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La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento lavorativo nella

5. La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento lavorativo

5.3. La tratta di esseri umani a fini di sfruttamento lavorativo nella

Negli ultimi anni, sono state rese due importanti sentenze da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo sulla tratta di esseri umani che rappresentano alcuni passi avanti nella comprensione degli obblighi derivanti agli Stati parte del Consiglio d’Europa. Nel primo caso281, le ricorrenti sono tre cittadine delle Filippine, due delle quali furono reclutate da un’agenzia di Manila per lavorare come domestiche in una famiglia di Dubai, l’altra si recò invece a Dubai per lo stesso scopo sotto consiglio di una delle altre due ricorrenti senza la mediazione di un’agenzia di reclutamento. Le ricorrenti lamentano di aver subito dei maltrattamenti a Dubai, di essere state sfruttate senza ricevere il loro salario e di essere state costrette a lavorare per orari estremamente pesanti, sotto la minaccia di subire ulteriori sevizie. Nel 2010 le ricorrenti

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accompagnarono i loro datori di lavoro in Austria per un breve soggiorno, e in questa occasione riuscirono a scappare aiutate dalla comunità filippina di Vienna. Dopo qualche mese le ricorrenti decisero di rivolgersi alle autorità austriache per denunciare le condizioni in cui erano state costrette a vivere. Il procuratore, tuttavia, decise di archiviare l’indagine, in quanto le infrazioni denunciate erano state commesse all’estero da cittadini stranieri e non coinvolgevano gli interessi dell’Austria. Nonostante la domanda delle ricorrenti di riprendere l’azione penale, il Tribunale regionale di Vienna respinse la domanda ritenendo che lo stesso non avesse giurisdizione sui fatti di causa. Le ricorrenti decisero, pertanto, di adire la Corte europea sotto il profilo della violazione dell’art. 3 e dell’art. 4 della CEDU.

Analizzando il caso sotto il profilo dell’art. 4, la sentenza rinvia, innanzitutto, ai suoi precedenti e, in particolare, rammenta che tale disposizione consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Richiamando il caso Rantsev, la Corte riafferma, in particolare, che la tratta di esseri umani è spesso qualificata come una forma di schiavitù e che costituisce un attentato alla dignità umana, rilevando nel campo di applicazione di cui all’art. 4 della CEDU, senza che sia necessario determinare se essa debba essere qualificata come schiavitù, servitù o lavoro forzato. In ordine al rispetto degli obblighi positivi da parte dell’Austria concernenti l’identificazione delle ricorrenti come vittime di tratta e l’obbligo di fornire loro adeguata assistenza, la Corte ritiene che non ci sia stata alcuna violazione da parte dell’Austria. Le ricorrenti sono state, infatti, sentite da agenti di polizia specializzati, hanno ottenuto un permesso di soggiorno e di lavoro per regolarizzare il loro soggiorno in Austria nonché l’assistenza e la rappresentanza legale.

In ordine all’obbligo positivo di perseguire gli autori della tratta di esseri umani, la Corte ritiene – ugualmente – che non ci sia stata violazione, in quanto l’obbligo di condurre indagini attiene ai soli fatti che coinvolgono gli interessi austriaci e cessa quando il presunto reato di tratta sia stato commesso all’estero da soggetti che non sono suoi cittadini282. Il quadro normativo internazionale ed europeo, in effetti, non stabilisce una giurisdizione universale per la repressione dei reati di tratta.

Le ricorrenti hanno censurato – oltre alla violazione dell’art. 4 – anche quella dell’art. 3, ritenendo che i trattamenti di cui erano state vittime, vista la loro gravità, potevano rientrare nel divieto di cui alla suddetta norma.

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La Corte, ritenendo che tale lamentela sia connessa a quella precedentemente esaminata di cui all’art. 4, ritiene ricevibile il ricorso anche sotto il profilo dell’art. 3. I giudici, a questo proposito, affermano che il regime degli obblighi derivanti per lo Stato dal lato procedurale dell’art. 3 è molto simile a quello degli obblighi che gli incombono sul terreno dell’art. 4, che sono stati già esaminati. Per gli stessi motivi, in sostanza identici, la Corte conclude per la non violazione da parte dello Stato degli obblighi positivi derivanti dall’art. 3.

Sebbene la Corte non accolga il ricorso sotto il profilo dell’art. 3 della CEDU sembra, dunque, confermarne l’astratta applicabilità ad un caso di tratta di esseri umani, aprendo le porte alla possibile configurazione di detto fenomeno come trattamento disumano e degradante idoneo a ledere la dignità umana. A parere di chi scrive, l’art. 3 della CEDU sembrerebbe, infatti, meglio attagliarsi ai casi di tratta di esseri umani, il cui dato caratterizzante è lo sfruttamento, e ciò soprattutto laddove questo non raggiunga la gravità della schiavitù, della servitù o del lavoro forzato. Le ragioni sottese ad una simile conclusione si identificano essenzialmente nel diverso bene giuridico tutelato dall’art. 3 e dall’art. 4 della CEDU. Il bene giuridico protetto dell’art. 3 è quello della dignità umana, mentre quello posto a tutela dell’art. 4 è la libertà (intesa come status libertatis), essendo – quest’ultimo – espressamente incentrato sulla schiavitù, sulla servitù e sul lavoro forzato. Nonostante la Corte più volte tenda a richiamare il bene della dignità anche quando affronta le violazioni sotto il profilo dell’art. 4 della CEDU (come si è visto nel caso Rantsev), ciò non dovrebbe ingenerare confusioni, essendo senz’altro la dignità una componente della libertà degli individui.

Alla sentenza della Corte segue l’opinione concordante del giudice Pinto de Albuquerque (a cui si unisce anche il giudice Tsotsoria).

L’opinione concorda con le conclusioni cui è giunta la Corte, ma è in disaccordo con il ragionamento seguito per due ragioni: da un parte perché la Corte non si è dilungata sulla questione degli elementi costitutivi della tratta di essere umani e delle particolarità che la distinguono dalla schiavitù, servitù e lavoro forzato, dall’altra perché non ha correttamente analizzato gli obblighi gravanti sullo Stato resistente. Nel caso Rantsev la Corte ha rilevato che la tratta di esseri umani rientra nell’art. 4 della CEDU, senza tuttavia specificare se rientra nel campo di applicazione del paragrafo 1 (inderogabile) o del paragrafo 2 (derogabile). Allo stesso tempo, però, la Corte afferma che l’art. 4 non prevede delle restrizioni e in forza dell’art. 15 par. 2

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non soffre alcuna deroga, nemmeno in caso di pubblico pericolo che minaccia la vita della Nazione. Questa interpretazione, secondo Pinto de Albuquerque, comporta il rifiuto della Corte di stabilire una gerarchia, una differenza di regime tra le due disposizioni (parr. 1 e 2 dell’art. 4 della CEDU). Questo approccio si ispira (senza citarlo) all’interpretazione del CDH dell’ONU nella sua osservazione generale n. 29, alla luce della recente codifica dei crimini contro l’umanità effettuata con lo Statuto di Roma, dove figurano la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato e la tratta di esseri umani.

Particolarmente interessante nel mostrare lo stretto legame esistente tra la tratta di esseri umani e lo sfruttamento è la decisione della Corte di Strasburgo nel caso Chowdury ove la stessa è stata per la prima volta chiamata a pronunciarsi su un caso di sfruttamento lavorativo nel settore agricolo283.

La vicenda coinvolge quarantadue cittadini del Bangladesh impiegati nella raccolta di fragole in una fattoria di Manolada, una località del Peloponneso nota appunto per essere una delle capitali elleniche della produzione intensiva di fragole, per la raccolta delle quali vengono impiegati lavoratori stagionali. Nel caso di specie i ricorrenti erano stati reclutati ad Atene e, dopo aver lavorato per alcuni mesi senza ricevere il compenso pattuito, scatenarono una reazione violenta contro i datori di lavoro rivendicando il pagamento delle retribuzioni.

Come è stato efficacemente rilevato, in questo caso la Corte ha riconosciuto l’esistenza del lavoro forzato separatamente dalla servitù, instaurando una stretta interrelazione tra lavoro forzato e tratta di esseri umani284.

La Corte con il caso Chowdury si pone in continuità rispetto alla linea già tracciata in Rantsev, sostenendo che la tratta di esseri umani cade nell’ambito di applicazione dell’art. 4 della CEDU, nonostante non sia da esso espressamente menzionata. Si tratta di un’estensione giurisprudenziale che, come si è già visto, è stata motivata alla luce di un’interpretazione evolutiva della Convenzione.

La sentenza, analizzando la situazione in cui erano venuti a trovarsi i lavoratori bengalesi, rileva, innanzitutto, che questa non poteva essere qualificata come servitù, in quanto l’elemento caratterizzante quest’ultimo concetto, rispetto al lavoro forzato

283 Corte europea dei diritti dell’uomo, Chowdury e altri c. Grecia, sentenza del 30 marzo 2017. 284 ASTA G., The Chowdury Case before the European Court of Human Rights: A Shy Landmark

Judgment on Forced Labour and Human Trafficking, in Studi sull’integrazione europea, 2018, 8, pp.

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o obbligatorio, consiste nel sentimento delle vittime che la loro condizione è immutabile e che la situazione non è suscettibile di evolvere. I ricorrenti non avrebbero potuto provare un simile sentimento poiché erano tutti lavoratori stagionali reclutati (esclusivamente) per la raccolta di fragole. Questa specificazione della Corte, sebbene finalizzata unicamente ad escluderne la sussistenza, contribuisce a dare contenuto all’incerta nozione di servitù. Come si è visto, già nel caso Siliadin, la Corte aveva tentato di fornire una definizione, che non brillava certo per chiarezza.

Qui, invece, i giudici di Strasburgo, per meglio evidenziare l’essenza della nozione di servitù, tracciano un confine con la fattispecie di lavoro forzato, facendo dipendere la sussistenza della servitù quasi da una percezione soggettiva, da una consapevolezza o meno della vittima di poter mutare la propria condizione.

Analizzando la fattispecie concreta sotto il profilo del lavoro forzato, la Corte richiama, come già in passato aveva fatto, la Convenzione ILO n. 29 del 1930, adottando nel caso di specie una nozione estensiva del consenso richiesto affinché non si abbia lavoro forzato, chiarendo che il consenso prestato dal lavoratore non è sufficiente ad escludere la qualifica di lavoro forzato e che, in ogni caso, ha valore relativo e deve essere valutato alla luce di tutte le circostanze del caso concreto285.

Nella sentenza Van der Mussele286, la Corte aveva precisato che lo svolgimento del

lavoro sotto minaccia di una pena non fosse comunque sufficiente a denotare una situazione di lavoro forzato, dovendosi altresì tenere conto della natura e del volume delle attività in questione, che devono essere tali da configurare un disproportionate burden per la vittima. Anche tale valutazione – dell’onere sproporzionato imposto alla vittima – doveva essere tale per cui non si potesse ragionevolmente esigere tale lavoro, alla luce dell’insieme delle circostanze del caso concreto. Applicando tale principio al caso Chowdury, la Corte ha riconosciuto che sussistessero le condizioni di lavoro estreme e, dunque, l’onere eccessivo imposto alle vittime, senza tuttavia chiarire con precisione in cosa consistesse tale «eccessività».

I fatti, secondo la Corte, dimostrano chiaramente che le condizioni lavorative dei ricorrenti costituissero sia tratta di esseri umani, rientrando nella definizione del Protocollo sul trafficking, che lavoro forzato. Nell’argomentazione della sentenza, la Corte utilizza spesseo le due fattispecie, anche in alternativa tra loro, tanto da

285 Corte europea dei diritti dell’uomo, Chowdury e altri c. Grecia, cit., par. 90.

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confonderne i confini287. Così facendo, i giudici di Strasburgo dimostrano che queste

forme di abuso possono verificarsi allo stesso tempo ovvero, in un medesimo contesto, l’una dopo l’altra. Questa intrinseca relazione, sebbene non costituisca una vera e propria sovrapposizione, non viene, tuttavia, adeguatamente sviluppata nella sentenza, che si limita ad affermare una loro possibile compresenza288. In alcuni passaggi della sua argomentazione, la Corte menziona unicamente la tratta di esseri umani e in altri anche lo sfruttamento lavorativo per se, senza distinguerlo dal lavoro forzato e dalla servitù289.

Secondo Vladislava Stoyanova, in tali passaggi argomentativi la Corte sembra ‘lottare’ con l’apparato concettuale dell’art. 4 della CEDU, ingenerando una confusione eccessiva nella distinzione delle differenti fattispecie considerate da tale norma, acuita ancor di più dall’avervi inserito anche la tratta di esseri umani290. Altri commentatori, hanno sottolineato che la Corte abbia nel tempo concepito il lavoro forzato in due modi differenti: da una parte come lavoro forzato in sé, cioè come offesa autonoma, altre volte come elemento costituivo della tratta di esseri umani291. Nel caso Chowdury, la Corte non ha, tuttavia, indicato in quale di queste situazioni rientrerebbe la vicenda: sebbene, infatti, qui i giudici sembrino intendere il lavoro forzato in questo ultimo senso292, ossia come fine della tratta, essi avrebbero dovuto

quanto meno verificare se fossero presenti gli altri elementi della tratta.

L’unico elemento valorizzato, in tal senso, è quello della vulnerabilità dei ricorrenti293.

Si tratta di una vulnerabilità legata, da una parte, al fatto che i lavoratori erano migranti

287 Cfr. in tal senso: CORCIONE E., Nuove forme di schiavitù al vaglio della Corte europea dei diritti

umani: lo sfruttamento dei braccianti nel caso Chowdury, in Diritti umani e diritto internazionale,

2017, 2, pp. 516-522.

288 STOYANOVA V., Irregular Migrants and the Prohibition of Slavery, Servitude, Forced Labour &

Human Trafficking under Article 4 of the ECHR, cit. e STOYANOVA V., Sweet Taste with Bitter Roots. Forced Labour and Chowdury and Others v. Greece, in European Human Rights Law Review,

2018, 1, p. 71.

289 Corte europea dei diritti dell’uomo, Chowdury e altri c. Grecia, cit., parr. 88-93.

290 STOYANOVA V., Irregular Migrants and the Prohibition of Slavery, Servitude, Forced Labour &

Human Trafficking under Article 4 of the ECHR, cit.

291 ASTA G., The Chowdury Case before the European Court of Human Rights: A Shy Landmark

Judgment on Forced Labour and Human Trafficking, cit., p. 198.

292 Cfr. altresì: STOYANOVA V., Sweet Taste with Bitter Roots. Forced Labour and Chowdury and

Others v. Greece, cit., pp. 71-72.

293 Si tratta di un aspetto che è considerato centrale anche dall’intervento dell’Anti-Slavery

International. Corte europea dei diritti dell’uomo, Chowdury e altri c. Grecia, cit., par. 83: «La tesi

principale dell’interveniente è la seguente: anche il riconoscimento e la classificazione delle nozioni contenute nell’articolo 4 della Convenzione si sono evoluti col tempo, la caratteristica comune di tutte le forme di sfruttamento descritte consiste nell’abuso della vulnerabilità. Per l’interveniente, questa nozione dovrebbe essere il punto di partenza dell’esame da parte della Corte della forma di sfruttamento in questione, ai sensi dell’articolo 4 della Convenzione» (trad. non ufficiale).

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irregolari senza risorse e, dall’altra parte, alle loro gravi condizioni di lavoro. Nonostante la sentenza faccia riferimento alla situazione di vulnerabilità dei migranti, non riconosce esplicitamente che i datori di lavoro si siano avvantaggiati di questa condizione per sfruttarli. La Corte, dunque, non valorizza la vulnerabilità per identificarvi il mezzo della tratta, né fa accenno alcuno all’azione concretamente esercitata per compiere il reato. La Corte di Strasburgo si limita, come nei precedenti casi, ad aggiungere la tratta, come definita nel Protocollo di Palermo e nella Convenzione di Varsavia, all’apparato concettuale dell’art. 4 della CEDU.

Nel caso di specie, la Corte sottolinea, poi, come la violazione dell’art. 4, par. 2, della CEDU derivi dal fatto che la Grecia sia venuta meno ai propri obblighi positivi risultanti da questa disposizione consistenti nel prevenire la situazione di tratta di esseri umani, nel proteggere le vittime e reprimere efficacemente le infrazioni commesse, sanzionando i responsabili della tratta.

La sentenza rileva, in merito alla prevenzione, che prima dell’incidente del 17 aprile 2013 la situazione relativa ai campi di fragole della Mandola era ben nota alle autorità, sia per la presenza di rapporti di organizzazioni che di articoli di stampa. Inoltre, le autorità di polizia del territorio erano state messe al corrente del rifiuto dei datori di lavoro di versare i salari ai lavoratori. Ciò si evince, in particolare, dalla testimonianza di uno dei poliziotti nel processo di fronte alla Corte di Assise che ha dichiarato che certi operai si erano presentati al commissariato per lamentarsi di questo rifiuto. Per affermare la violazione della Grecia in ordine alla mancata implementazione di misure operative a prevenire il fenomeno, la Corte utilizza una ‘versione’ meno impegnativa del c.d. Osman test rispetto a quella applicata nel caso Rantsev: la sentenza ritiene, infatti, sufficiente che le autorità nazionali sapessero o avrebbero dovuto sapere che quei lavoratori erano a rischio di sfruttamento o tratta294.

La Corte sottolinea, da una parte, come le indagini del Procuratore non siano state svolte in maniera completa, dall’altra, che non sia stata realmente esaminata la posizione di vittime di tratta dei lavoratori coinvolti, almeno per ciò che concerne i ricorrenti che non parteciparono al processo di fronte alla Corte d’Assise. Per quanto riguarda tale processo, la sentenza rileva come i giudici ellenici abbiano rigettato l’accusa di tratta di esseri umani considerando che gli operai non si trovavano nell’impossibilità assoluta di auto-proteggersi, e che la loro libertà di movimento non

294 ASTA G., The Chowdury Case before the European Court of Human Rights: A Shy Landmark

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era stata compromessa, in quanto questi erano liberi di lasciare il loro lavoro. In ordine a questa considerazione, la Corte censura la stretta interpretazione di tratta di esseri umani operata dalla sentenza, in quanto fondata su elementi propri della servitù e non della tratta. In effetti, una situazione di tratta può sussistere anche a dispetto della libertà di movimento della vittima. Tuttavia, l’affermazione viene utilizzata unicamente per condannare l’operato delle Corti nazionali, senza che a ciò sia seguito un coerente sforzo interpretativo e definitorio295.

La Corte ha censurato, inoltre, il rifiuto del Procuratore di ricorrere in Cassazione contro la sentenza e di non aver adeguatamente esaminato l’accusa di tratta di esseri umani.

Lo sviluppo della giurisprudenza della Corte di Strasburgo sotto il profilo dell’art. 4 rende sempre più evidente come le vicende di cui è chiamata ad occuparsi riguardino cittadini di Paesi terzi. Proprio gli abusi sui migranti sembrano, infatti, aver “ravvivato” la questione su come schiavitù, servitù e tratta debbano essere definiti nel contesto del diritto penale e dei diritti umani296.

La vulnerabilità dei migranti sui territori di destinazione è legata a doppio filo al fenomeno della tratta di esseri umani e, più in generale, a quello dello sfruttamento lavorativo, chiamando inevitabilmente in causa le politiche migratorie di questi Stati. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, ai sensi delle leggi penali nazionali, gli abusi contro i migranti sono principalmente concettualizzati con riferimento al processo di migrazione297.

6. L’adozione della Direttiva 2011/36/UE: innovazioni e raffronto con