La ricerca biografica è stata definita come una forma di “ricerca partecipante”, che presuppone quindi una forte rilevanza della relazione tra persone. La partecipazione nella raccolta delle interviste biografiche assume che le figure dell’intervistato e del ricercatore non siano separate ma insieme in una situazione di intervista. La situazione di intervista è l’insieme degli avvenimenti che consentono lo sviluppo di un’azione sociale complessa costruita dialogicamente e attraverso la quale viene raccolta e prodotta l’intervista biografica. È un tipo particolare di azione sociale che deve essere i contenuti dell’intervista. La direttività si affianca alla standardizzazione, la possibilità di offrire uniformità degli stimoli sia per quanto riguarda la loro forma sia per l’ordine di presentazione.
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analizzata e descritta. Il soggetto intervistato non è solo colei che dona informazioni, non è “miniera dalla quale estrarre materiale grezzo che poi il ricercatore raffinerà” (Bichi 2002, p.38), ma è un attore sociale in grado di dire il mondo sociale di cui fa esperienza, capace di rendere conto della produzione, riproduzione e regolazione dei meccanismi e dei processi sociali, passando attraverso la vita degli individui concreti, con la sua persona al centro dell’azione. Le parole vengono considerate come espressione del suo mondo che egli definisce mentre lo valuta e cerca di convincere l’interlocutore della sua validità (Bichi 2002). Quello che deve interessare è la sua esperienza sociale, esperienza intesa come attività “che struttura il carattere fluido della vita” attraverso la gestione di logiche d’azione differenziate (Bichi 2002).
Il racconto dell’esperienza per Bourdieu è il processo che permette di mettere in un ordine artificiale il flusso dell’attività quotidiana, le peripezie disseminate in un percorso biografico dando un senso, cioè una direzione e un significato, a ciò che nella realtà vissuta si presenta frammentato, discordante e imprevedibile. Ne risulta un processo di razionalizzazione ex post e creazione tout court inefficace ed inefficiente alla ricerca sociale (Pepe 2009). Rita Bichi scrivendo sulla metodologia qualitativa usa la metafora del mercato: uno spazio condiviso in cui avviene uno scambio di beni simbolici, culturali e sociali. Il processo di comprensione deve fare i conti con le dinamiche del riconoscimento e con il “spogliarsi” (Bichi 2002) di categorie imbevuti della distanza. È per questo che risulta necessaria una conversione di sguardo, un cambiamento non solo del punto di osservazione, ma anche delle dinamiche di relazione che si creano durante l’incontro con l’Altro, oggetto di studio.
È quello che viene definito l’“esercizio di esperienza dell’altro”, uno sforzo di cammino che tende verso l’Altro, che a partire dal riconoscimento permette di condividere e rivivere una storia, spostando lo sguardo e abbandonando la sicurezza delle categorie rigide. Una relazione che è un esercizio, un “addestrarsi all’ascolto, ed evitare di far andare via lo stupore che ci accompagna quando violiamo le leggi di gravità del nostro etnocentrismo”(Cassano 2003 p.VII) nella consapevolezza che “l’esperienza dell’altro è quindi un esercizio di decentramento di indebolimento della nostra chiusura in noi stessi” (Pepe 2009, p.105)
È per questo che nello studio delle migrazioni e negli studi di genere ad esso connessi, la scelta del metodo ricade su quello qualitativo, in un “viaggio verso l’altro” in cui è
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essenziale una conversione di sguardo; è pensare, quindi, alla la ricerca come un viaggio, che ha come destinazione il decentramento dalle teorie e categorie: un vero e proprio percorso di ricerca di un luogo altro dal quale guardare e quindi posizionarsi (Bichi 2002 ).
L’intervista è quindi un processo, un percorso di ricerca profondo che porta all’incontro con l’Altro.
Prendendo come riferimento le definizioni generali fornite dalla letteratura, l’intervista narrativa ha come obiettivo principale la sollecitazione di storie relative all’esperienza degli intervistati, cercando di dare loro voce, suscitando dei discorsi dai quali emerge una propria costruzione di senso. L’intervista può essere finalizzata a ricostruire una storia di vita o il resoconto di una esperienza legata ad un particolare tema. Nel caso di questa ricerca, si è cercato di ricostruire l’esperienza migratoria della donna intesa nel suo percorso dal contesto di partenza a quello di accoglienza.
Una caratteristica essenziale è la relazione che si instaura tra intervistatore ed intervistato: è un rapporto inizialmente asimmetrico che però si ricompone attraverso lo scambio che si realizza tra l’intervistato che mette a disposizione la narrazione e l’intervistatore che offrendo il suo ascolto dà all’intervistato la possibilità di esprimere i suoi pensieri. È una sorta di negoziazione e cooperazione in cui l’intervistato sceglie la trama, i personaggi ed i concetti delle storie da raccontare.
La dimensione dell’incontro si interseca con quella dell’ascolto. È un ascolto reciproco, è avere cura di quel dialogo che si crea nella situazione dell’intervista. L’incontro con le donne migranti è esperienza di cambiamento, che passa dal denudarsi di certezze e categorie, dal creare un legame basato sulla fiducia e sulla consapevolezza di creare in quei minuti, in quelle ore, un rapporto di confidenza, di intimità. Durante questa esperienza ho sentito molto il peso della responsabilità dell’ascolto, della fatica, dell’empatia, della condivisione di stati d’animo ed emozioni. Riflettere sul significato dell’ascolto significa porre l’accento sul riconoscimento nei confronti di colei che parla della sua presenza corporea.
L’ascolto diventa metafora di un modo di mettersi in relazione, di entrare in una relazione e di un modo di intendere il percorso di ricerca (Chiaretti, 2001). L’ascolto si basa sulla “concezione antropologica dell’assoluto bisogno estetico che l’uomo ha dell’altro” (Bachtin 1988 in Chiaretti 2001 p. 258) per comprendere la sua esistenza in maniera globale. Nelle dinamiche dell’ascolto, nella situazione comunicativa, si arriva a
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dire “io sono corpo”, giungendo alla percezione di sé attraverso la percezione dell’altro. Da questo punto di vista, l’intervista narrativa sembra essere il modo migliore per valorizzare l’aspetto dialogico, perché consente di “lasciarsi trasformare dalle vive voci dei parlanti, sorprendere da elementi imprevisti pronti a irrompere a movimentare lo scambio verbale e relazionale” (Chiaretti 2001 p. 258). Diventa centrale la dimensione del racconto, e non si può parlare più di oggettività, ma di oggettività discorsiva (Bertaux 1997), “il racconto stesso è esperienza, attraverso la quale, l’esperienza raccontata viene distillata”(Bichi 2002, p.39).
Il ricercatore usa il racconto e l’ascolto per ricostruire gli universi di senso degli intervistati mentre si costruiscono ed esplicitano nella interazione e nella situazione di intervista. Il ricercatore è davanti ad un processo di formazione continua che dura fino alla fine dell’indagine sul campo: è per questo che non si possono porre dei limiti alla ricerca, ma soltanto giungere ad una riflessione ed analisi che possa far nascere altre domande ed altre ipotesi. Ciò che viene tradotto nel “desiderio del racconto” nasce dall’incontro tra due bisogni: conoscere una storia ed avere davanti qualcuno che dopo averla ascoltata possa restituirla.
Jedlowski mette a tema la narrazione come compimento dell’esperienza a partire dal presupposto che in ogni attività quotidiana “ciascuno racconta ed ascolta una miriade di storie” e che “tramite le storie si impara a riconoscere il mondo ed a nominarlo, elaborando rappresentazioni degli altri e del sé. L’identità è una costruzione narrativa. Il racconto è la forma più comune in cui si esprime il bisogno di ognuno di dare un ordine alla propria esperienza.” (Jedlowski in Poggio 2009 p.12 ). La vita stessa, come affermava Ricoeur, può essere intesa come una “narrazione agita”, o come “una attività e una passione in cerca di una narrazione”. In questo caso è importante legare la dimensione narrativa a quella identitaria, ovvero, riconoscere che nel raccontare di noi e degli altri prendiamo parte ad un processo di creazione e mantenimento del nostro e dell’altrui senso del Sé.
La narrazione, secondo Jedlowski (2009), è lo strumento che conferisce continuità all’esperienza del “noi”: “limitati nello spazio e nel tempo, opachi a noi stessi, ci affidiamo ai racconti per trascendere i confini della nostra realtà e per elaborare la nostra esperienza, per riconoscerci e farci riconoscere”(Jedlowski 2000 p. 3).
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Riprendendo l’identità come definita da Melucci, ovvero come un processo in continua e dinamica evoluzione, la narrazione permette di mettere dei confini e nello stesso tempo superarli di tenere insieme la frammentarietà dell’io ed il bisogno di riconoscersi e di essere riconosciuti. Ancora, al centro della ricerca e della scelta metodologica vi è quindi il riconoscimento, nel senso più profondo del termine, con implicazioni teoriche, ma anche motivazionali rispetto alla ricerca. Nell’incontro con le donne migranti si riscontra altresì un ulteriore caratteristica del racconto: la connessione tra presente, passato e futuro.
Come scrive Renate Siebert “il racconto di vita permette di cogliere il presente, il passato ed il futuro”, ed è quindi “il rapporto tra passato e presente in una interpretazione soggettiva quello che le fonti orali permettono di rilevare” (Siebert 1999). Il racconto permette poi di cogliere “l’intreccio fra particolare e generale, fra dinamiche globali e risposte locali, fra situazioni sociali ed elaborazioni personali” (Pepe, 2009 p. 112), ed è per questo che risulta lo strumento idoneo per considerare i percorsi delle donne migranti nel loro passaggio tra le sfere del pubblico e del privato. 6. Nella ricerca: starci dentro
“Non vedo altra via d’uscita per noi se non per mezzo di incontri come questo: una donna che parla di fronte a un’altra che guarda. Quella che parla sta raccontando l’altra, i suoi occhi brucianti, la sua memoria nera, oppure descrive la propria notte usando le parole come torce, come candele la cui cera si scioglie troppo in fretta? Colei che guarda, a forza di ascoltare, di ascoltare e ricordare, finisce col vedere se stessa per mezzo del proprio sguardo, finalmente senza veli?” (Assia Djebar, cit. in Siebert 1997 p.9)
Ho intrapreso questo percorso di ricerca facendomi guidare verso l’unica via d’uscita suggerita da Assia Djebar, la via dell’incontro con le altre donne. Lo studio sulle migrazioni delle donne mette in campo la necessità di ripensare categorie e concetti, di riposizionare lo sguardo e di “disimparare” pregiudizi. Al centro di questa ricerca ci sono le donne migranti, in gran parte partite sole, che costruiscono ed intraprendono percorsi nuovi ed innovativi. Al centro di questa ricerca vi è l’incontro con queste donne, vi sono racconti da ascoltare e da narrare, ci sono sguardi, ci sono gesti: vi è
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l’accoglienza reciproca di chi si mette in cammino, di chi si riconosce compagni di viaggio. L’incontro con donne che provengono da altri paesi con culture, tradizioni ed equilibri differenti permette di riposizionarsi, di comprendere aspetti della vita individuale e collettiva che determinano costruzioni diverse del genere.
Mi sono immersa nella ricerca a piccoli passi, da giovane studentessa con un bagaglio fatto di certezze, in cui avevo riposto la mia idea di donna, la mia idea di libertà e di emancipazione. A poco a poco questa idea è stata distrutta, rielaborata, rimessa in piedi e poi di nuovo annientata: l’incontro con le donne è un continuo rimettersi in gioco, un incrocio tra solidarietà e sofferenza, tra coraggio e debolezza, tra solitudine e socievolezza. A poco a poco il timore di entrare nella vita delle persone si è trasformato in domande che non hanno mai avuto risposta, in pretese mai esaudite, in passione e voglia di andare avanti. La narrazione delle donne migranti permette di cogliere le caratteristiche di un universo di senso nuovo e di rileggere le migrazioni con altri occhi, spostando lo sguardo rimanendo immersi in un situazione che è fatta di corpi, storie, emozioni ed ansie.
Le parole che hanno guidato la ricerca, il mio essere nel campo e sul campo sono quelle usate da Renate Siebert (1999) e che ho fatto mie: “il principio che ho scelto di adottare per tutta l’interpretazione è quello di esserci, sì, con tutti il peso delle teorie a monte, ma di farmi prendere per mano dai racconti delle donne, di farmi portare lungo i loro sentieri, guardando con i miei occhi.”
65 Capitolo 3 LA SCELTA DEI CASI 1. Premessa
La scelta dei luoghi in cui condurre la ricerca è legata a diversi fattori e caratteristiche che verranno approfonditi nei seguenti paragrafi. In generale si è tenuto conto di elementi comuni come l’immigrazione di lungo periodo rispetto alla realtà nazionale e la particolare posizione geografica, ma si tenuto conto soprattutto delle differenze e dei diversi approcci anche istituzionali. La scelta della Francia e dell’Italia rientra in questo orizzonte ma è necessario fare una precisazione. Oggetto della ricerca sono le donne migranti ed i loro percorsi, pertanto i contesti di riferimento sono lo sfondo in cui le donne hanno creato e rielaborato i propri percorsi. Proprio per questo, si è scelto di approfondire due realtà, quella francese e quella italiana, diverse per politiche, approcci e storia dell’immigrazione; in maniera ancora più specifica, si è scelto di condurre la ricerca in Sicilia, sud Italia e sud Europa, ed nel Nord Pas de Calais, nord della Francia e nord dell’Europa. L’obiettivo è stato proprio quello di comprendere come i percorsi delle donne migranti si possono costruire a partire da situazioni, percezioni e posizioni differenti, ed in base a ciò definire le caratteristiche comuni ma soprattutto le originalità e le peculiarità di ogni percorso.