto mezzo attraverso il quale trarre un ingiusto profitto.

457 Si rammenta che nel primo capitolo si è visto come il Protocollo sullo smuggling, pur non

prevedendo specifiche misure di assistenza e protezione per il migrante oggetto del traffico, impone agli Stati di tutelare adeguatamente i migranti contro le violenze che possono essere loro inflitte (art. 16, par. 2, Protocollo sullo smuggling).

458 Sulla nozione «proteiforme e inafferrabile» di ordine pubblico si veda: FIORE C., voce Ordine

pubblico (dir. pen.), in Enciclopedia del diritto, vol. XXX, Giuffrè, Milano, 1980, p. 1103.

459 Ivi, p. 1093. Cfr. per un’ampia ricostruzione del bene giuridico protetto dalle fattispecie di cui all’art.

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Lo sfruttamento viene, dunque, punito indirettamente, per la sua idoneità a stabilizzare una situazione di permanenza irregolare sul territorio e ciò, come si è visto nel caso di Prato, anche laddove non tutti i lavoratori impiegati siano irregolari. Ma la connotazione in termini negativi dello sfruttamento passa anche per l’indebito arricchimento che il datore di lavoro acquisisce per effetto del mancato rispetto della normativa sul lavoro. Da tale impostazione sembra trasparire una concezione ‘economica’ dello sfruttamento, nel senso che il risultato derivante dall’attività di sottoposizione del lavoratore a condizioni di sfruttamento si connota esclusivamente in termini di guadagno per il datore di lavoro.

Una simile impostazione tralascia totalmente di occuparsi delle conseguenze umane dello sfruttamento lavorativo, in termini di ripercussione sulle vite delle persone coivolte da quello sfruttamento e sul danno ad esse procurato.

Non si tratta di considerazioni di poco conto se si assume che lo sfruttamento lavorativo è un fenomeno dilagante, capace di abbassare – per tutti i lavoratori – gli standard minimi del lavoro dignitoso.

Ciò che rimane incompreso è perché si sia deciso di applicare l’art. 12, comma 5, T.U.I., invece, della disposizione di cui all’art. 22 T.U.I., già modificata per effetto dell’attuazione della direttiva 2009/52/CE e, più propriamente riguardante le ipotesi di particolare sfruttamento degli stranieri irregolari, oltretutto più gravemente sanzionate (art. 22, co. 12-bis, lett c), T.U.I.).