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La repressione del traffico di esseri umani

3. Smuggling e trafficking nel T.U Immigrazione: una difficile convivenza

3.1. La repressione del traffico di esseri umani

Come si è detto, l’intreccio tra i concetti di smuggling e trafficking è evidente, in particolare, dal tenore dell’art. 12 T.U.I. e dalle modifiche che per molti anni hanno interessato questa norma.

Nella versione del 1998, l’art. 12 prevedeva, al comma terzo, un aumento di pena qualora il fatto fosse stato

«commesso al fine di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo

sfruttamento della prostituzione ovvero riguarda l'ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento».

Tale norma sembrava trovare il proprio riferimento nella Convenzione del 1949, la quale, sebbene rivolta a disciplinare la tratta di persone, si concentrava unicamente sulla prostituzione e sullo sfruttamento della prostituzione, facendo coincidere, sostanzialmente, la tratta con quest’ultime.

417 URBAN F., La legislazione penale italiana quale modello di attuazione della normativa

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La condotta di cui all’art. 12, primo comma, combinata a quella di cui al terzo comma, a ben vedere, prevede una fattispecie in cui all’ingresso sul territorio si lega il successivo sfruttamento, molto simile a quella di trafficking che di lì a poco sarà accolta nell’ambito della Convenzione ONU firmata a Palermo. Addirittura la norma italiana utilizza l’espressione «reclutamento», un termine che venne utilizzato per definire la condotta di tratta a livello internazionale nel Protocollo del 2000, ma non presente nella Convenzione del 1949418.

Nel 1998, anno di adozione del T.U.I., si introduce, all’interno di un quadro di norme volte a punire lo smuggling, la condotta di tratta a fini di sfruttamento sessuale (art. 12, co. 3, T.U.I.: «se il fatto è commesso al fine di reclutamento di persone da destinare alla prostituzione o allo sfruttamento della prostituzione…»). Tale fattispecie, nei suoi elementi costitutivi, ricalca una delle condotte che di lì a poco verranno inserite nella definizione del crimine di tratta di esseri umani di cui al Protocollo sul trafficking. Questa disposizione, a ben vedere, si distingue dalla condotta di tratta cristallizzata nel reato di cui all’art. 601 c.p. nella versione ante riforma del 2003, rivolta unicamente a punire la tratta degli schiavi («chiunque commette tratta o comunque fa commercio di schiavi o di persone in condizione analoga alla schiavitù…»).

Con la legge n. 189/2002 la disposizione, come si è visto, viene rimaneggiata ulteriormente in un comma 3-ter, dove si prevede un aumento di pena se i fatti di cui al comma 3 (caratterizzati dal fine di lucro)

«sono compiuti al fine di reclutare persone da destinare alla prostituzione o

comunque allo sfruttamento sessuale ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento».

Le modifiche della legge del 2002, successive alla Convenzione di Palermo del 2000, sembrano, tuttavia, creare una certa confusione quando innesta lo sfruttamento su una condotta di smuggling, contemplando allo stesso tempo le forme di sfruttamento riportate nel Protocollo sul trafficking (sfruttamento sessuale).

Con il “pacchetto sicurezza” del 2009, poi, il comma 3-ter è stato ulteriormente modificato prevedendo anche lo sfruttamento lavorativo e assottigliando

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definitivamente la differenza tra favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e trafficking attraverso una circostanza “cuscinetto”419, alla lett. a):

«se i fatti di cui ai commi 1 e 3: a) sono commessi al fine di reclutare persone da

destinare alla prostituzione o comunque allo sfruttamento sessuale o lavorativo ovvero riguardano l’ingresso di minori da impiegare in attività illecite al fine di favorirne lo sfruttamento».

Questa circostanza tende, ancora una volta, a riflettere quella sovrapposizione giuridica tra le diverse tipologie di traffico di migranti, intese sia come smuggling che come trafficking420.

Più precisamente, in Italia, vengono configurate delle fattispecie di smuggling che sono costruite mediante l’aggiunta della finalità dello sfruttamento. Ciò, tuttavia, non viene a creare una completa coincidenza con la condotta di trafficking di cui al Protocollo di Palermo, in quanto nell’art. 12 T.U.I. manca la specificazione della modalità della condotta (l’elemento del mezzo). La condotta di smuggling presupporrebbe, infatti, il consenso della persona oggetto del traffico, mentre nel trafficking il consenso della vittima è viziato e, dunque, estorto mediante l’utilizzo di uno dei mezzi indicati dall’art. 3 del Protocollo. La differenza con l’art. 601 c.p., in particolare nella versione della norma come modificata dalla legge n. 228/2003, che ha sostituito anche la rubrica dell’articolo421, sta dunque nella coartazione della volontà, presente nella fattispecie codicistica e assente nella normativa speciale.

419 PELISSERO M., Il controllo penale del traffico di migranti: il migrante come oggetto e come

vittima, in MILITELLO V. e SPENA A. (a cura di), Il traffico di migranti. Diritti, tutele, criminalizzazione, Giappichelli, Torino, 2015, p. 115.

420 Merita, comunque, evidenziare che anche nelle ipotesi aggravate, il bene giuridico protetto dal

delitto di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina rimanga, pur sempre, quello dell’interesse dello Stato al controllo dei flussi migratori. Tale conclusione è stata recentemente avvalorata da Cass. pen., sentenza 8.10.2015, n. 50561 secondo cui «la protezione dei migranti non costituisce l’oggetto

specifico e diretto della tutela penale, con riferimento alla ratio dell’incriminazione, ma costituisce piuttosto l’oggetto di una tutela rilevante ma riflessa».

421 Art. 601 (Tratta di persone): «Chiunque commette tratta di persona che si trova nelle condizioni di

cui all’articolo 600 ovvero, al fine di commettere i delitti di cui al primo comma del medesimo articolo, la induce mediante inganno o la costringe mediante violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante promessa o dazione di somme di denaro o di altri vantaggi alla persona che su di essa ha autorità, a fare ingresso o a soggiornare o a uscire dal territorio dello Stato o a trasferirsi al suo interno, è punito con la reclusione da otto a venti anni».

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3.2. …e dello sfruttamento lavorativo mediante l’art. 12, comma 5, T.U.I.

Occorre, a questo punto, rilevare che l’art. 12 T.U.I. è stato spesso utilizzato dalla giurisprudenza di merito e di legittimità per reprimere casi di sfruttamento lavorativo di stranieri irregolari. Ma ciò non è avvenuto utilizzando le fattispecie sinora analizzate, previste al comma 3-ter, ma attraverso la fattispecie di cui al comma 5, tesa a reprimente il favoreggiamento della permanenza irregolare sul territorio, e ciò anche laddove si potesse dimostrare la sussistenza di elementi di collegamento con il traffico di migranti, configurabile più propriamente nelle fattispecie di cui ai commi 1 e 3.

L’utilizzo dell’art. 12, comma 5, T.U.I., è stato essenziale nella repressione dello sfruttamento lavorativo degli immigrati irregolari prima della riforma operata nel 2009 e risulta(va) così formulato:

«Fuori dei casi previsti dai commi precedenti, e salvo che il fatto non costituisca più

grave reato, chiunque, al fine di trarre un ingiusto profitto dalla condizione di illegalità dello straniero o nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo, favorisce la permanenza di questi nel territorio dello Stato in violazione delle norme del presente testo unico, è punito con la reclusione fino a quattro anni e con la multa fino a lire trenta milioni».

Prima di allora, infatti, la giurisprudenza inquadrava, talvolta, tale fenomeno nella condotta di favoreggiamento dell’immigrazione illegale, quando l’agevolazione fosse stata caratterizzata dalla finalità di trarre profitto dalla condizione di illegalità: per esempio, l’assunzione in nero da parte del datore di lavoro di lavoratori omettendo il pagamento degli oneri contributivi e imponendo loro condizioni di lavoro discriminatorie e disumane422. Nell’ipotesi in cui non risultasse dimostrata la finalità del datore di lavoro di trarre profitto dalla condizione di illegalità si sarebbe configurato, invece, il reato di impiego di cittadini stranieri irregolari ex art. 22, comma 12, T.U.I.423

422 Cfr. PECCIOLI A., Il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina nella giurisprudenza e la

riforma del 2009, in Diritto penale e processo, 2009, 8 (all. 1), pp. 19 e ss.

423 Art. 22, co. 12, T.U.I.: «Il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri

privi del permesso di soggiorno previsto dal presente articolo, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato».

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L’operazione di ricondurre lo sfruttamento lavorativo degli stranieri irregolari alla fattispecie di favoreggiamento – al fine di ingiusto profitto – della permanenza illegale di cui al comma 5 dell’art. 12, successivamente, si è andata consolidando.

A tal proposito, appare interessante la ricostruzione della nozione di «ingiusto profitto» operata dalla giurisprudenza. Come verrà approfondito nel prosieguo, affrontando il caso di Prato, tale nozione acquista peculiarità del tutto inedite. Secondo la giurisprudenza di legittimità

«il fine di ingiusto profitto, che qualifica l’elemento soggettivo del reto, sussiste nel

caso di impiego di cittadini extracomunitari in condizioni disumane, tali da poter essere accettate solo per effetto della mancanza di ogni forza contrattuale»424.

Secondo tale giurisprudenza, infatti, il fatto del favoreggiamento della permanenza illegale ben può essere realizzato assumendo al lavoro stranieri irregolari, ma l’ingiustizia del profitto non potrà ricollegarsi ad un normale svolgimento del rapporto sinallagmatico di prestazione d’opera: occorrerà un quid pluris tale da connotarlo, come ad esempio l’impiego in attività illecite ovvero l’imposizione di condizioni gravose o discriminatorie di orario e di retribuzione425.

Il comma 5 dell’art. 12 T.U.I., in alternativa alla sussistenza del dolo specifico di ingiusto profitto, incrimina il favoreggiamento della permanenza illegale «nell’ambito delle attività punite a norma del presente articolo». Parte della dottrina, prima delle modifiche del 2009, aveva ritenuto che l’inciso dovesse essere riferito alle attività di sfruttamento della prostituzione o comunque sessuale e di sfruttamento di minori di cui all’art. 12, comma 3-ter, T.U.I. (formulazione ante 2009)426. Altri, invece, hanno

sostenuto che l’inciso si riferisse alle attività di favoreggiamento dell’ingresso contra ius finalizzate alla realizzazione di tali attività. Secondo quest’ultima opinione, pertanto, tale elemento potrà essere integrato qualora la condotta favoreggiatrice della permanenza si inserisca nelle attività di sfruttamento della prostituzione, di sfruttamento sessuale e di impiego di minori in attività illecite funzionali al loro sfruttamento di uno straniero il cui ingresso sia stato illecitamente427. Sempre, tuttavia,

424 Cass. pen., sentenza 9.12.2009, n. 48826.

425 Cass. pen., sentenza 28.6.2000-25.10.2000, n. 4700, in Giurisprudenza Italiana, 2001, 2, p. 1006;

Cfr. altresì: Cass. pen., sentenza 8.3.2001-20.4.2001, n. 16064, rv. 219508.

426 BAIMA BOLLONE L., Disposizioni contro le immigrazioni clandestine, in AA. VV., Il nuovo

diritto dell’immigrazione, Ipsoa, Milano, 2003, p. 220.

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che l’autore della condotta favoreggiatrice della permanenza non sia concorso nel delitto di favoreggiamento dell’ingresso contra ius.

Tali conclusioni dovrebbero ritenersi valide anche dopo le modifiche apportate all’art. 12 T.U.I. dalla riforma del 2009 che non hanno coinvolto, come si è detto, la fattispecie di cui al comma 5.

L’applicazione della fattispecie di cui all’art. 12, comma 5, sotto questo profilo appare, tuttavia, di portata estremamente residuale rispetto ai casi di favoreggiamento della permanenza ai fini di ingiusto profitto, in quanto sarebbe estremamente difficile configurare delle ipotesi di sfruttamento in cui non vi sia un profitto.

3.3. Lo sfruttamento nell’art. 22 T.U.I. e l’attuazione della direttiva ‘sanzioni’: