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Catene, reti e “spazio migratorio”

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 101-107)

SFERA PUBBLICA E SFERA PRIVATA 1 Concetti e ness

5. Catene, reti e “spazio migratorio”

Nel momento in cui è stata avviata la ricerca, una delle ipotesi per ciò che riguarda l’arrivo delle donne che avrebbero lavorato come badanti in Sicilia prendeva come riferimento le teorie sulle reti sociali. Con reticolo sociale si intende l’insieme di persone, appartenenti o meno alle famiglie, connessi tra loro attraverso dei legami che coinvolgono obblighi reciproci. Tali teorie nello studio delle migrazioni mettono insieme gli approcci basati sul ruolo individuale con quelli strutturali. Le reti sociali quindi rappresentano il collegamento tra paese di partenza e paese di arrivo nonchè il canale privilegiato ed “il fattore causale in quanto tale, a prescindere dalla maggiore o minore arretratezza economica del paese di esodo”(Boyd in Campani 2000 p.153). In realtà oggi, le ultime ricerche sottolineano il carattere solidaristico, economico e simbolico delle reti sociali, valorizzando l’aspetto della reciprocità e della creazione di un ambiente che possa favorire i processi di integrazione. Nel caso delle donne rumene ed ucraine è la centralità del lavoro e non la presenza di altre donne che aumentano la scelta delle partenze. La presenza di altre donne è solo funzionale alla chiamata, ma influisce poco nella decisione di partire, dettata come abbiamo visto da altri fattori. Specificando meglio, la presenza di altre donne rappresenta un valore aggiunto, perché rappresentano una garanzia e la possibilità di avere una sicurezza, ma non è di per sé la

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presenza delle donne e quindi la creazione di una rete sociale la causa dell’arrivo delle donne. In realtà, solo nel caso in cui si parla di legami familiari molto stretti, come quello tra madre e figlia o tra cognate, le donne rimangono insieme o comunque in contatto tra di loro. Nel caso contrario vi sono solo alcuni momenti di incontro che prescindono dalla catena migratoria, vengono creati in maniera diversa e sono posteriori all’arrivo. Nel caso delle donne indiane, bisogna prendere come riferimento altre teorie che sostituiscano il concetto di rete con quello di comunità e di capitale sociale. Ma questo verrà approfondito in seguito.

Una definizione che sembra essere più appropriata per descrivere e comprendere queste situazioni è quella di spazio migratorio, “una delle categorie più interessanti che è stata introdotta negli ultimi anni, per descrivere l’insieme delle connessioni che gli immigrati tessono tra un paese e l’altro attraverso le reti”(Campani 2000 p. 33). Tale concetto sembra appropriato perché non solo considera le situazioni nei contesti di arrivo, ma anche in quelli di partenza da un punto di vista che è quello della relazione tra i due. Come è emerso dalla ricerca, l’esperienza di queste donne deve essere considerata collegando le varie dimensioni: è per questo che prima di tutto è stato necessario conoscere le motivazioni di partenza e cosa ha spinto queste donne a scegliere di partire e di lavorare come badante in Italia. E questo deve essere collegato alle dimensioni macro dei paesi di partenza per comprendere come le situazioni non fossero esclusivamente individuali ma condivise. L’assenza di retribuzioni alte pur con un lavoro di alta professionalità, l’aumento delle tasse scolastiche per i figli, l’inesistenza di un sistema pensionistico sono ad esempio riscontrabili in quasi tutti i racconti. Il concetto di spazio migratorio permette quindi di allargare l’orizzonte verso le dimensioni strutturali a livello micro ed a livello macro. Sempre al suo interno infatti ritroviamo i canali di ingresso o meglio la mediazione tra domanda ed offerta di lavoro: sia che parliamo del passaparola, della comunità o dell’associazione si fa riferimento ad un collegamento tra i due paesi che proprio perché tale non può essere analizzato solo come canale ma deve essere necessariamente contestualizzato. Anche nel caso della gestione da parte della criminalità organizzata, è necessario parlare dell’inganno, del carattere illegale e contro i diritti umani facendo riferimento ad un contesto, quello territoriale di quella particolare cittadina, in cui il controllo di tipo mafioso è forte sul territorio, e dove da tempo le famiglie mafiose locali gestiscono il mercato della

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prostituzione. L’affare delle donne e del badantato è stato considerato dalla mafia proprio perché rende molto, vista la grande quantità di famiglie che necessitano di questo servizio e che fomentano in un sistema di complicità e convenienza, l’arrivo delle donne. In generale l’aspetto situazionale del concetto di spazio migratorio aiuta la comprensione dei racconti di queste donne, letti nella maggior parte della letteratura solo dal punto di vista del lavoro e delle situazioni lavorative che, all’interno di questa ricerca, rientrano in quello spazio migratorio, sempre più dinamico ed a volte strategico, in cui le donne ne sono protagoniste.

6. Le difficoltà

I cambiamenti che queste donne vivono attraversano le dimensioni micro e quelle macro, tuttavia si materializzano nella vita quotidiana e in quegli aspetti dell’ordinarietà che tentiamo di dare come scontati ma che l’incontro con queste donne rimette decisamente in discussione.

La prima grande difficoltà che le donne trovano nel lavoro di cura è la lingua. Nessuna di loro parlava l’italiano prima di arrivare e questo ha reso la permanenza e l’inizio di lavoro nella famiglia ancora più difficile. “L’unico problema è stato la lingua, dice Bina, poi io mi sono messa a studiare, ed all’inizio studiavo, studiavo sempre”. Nella maggior parte dei casi, soprattutto nelle cittadine più piccole, le donne imparano l’italiano studiando da sole perché nessuna associazione o ente o istituzione mette a disposizione la possibilità di frequentare dei corsi di lingua. In realtà molti sono stati i tentativi di fare i corsi serali e corsi di lingua, ma l’orario continuato dell’attività lavorativa non ne consente la frequenza. In generale quindi, l’apprendimento della lingua avviene sul campo, nelle famiglie e con le persone da assistere. Non mancano i suggerimenti: “molti hanno studiato le altre lingue, come l’inglese, per questo hanno la mente formata allo studio. Io gli dico di fare così, quando arrivano nelle famiglie, dire ogni volta che si prende un oggetto, il suo nome”. Dare un nome alle cose quindi, e farlo nella quotidianità di una situazione e nella relazione costante. Trattandosi però soprattutto di “badati” anziani, molto spesso questo processo si mescola con la lingua tradizionale, il dialetto, ed è facile quindi che queste donne usino dei termini specificatamente siciliani. E così che Maria mi racconta “poi esco, torno e faccio a

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spisa19, e mangiamo insieme”, oppure come Saba che parlando della sua signora dice “mischina20, sta davvero male” , ed anche Anna che nel raccontare la sua esperienza dice“da quando sono qui, fici tutti cosi!”. Un particolare davvero interessante, soprattutto se pensiamo al fatto che oggi si parli sempre meno il dialetto, anche se quello siciliano è tenuto in vita da letteratura ed opere in dialetto. Queste donne sono però i soggetti di questa trasmissione linguistica, riprendendo il significato letterale di tradizione, che mette insieme la trasmissione con il mantenimento dell’oggetto da trans dire. Lo strumento per eccellenza dell’apprendimento dell’italiano è la televisione, che in generale viene sempre tenuta accesa durante la giornata, come spiega Ludmilla, sia per “compagnia, ma anche per ascoltare le parole nuove. Quando non capisco la scrivo e la chiedo ai figli della signora”.

La lingua quindi viene imparata in maniera autonoma ed in base alle esigenze quotidiane, non a caso, un altro strumento di apprendimento è la preghiera, o meglio le preghiere che vengono lette con le signore anziane. Un esempio molto simpatico della preghiera come strumento di apprendimento della lingua mi viene offerto dal parroco, il quale dice “dopo la messa, si fermano. Allora io distribuisco i libretti con i canti della liturgia. A volte traduciamo quelli indiani in italiano. Così qualche parola in più viene imparata. Faccio lo stesso anche con i brani del Vangelo. Non possiamo fare i corsi, ma in quell’oretta qualcosa imparano. E pure io, qualche parola nella loro lingua”. Considerare la lingua e le fasi dell’apprendimento inducono a riflettere sul legame tra lingua e lavoro nella situazione specifica della cura e sulle strategie portate avanti da queste donne per risolvere il problema. La televisione, lo studio personale, la volontà di rimanere per imparare i canti della liturgia sono tutte modalità messe in atto dalle donne per raggiungere un obiettivo con le risorse disponibili. Il legame tra la lingua ed il lavoro di cura è fondamentale, e sono molte le ricerche negli ultimi decenni che enfatizzano il ruolo della parola nella terapia medica. Il potere curativo dell’ascolto, della comunicazione verbale, rappresentano per molti una vera e propria terapia. Si riesce a superare la solitudine di chi è solo e non è indipendente; la “costrizione” dello stare insieme implica la necessità di parlarsi, di raccontarsi. Ludmilla in Romania

19 “a spisa” nel dialetto messinese significa preparare da mangiare

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faceva la maestra e tal proposito dice: “il mio lavoro non è cambiato molto. Loro sono come i bambini, bisogna ascoltarli, ma anche rimproverarli e consolarli, parlando”. Durante la permanenza con queste donne sui luoghi di lavoro questo emerge anche dalle signore che, nel parlare della “nuova figlia” - come una signora novantenne ha definito la sua badante rumena- ribadiscono la bellezza e l’importanza di avere qualcuno con cui parlare “per scambiare quattro parole, altrimenti sola non ti passa mai”. Per questo le donne si pongono l’obiettivo del parlare bene l’italiano e del capire anche il dialetto, che tra l’altro “è davvero più difficile, l’italiano è difficile, figurati il dialetto” come ha espresso Lilia durante l’intervista. Quindi la lingua è il primo ostacolo ma anche il primo traguardo che queste donne raggiungono, e che viene ovviamente considerato nella fase di assunzione e di contrattazione dello stipendio. Come ricordato dai responsabili di un’associazione “se la donna parla già l’italiano è più facile che trova lavoro. Ed è pure più facile farle avere il massimo dello stipendio”, ed in effetti nelle richieste da parte delle famiglie la lingua è tra le principali perché così viene facilitata tutta la fase iniziale di inserimento al lavoro. In generale, possiamo riprendere le categorie della socializzazione al lavoro, per cui l’apprendimento della lingua risulta essere prioritaria insieme ad altri elementi e capacità da acquisire.

Ripensando alla quotidianità di queste donne un’altra difficoltà è stata rilevata nel cambiamento delle abitudini alimentari. Queste donne hanno un rapporto con la cucina che è particolare, perché devono imparare a cucinare in base alla dieta mediterranea e ad ingredienti nuovi. Anche la cucina fa parte del lavoro di cura, perché è compito molto spesso delle badanti quello di pensare all’alimentazione, e quindi di sposare le abitudini delle persone con cui lavorano. Lilia racconta come all’inizio sia stato divertente imparare a cucinare, anche se dice “la cucina siciliana è davvero tanto buona, ma esagerata. Troppa pasta, io non sono abituata così. Da noi la pasta massimo una volta a settimana. Qui sempre. E poi anche il sugo. Da noi è fatto diverso, insomma mi piace, ma preferisco mangiare a modo mio”.

Anche le modalità alimentari e culinarie rappresentano quindi una differenza che queste donne devono accogliere e spesso modificare per essere meglio accolte nel luogo di lavoro. La situazione del lavoro di cura permette ancora una volta di riflettere su interrogativi dati per scontato: come può il saper o non saper cucinare “all’italiana”

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influire sul posto di lavoro? In generale queste donne adottano strategie ed approfittano di questa situazione per imparare nuove ricette e nuovi piatti: Dora ad esempio è fiera del fatto che “alla signora piace la cucina del mio paese, così un giorno cuciniamo all’italiana ed un giorno alla rumena!” ed Annamaria ha approfittato per far conoscere alla sua famiglia un piatto tipico siciliano, “quando sono tornata in Romania- racconta- ho fatto la pasta alla norma, quella tipica, nel forno, la conosci? Ecco. Era buona, ma gli ingredienti là sono diversi. Quindi non è venuta come quella di qua. Pazienza!”.

Un ultimo ostacolo che emerge dalla ricerca sul campo per il lavoro di cura, è spesso la residenza in un piccolo paese. Per le donne che lavorano presso le famiglie residenti lungo la costa della provincia di Messina, o lungo le pendici dell’Etna nella provincia di Catania, o ancora nell’entroterra Palermitano e nell’Isola di Pantelleria, l’assenza di un grande centro urbano crea iniziali difficoltà. Le donne che provengono dalla Romania e dall’Ucraina infatti, hanno una provenienza in generale urbana o comunque vengono da grandi cittadine. L’impossibilità di “fare shopping, uscire e guardare le vetrine”, come spiega Saba, è riscontrabile in tutti i racconti, perché nei piccoli paesi è difficile trovare oltre alla piazza ed al corso principale centri commerciali o grossi negozi. Come racconta Lilia “qui dove vado? Due negozi ci sono. E basta. Passeggio sul lungo mare e poi? Quindi me ne torno a casa o vado a trovare la mia amica”. In effetti il cambiamento del contesto cambia l’atteggiamento verso il tempo libero, quando infatti queste donne non lavorano ed hanno il giorno libero prendono degli autobus per arrivare nella città più vicina dove poter andare in giro e “vedere anche le luci, i negozi. Senza comprare, ma almeno, a me piace guardare” (Dora).

Ancora una volta ritroviamo un aspetto organizzativo molto importante per queste donne, le quali quindi, acquisiscono la capacità di prendere autobus, treni e mezzi pubblici per superare un problema. Nella situazione delle primo migrant21i, in alcuni studi del caso francese, si evidenzia come una delle tappe fondamentali del processo di integrazione e autonomizzazione di queste donne sia quello di poter muoversi e organizzarsi prendendo i mezzi pubblici. Lo stesso avviene per le badanti le quali, data

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Nella letteratura sociologica francese primomigrant designa le persone che arrivano per la prima volta in Francia, e che seguono una procedura amministrativa diversa dagli altri.

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la situazione lavorativa totalizzante, organizzano le proprie giornate libere per uscire e crearsi una situazione alternativa. In effetti, alla domanda quale problema pensi possa essere risolto per migliorare le cose? molte donne forniscono risposte del tipo “una cosa importante c’è. Qui il pullman non arriva mai. Aspetto ore alla fermata. Per arrivare a Catania ci metto due ore, quando sono solo dieci minuti. Bisognerebbe mettere più autobus.” (Ela). E questo, senza dubbio è un elemento in comune con le donne italiane che senza automobile o senza patente di guida dipendono dall’organizzazione dei mezzi pubblici che nelle città del sud Italia a volte rappresentano un reale problema.

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