SFERA PUBBLICA E SFERA PRIVATA 1 Concetti e ness
7. Le situazioni lavorative
Le situazioni lavorative delle donne impegnate nel lavoro di cura verranno analizzate a partire da quattro dimensioni: lo spazio, il tempo, le attività ed i rapporti.
Conoscere queste donne implica anche la frequenza e la conoscenza degli spazi lavorativi rappresentati in questo caso dalla casa. L’assistenza di tipo domiciliare consiste nell’assistenza presso la dimora della persona da assistere, questo perché vi è la preferenza da parte delle famiglie di non sradicare l’anziano o l’anziana dal suo ambiente familiare. Nella maggior parte dei casi, la badante vive sola con la signora o il signore da assistere da assistere, solo in alcuni casi sono presenti componenti del nucleo familiare. A tal proposito è necessario fare una specificazione riguardo al genere delle persone da assistere, che introduce una caratteristica specifica legata alla dimensione comunitaria, riguardo soprattutto alla comunità degli indiani residenti a Patti. Qui si inserisce la figura del badante, uomo, che entra in gioco nei casi in cui la persona da assistere è un uomo; le motivazioni, in base alle spiegazioni delle donne, sono legate alla forza fisica necessaria per effettuare e far effettuare dei movimenti, ma anche a questioni legate alla corporeità.
Il lavoro si volge prevalentemente in una stanza, quella del soggiorno o della cucina e varia in base alle abitudini ed alle esigenze del “badato”, e molto spesso le donne dormono nella stessa camera da letto perché l’assistenza, come vedremo riguarda sia la notte che il giorno. Altre volte la donna ha una stanza propria, cosa che rende il soggiorno un po’ più sereno, e viene garantita un po’ di privacy. Le ricerche condotte in questo campo rintracciano nella necessità di uno spazio proprio uno dei bisogni principali di queste donne nonché uno dei fattori che rende questo tipo di lavoro
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insopportabile. La convivenza forzata implica un processo di adattamento all’altro e soprattutto nella gestione dello spazio. Serfaty-Garzon, in uno studio sulle donne migranti in Francia ( 2003), ricostruiscono attraverso i racconti la creazione di spazi propri come tappa fondamentale del processo di integrazione.
Applicando tale ricostruzione al caso delle badanti questo non risulta essere verificato perché lo spazio, sebbene diventi familiare, non diventa proprio, non solo nei termini dell’appartenenza ma anche della condivisione e dell’accoglienza. Le donne migranti in Francia, secondo le autrici, hanno avuto bisogno della creazione di un “casa nostra” (chez moi) per sentirsi a proprio agio, per sentirsi realmente residente in un posto. Vivere con la persona che si assiste e quindi la coincidenza dello spazio lavorativo con quello abitativo, non facilita la creazione di legami con l’esterno e rende la situazione del tutto totalizzante. Invitare le persone, avere degli amici, prendere un caffè sono tutte attività che la donna deve svolgere fuori, in uno spazio pubblico – un parco comunale, un bar- perché a casa non si può.
Una situazione osservata e che può facilitare la comprensione, è l’arrivo di ospiti che vengono a far visita all’anziano o all’anziana. Le reazioni sono principalmente, in base alla osservazione effettuata - due: in una prima la donna saluta, sistema la signora e va via, spesso si rifugia nella propria camera. Una seconda reazione è quella della donna che rimane con la signora, le sta accanto e partecipa alla discussione parlando con gli ospiti. Sono due modalità diverse, che dipendono dal grado di libertà che viene lasciato loro e soprattutto dalla personalità e dal carattere delle donne.
La situazione di intervista, tendenzialmente era appunto caratterizzata dall’essere in una stanza in una relazione a tre per cui le stesse anziane hanno partecipato, nei casi in cui le condizioni fisiche lo permettevano, all’intera intervista, intervenendo ed a volte esprimendo le proprie opinioni in merito. Per questo la necessità di organizzare il tempo libero in spazi pubblici, o comunque in un altrove che non sia la casa. Le donne rumene hanno l’abitudine di incontrarsi in piazze o ville comunali, dove si raccontano, condividono informazioni e creano legami. Le donne indiane hanno un livello organizzativo più elevato: hanno tutte delle abitazioni in affitto da condividere con il resto della comunità, nel giorno libero che è la domenica. È in queste case che queste
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donne cucinano i loro piatti tipici ed invitano amici e parenti, all’interno ed all’esterno della comunità, ricreando il “chez moi” che la situazione lavorativa non permette loro. Per quanto riguarda i tempi queste donne hanno un’attività lavorativa giornaliera di 24 ore, tutto il giorno e tutta la notte; la giornata libera di solito è la domenica, ma alcune si organizzano diversamente in base alle esigenze dei datori di lavoro. L’organizzazione della giornata segue il ritmo della persona che si assiste, in base alla quale si ha un orario per la sveglia, per il pranzo e per la cena. Ma la dimensione del tempo può essere anche letta dal punto di vista dell’anziano e dell’ammalato, per i quali il tempo è lento nella quotidianità ma veloce nei ricordi, per cui si creano spazi di non attività in cui si parla, si prega, si guarda insieme la televisione. Si crea una situazione che diventa uno spazio ed un tempo condiviso tra la badante ed in genere la signora per la quale si lavora. Come emerge dal racconto si Dora: “è una signora calma, serena tranquilla. Diciamo le nostre preghiere. Io le mie e lui le sue. Alcune anche insieme. Il Padre Nostro lo diciamo insieme.”
Lavorare sempre però non permette di avere tempo per sé, quindi è impossibile la frequenza di corsi di lingua, oppure avere un’attività fisica o semplicemente uscire per fare una passeggiata. Questo aspetto rappresenta quello più drammatico nelle situazioni di lavoro di cura perché le modalità e le attività svolte devono essere continue e ripetitive, per cui non è possibile avere un momento di debolezza o di cedimento. La disponibilità è una delle caratteristiche che viene rintracciata in molte ricerche come parte dell’attività da retribuire, per cui devono venir meno le esigenze e i bisogni della donna. Nella ricerca però sono pochi i casi in cui viene espresso questo tipo di disagio, molte delle donne intervistate infatti, parlano di flessibilità nell’organizzazione, come dice Annamaria “basta chiedere, così ci si organizza. Non ci sono problemi”.
La domenica o il giorno libero diventano i tempi propri, è la giornata dell’uscita, dell’evasione. È il tempo delle amiche, delle passeggiate e semplicemente per sé: come detto precedentemente, l’organizzazione di questi tempi varia in base alla nazionalità, per cui si sceglie di stare con le connazionali, con la comunità o sole. Molte donne infatti non vogliono frequentare i luoghi delle badanti, tra queste Annamaria: “che si fa,
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non si fa nulla. Io preferisco uscire, prendo il treno e vado e vado a vedere un posto nuovo, altrimenti finisce che si dicono le stesse cose sempre, ed a me non piace”.
Le attività che vengono richieste alle badanti sono diversificate e molteplici. Nell’avere cura e nell’assistere si racchiudono una serie di pratiche, attività e gesti non sempre classificabili o intuibili. Fanno parte della quotidianità ed afferiscono alla sfera intima della persona e coinvolgono pienamente l’aspetto della corporeità. Le attività che vengono svolte sono prima di tutto attività corporali. Sia per l’anziano sia per la donna: la relazione lavorativa è una relazione tra due persone, ma è soprattutto una relazione tra due corpi. Un corpo debole, malato, da curare, ed il corpo di queste donne. Donatella Barazzetti a tal proposito scrive: “i gesti della cura sono strettamente legati agli aspetti più intimi e nascosti del vivere umano. Hanno a che vedere con la nascita e la morte, con il fiorire e declinare dei corpi, e con i segni della loro quotidiana materialità. Nel considerare il lavoro domestico dunque occorre misurarsi con questa sua specificità: la vicinanza insopprimibile con la materialità della vita”(Barazzetti 2007 p. 140). Le attività svolte dalle badanti emergono solo dall’osservazione, nei racconti infatti non vi è alcun riferimento alla dimensione quotidiana della cura, all’assistenza del corpo, all’alimentazione, all’igiene. Nessun riferimento a tutto ciò; per rispetto forse, o per pudore, come se si volesse creare un’ altra sfera più intima, più personale, più corporale, comunque riservata.
È per questo che dai racconti emergono le impressioni, la percezione della situazione lavorativa, non le descrizioni delle attività. Ed in generale sono racconti positivi, in cui viene evidenziata la dimensione relazionale, l’accoglienza. Nei racconti infatti le donne parlano delle loro “signore” con molta tenerezza, come fa Bina, nel raccontare la sua ultima esperienza lavorativa “con la famiglia dove ero, mi sono trovata bene. Ero molto affezionata, ma poi è morta. Aveva 100 anni. Era grande, ma anche lei era molto affezionata, io ho sofferto molto quando è morta”. Il decesso di queste persone, spesso anziane, rappresenta una grande sofferenza per queste donne le quali non solo perdono il lavoro ma anche una dimensione che è diventata familiare, con la morte termina un rapporto che non è solo lavorativo. Anche Maria racconta: “sette anni non sono sette mesi. Sono tanti. Poi quando la signora è morta è stato brutto. Ma siamo rimasti legati, ci sentiamo, alle feste, ai compleanni, sono come una famiglia per me, anche adesso”.
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Anche Ela è contenta del suo lavoro e dice “nel lavoro sempre bene, mi sento come se fossi a casa mia, con la signora sto bene e pure con sua figlia.” Questa frase racchiude però il senso e la caratteristica di questo lavoro: Ela dice infatti “mi sento a casa mia” inserendo ancora nel lavoro la dimensione spaziale e simbolica della casa, come se il proprio lavoro fosse legato allo stare bene nel quotidiano di un luogo, in un ambiente. Nei racconti si ritrovano però frammenti della fatica quotidiana, come ad esempio la necessaria forza fisica e mentale nel considerare gli aspetti più pratici e concreti. Ne è esempio Dora che nel narrare le precedenti esperienza lavorative dice “la prima signora dove lavoravo è morta, la seconda è qui vicino però è a letto e poi non ce la faccio ad alzarla e metterla sulla sedia. Per questo sono venuta in questa terza famiglia, però quando sono libera vado sempre a trovarli, sia la signora che i figli”. La fatica fisica, oltre a ricordare un contatto necessario e fisico nello spostare un persona che non è autonoma, emerge espressamente. Nelle situazioni in cui è richiesto uno sforzo maggiore, queste donne devono rinunciare al lavoro; anche Maria ad esempio racconta: “prima ero a casa con un ragazzo disabile. Ma non poteva fare nulla, ed io non ce la facevo. Per questo ho dovuto lasciare. Infatti adesso c’è un badante, maschio”. È facile intuire come a volte sia difficile e che tali difficoltà siano legate alle soggettività di chi si assiste, in base all’età, al genere ed alle malattie. Per molte di queste donne la strategia di adattamento passa attraverso l’abitudine, tutte infatti sottolineano le difficoltà iniziali “nell’abituarsi al ritmo, a quello che si deve fare, alla lingua ed al cibo” (Dora) ma poi “ci si abitua. Io faccio come se fosse mia mamma. O mia nonna, è la stessa cosa” ci racconta Ela, che viene dalla Romania. Maria e Bina forniscono poi un’altra spiegazione: “in India non c’è pensione, e le persone anziane sono a carico dei figli e quindi anche a casa dei figli. Quindi siamo abituate a stare con gli anziani”. In realtà, andando in profondità con le interviste, vengono fuori altri elementi di riflessione che non sempre risultano del tutto positivi. Una delle domande le cui risposte evidenziano infatti gli aspetti negativi del lavoro di badante ha a che fare con il futuro delle proprie figlie. Alla domanda consiglieresti alle tue figlie di venire in Italia? si hanno risposte del tipo questa, fornita da Dora “no, perché sono giovani e per una giovane questo lavoro è duro. Io, io sono abituata con bene e con male, se trovassero un altro lavoro va bene partire, ma come badante, no, proprio no” oppure Ludmilla che dice “non è un lavoro per una ragazza giovane, per me che sono vecchia sì, ma non per
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una giovane”, ed anche Ela “24 ore sono troppe per un lavoro. È difficile, io sono fortunata ma è dura.”
A fornire altri elementi di negatività dell’attività di badante sono i responsabili delle associazioni, che avendo esperienza di ascolto e di intervento per la tutela dei diritti riescono a individuare esperienze di sfruttamento e di non tutela dei diritti. A Catania, il responsabile di un’associazione Siculo Rumena sottolinea come molte donne siano chiuse in piccole stanze e che non venga loro garantita una giusta alimentazione. Così anche gli altri che dicono, “verifichiamo costantemente le condizioni delle signore. E ci sono problemi, interveniamo”. La verifica è necessaria perché a volte, le famiglie possono fornire informazioni sbagliate, come ci dice Annamaria che ne ha fatto esperienza “un lavoro per 600 o 700 euro una dice va bene, ma dopo, dopo esce lo sporco. Certo un lavoro è sempre un lavoro ma c’è differenza”.
Dai racconti la natura del legame che viene sottolineato è sempre quella familiare. Emerge infatti una percezione del tipo di lavoro che fa riferimento alla famiglia, annullando le distanze tra datori di lavoro e badante. Ludmilla ne è un esempio, e lo esplicita: “Non c’è differenza, io non sono la badante, sono una di famiglia. C’è chi dice tu sei la badante e stai lontana ma invece non c’è stato problema. Loro mi aiutano sono contenta.”. Anche molte altre donne incontrate, tranne alcuni casi singoli di sfruttamento, esprimono la stessa sensazione e la stessa percezione: “loro mi aiutano, basta che io chiedo”. Ed anche le datrici di lavoro, nel raccontare l’esperienza di collaborazione e affidamento con queste donne le descrivono come ad esempio, “una di famiglia. Ogni volta che esco come penso per mia figlia penso per lei” oppure, come racconta un’altra signora nipote di una anziana “badata”, “senza di lei sarebbe impossibile, noi la contiamo nelle cose che facciamo, sta sempre con noi, è una della famiglia”.
Questo risulta in contraddizione con una ipotesi di partenza che troviamo nella letteratura femminista e nelle ricerche condotte in altri contesti italiani ed europei. Per quanto riguarda il lavoro domestico infatti, gli strumenti e la prospettiva vengono piuttosto interpretati in rapporto alle situazioni asimmetriche di potere tra la donna datrice di lavoro e la donna badante. Per quanto riguarda infatti il lavoro domestico, la
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categoria usata è quella della subordinazione. In base a quanto teorizzato da Donatella Barazzetti, la subordinazione tende ad essere emotiva- relazionale in quanto si considerano come naturali caratteristiche socialmente attribuite alle donne. La “personalizzazione del rapporto di lavoro costituisce una modalità specifica di subordinazione, in cui confluiscono forme diverse di comando /obbedienza” (Barazzetti 2007 p. 144) . È per questo che non si parla di capacità o di abilità ma di persone e di caratteristiche personali, il soggetto della contrattualizzazione è “la lavoratrice stessa con le sue emozioni, i suoi sentimenti, le sue attitudini”. Questa personalizzazione è riscontrabile anche in quella che viene definita la gerarchizzazione ed etnicizzazione del lavoro. Ma questi ultimi aspetti si ritrovano anche nelle parole delle stesse donne e dei responsabili delle associazioni interpellate in questa ricerca. Non a caso uno di loro afferma “non si può fare di tutta l’erba un fascio ma le africane non sono idonee al lavoro di cura. Hanno altre modalità diverse dalle nostre. Anche per le rumene, non c’è nessun problema, infatti qui ce ne sono tante. Ma le migliori sono le indiane: le indiani sono le migliori in assoluto, sono ricercatissime. Nel loro DNA c’è il desiderio di pace e serenità.”. E’ evidente la naturalizzazione di caratteristiche personali come innate, facendo addirittura riferimento alle caratteristiche genetiche, inscrivendo nel sangue desideri e speranze, nonché uno stile di vita. Viene meno il carattere esperienziale, o lo stesso controllo sociale da parte della comunità di origine o anche l’organizzazione del tipo di lavoro.
Lo stesso viene affermato da un altro responsabile di una associazione, che fornisce anche una serie di esempi: “le indiane sono educate e rispettose, non hanno mai creato problemi”, e continua “una cosa che attrae di queste persone è che appena arrivati chiamano mamma le signore e papà i signori. Le racconto questa: una sera ho accompagnato una ragazzo presso una famiglia. I genitori di questa donna erano anziani, tutti e due a letto. La donna indiana arriva, bacia il vecchio sulla fronte e lo chiama papà. Quest’uomo apre gli occhi, la guarda e sorride. E dice, da anni, nessuno mi aveva chiamato papà. Anche per la moglie, la bacia e la chiama mammina. Questa ragazza li ha ripresi. I figli erano lontani, tornavano il venerdì sera per ripartire i lunedì. Il resto della settimana faceva tutto la ragazza. Dalla a alla z.”. Il carattere esperienziale si associa alla costruzione dell’idea costruita sulle donne indiane, una
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sorta di eterorazzizazione e viceversa di autorazzizzazione anche nel momento in cui una donna indiana dice “noi siamo brava gente, non siamo come i rumeni”.
Il lavoro di cura è un laboratorio per osservare i rapporti non solo all’interno della famiglia ma anche all’esterno ed i processi di etnicizzazione che coinvolgono il badantato in generale e che si configurano in diverse modalità e forme. Nelle relazioni di cura però, oltre al rapporto tra “badati e badanti” si deve parlare di un’altra relazione quella tra la badante e la datrice di lavoro, ovvero la donna che dovrebbe pensare tradizionalmente alla cura ed alla riproduzione, si tratta quindi di un rapporto esclusivamente tra due donne. Molte autrice parlano di “carattere servile del lavoro di cura”, altre ancora di “carattere sostitutivo”.
Secondo Donatella Barazzetti infatti “La badante svolge un’attività che in condizioni diverse sarebbe compiute dalle donne che le assumono. Fanno cioè il lavoro che dovrebbe fare la datrice di lavoro, se questa non avesse le risorse finanziarie per delegarlo. La personalizzazione del lavoro domestico retribuito è il segno tangibile di un percorso di sostituzione, che immette nello stesso ruolo una persona al posto di un’altra”. Ciò ha anche delle implicazioni materiali e quotidiane, “questo comporta che la lavoratrice debba adattarsi alle modalità di gestione della casa, all’organizzazione dei suoi spazi alle minuziose abitudini che costellano gli innumerevoli atti della quotidianità, al posto giusto, al tempo giusto, al gusto giusto che ogni cosa deve avere.” Quindi il lavoro di sostituzione, e l’ingresso del mercato nella vita domestica rivelano “il carattere doppiamente discriminatorio del lavoro domestico, discriminante sul piano dei rapporti di genere tra donne e uomini, sia sul piano dei rapporti di dipendenza e di classe tra donne con una diversa collocazione (la lavoratrice e chi le dà il lavoro)” (Barazzetti 2007 p.147). Questo aspetto quindi rivela il carattere fondamentale, quello che si tratta esclusivamente di “un affare tra donne” sempre e comunque. Alcune autrici sostengono che è possibile suddividere i ruoli tradizionalmente attribuiti alle donne: la datrice di lavoro come unica depositaria dei compiti di organizzazione, coordinamento e controllo, e la collaboratrice domestica come “mera” esecutrice di compiti tecnici e materiali. Tutto ciò sottintende una svalorizzazione del lavoro di queste donne ed il fatto di essere solo il prolungamento tecnico esecutivo, del suo essere madre e moglie, sollecita, figlia attenta, efficiente donna di casa. Attraverso l’analisi del lavoro di cura in
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generale, vengono messe in discussione i significati “e le forme della cura, ridisegnando i confini tra dimensione privata e pubblica, producono nuove disparità, entrano nell’orizzonte della globalizzazione e dei rapporti di potere tra i paesi ricchi ed i pesi poveri, ma non sembrano spostare significativamente, almeno in certi contesti, il fatto