I percorsi di autonomia ed emancipazione delle donne migranti avvengono su terreni strategici che potremmo definire di “sconfinamento”. E tuttavia, lo stesso concetto di emancipazione appare oggi ambiguo e sfuggente, per la molteplicità di significati che assume l’esperienza migrante nel suo incrocio con l’esperienza degli/delle autoctone. Le domande che sono alla base di questo processo possono essere così riassunte:
Cosa significa oggi emancipazione? Quali significati attribuire a categorie della tradizione femminista occidentale (autonomia, indipendenza, libertà) nell’incontro con le soggettività migranti? E quali nuovi significati assume per le donne occidentali (autonome, libere, indipendenti, emancipate) l’incontro con altre donne dei Sud del mondo con le quali spesso interagiscono con modalità di dominio? Come si intersecano oggi gli spazi e i tempi del privato e del pubblico, sottoposti a nuove dinamiche – anche intersoggettive – proprio per la presenza di donne migranti?
L’esperienza della donna migrante può essere letta come percorso che si costruisce nei paesi di partenza ed in quelli di arrivo tra le sfere del privato e le sfere del pubblico. Quello che l’approccio intersezionale vuole sottolineare è la presenza di luoghi in cui è possibile muoversi senza essere incluse in un preciso confine. La discriminazione della donna migrante non è additiva: ma il genere, l’etnia e la classe sono confini da attraversare per la creazione di spazi di libertà. Pertanto viene “messo a lavoro” il concetto di emancipazione: lo studio sulle donne migranti a partire dallo sguardo della donna occidentale vincola la costruzione della emancipazione come indipendenza economica, autonomia, libertà (intesa come libertà da).
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Intento di questa ricerca è quello di decostruire e costruire una definizione di emancipazione, a partire dalle esperienze di sconfinamento.
La sfera pubblica e privata (e le loro interrelazioni) rappresentano quindi i luoghi in cui poter riflettere su tutto questo.
Lo studio sulle migrazioni delle donne mette in campo la necessità di ripensare categorie e concetti, di riposizionare lo sguardo e “disimparare” pregiudizi. Al centro di questa ricerca ci sono le donne migranti, partite sole che costruiscono ed intraprendono percorsi nuovi ed innovativi. Al centro di questa ricerca vi è l’incontro con queste donne, vi sono racconti da ascoltare e da narrare, ci sono sguardi, ci sono gesti: vi è l’accoglienza reciproca di chi si mette in cammino, di chi si riconosce compagni di viaggio. “Farsi prendere per mano da queste donne” come suggerisce Renate Siebert, per riconoscersi come soggettività in gioco con i limiti delle visioni etnocentrice, occidentali, generazionali. L’incontro con donne che provengono da altri paesi con culture, tradizioni ed equilibri differenti permette di riposizionarsi, di comprendere aspetti della vita individuale e collettiva che determinano costruzioni diverse del genere. 3. Le ipotesi iniziali
Si è scelto di organizzare questa tesi in modo particolare, rispecchiando un po’ l’impossibilità di racchiudere le esperienza migratorie in una struttura rigida. Ogni capitolo, soprattutto quelli inerenti alla ricerca sul campo, è stato organizzato in maniera dialettica tra teorie e prassi, nello schema teoria-prassi-teoria. In ogni capitolo sono espresse le ipotesi specifiche supportate dalle ricerche precedenti e dalla letteratura sul tema. L’ipotesi generale che ha guidato tutta la ricerca può essere così sintetizzata: le donne costruiscono percorsi che si elaborano in luoghi di frontiera tra le sfere del privato e del pubblico.
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CAPITOLO 2 LA METODOLOGIA
“Per incontrare l’alterità occorre essere pronti a cambiare; non possiamo comunicare o metterci in relazione con le differenze semplicemente restando noi stessi.”
Alberto Melucci (2000, p. 51) 1. Introduzione
L’approccio metodologico di tipo qualitativo è stato poco valorizzato nelle prime fasi dello sviluppo della ricerca sociale. Nei primi anni del novecento infatti, l’impostazione positivista presupponeva la presenza di un metodo universale per tutte le scienze e quindi la possibilità di stabilire regole e procedure universali per tutte le fasi della ricerca. È con i lavori portati avanti dagli intellettuali della Scuola di Chicago che si inizia a considerare un nuovo modo di fare ricerca, con nuovi metodi e con nuovi oggetti di studio. Solo negli anni ’70, possiamo rintracciare la svolta interpretativa che mette al centro degli studi un nuovo modo di intendere la ricerca sociale e l’elaborazione teorica, grazie anche agli strumenti critici offerti dai movimenti sociali di quegli anni.
L'illusione panoptica (Pepe 2009) della modernità si frantuma e si scoprono diverse prospettive di analisi e nuove strade da percorrere verso il cambiamento. Nella ricerca sociale, cambia il modo in cui viene condotta l'osservazione, cambiano le tecniche usate, e cambiano soprattutto gli oggetti degli studi e delle ricerche. Iniziano ad essere avviate ricerche su nuove tematiche offerte dal fenomeno migratorio, si inizia a parlare delle differenze e degli attuali conflitti di classe. Quello che per gli autori della Scuola di Francoforte era il principio cardine della ricerca e della teoria, ovvero l’impossibilità di stabilire e trovare una verità certa, è centrale in questa svolta interpretativa: è questa anche la via della speranza, della continua osservazione e della possibilità di legare dialetticamente theoria e praxis. Si deve aspettare ancora un ventennio prima di avere una produzione organica sulla metodologia qualitativa della ricerca sociale. È solo negli
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anni novanta, infatti, che si ha la pubblicazione dei primi manuali: David Silverman offre la prima sintesi delle teorie e pratiche della ricerca qualitativa. Pur affermando l'impossibilità di avere un metodo unico ed universale, Silverman pone le basi per l'autonomia della metodologia qualitativa, rispetto alle ricerche di tipo quantitativo. Un merito a lui riconosciuto è quello di aver individuato una metodologia “pratica e situazionale”, che sia al servizio dell'oggetto di studio, delle sue peculiarità che a volte necessitano di soluzioni metodologiche specifiche, nonché creative e contestuali (Silverman, 2004).
L’autore si pone a metà tra il formalismo metodologico, che enfatizzava la produzione di regole in una logica positivista e il postmodernismo metodologico, basato sulla soggettività del ricercatore. Tutto questo mette a lavoro il concetto di comprensione (Adorno 1994). La scienza comprendente per eccellenza, la sociologia, cambia: sono adesso i soggetti ad avere la possibilità di comprendere il proprio mondo ed il proprio vissuto.