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Donne tradizionali o moderne? Elaborazioni teoriche

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 38-42)

Gli studi e le ricerche che sono state condotte sulle donne nelle migrazioni hanno risentito di approcci dicotomici ed evoluzionisti. Nel momento in cui si inizia a studiare il fenomeno migratorio non viene considerata la presenza delle donne, si parla infatti di gender blind, per designare la cecità rispetto alla presenza femminile nel fenomeno migratorio. Parlare di gender blind ci fa pensare che non sono le donne ad essere effettivamente assenti nel processo migratorio, ma che siano state, piuttosto, le ricerche e gli studi a non considerarle come centrali, a renderle invisibili.

Dagli anni settanta in poi la donna inizia ad essere tematizzata, ma è opinione diffusa che le ricerche portate avanti abbiano contribuito alla loro stereotipizzazione. Dietro a tale stereotipizzazione ritroviamo in primo luogo, un approccio di tipo evoluzionista, che si concentra sulla dicotomia tradizione e modernità. La dicotomia tradizione/modernità in un approccio di tipo evoluzionista ci riporta al dibattito sulla subalternità ed emancipazione, nonché alle molteplici definizioni di integrazione o acculturazione.

La donna migrante rimane bloccata in una visione assimilazionista, rinchiusa pertanto nella gabbia della tradizione e da liberare necessariamente. Tale approccio, che valorizza l’integrazione rispetto al modello nord americano, prima, ed europeo, poi, ha fatto sì che si creasse un modello di donna migrante passiva ed arretrata, pronta ad essere plasmata dagli stili di vita e dai ritmi della società di accoglienza. Negli Stati Uniti le ricerche sulle donne migranti erano concentrate su una visione della donna passiva, subordinata alle tradizioni della società di origine, la cui libertà poteva essere raggiunta solo attraverso un processo di americanizzazione. Fatema Mernissi parla di bipolarità tra tradizione e modernità, ben presente nella vita delle donne: la bipolarità, ci suggerisce, non deve essere dicotomica ma dialettica, nella consapevolezza che le donne “possono usare elementi della tradizione, combinare valori e pratiche culturali”(Campani 2000, p.27).

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Il meccanicismo con cui si collocano le donne nella tradizione come subalterne e nella modernità come emancipate è presente nel dibattito fino al momento in cui gli studi post coloniali ed il movimento delle new etnicity non hanno fatto cambiare le prospettive di osservazione e di analisi. La nuova etnicità ha messo in discussione il modello assimilazionista e l’americanizzazione come strumento di integrazione ed emancipazione, spostando l’attenzione sulle discriminazioni reali dei migranti nelle società di accoglienza. Si sviluppa, altresì, una nuova attenzione del movimento femminista, che inizia a porre in relazione la costruzione delle disuguaglianze sociali con il genere e la provenienza, e quindi con la classe sociale.

Il dibattito creato all’interno del movimento femminista mette in discussione la generabilità e trasversalità del concetto di genere, che risponde ad una visione occidentale della condizione delle donne. Michèle Barret e Mary Mcintosh (1985), due tra le più importanti esponenti del femminismo socialista, in uno dei loro saggi si concentrano sul dibattito relativo all’etnocentrismo. Il dibattito, infatti, è stato sempre portato avanti da donne “bianche appartenenti alla borghesia”, con una base politica e culturale nettamente privilegiata, in base alla quale “le femministe bianche hanno trovato più semplice dare supporto alle sorelle nere nelle loro compagne che il dover esaminare le proprie prassi” (Barret, McIntosh, 1985).

Le autrici parlano di tendenza alla negazione del problema o a “far diventare invisibile” tutto quello che non è richiudibile nel nostro universo di senso. Tale atteggiamento, che nasconde la paura stessa del mettersi in discussione, è assumibile come base per il disinteresse verso situazioni che, proprio perché lontane, non sono problematizzate: tutto ciò viene definito dalle due autrici come etnocentrismo bianco.

Il black femminism mette in discussione il concetto di sorellanza che aveva fino a quel momento guidato l’elaborazione culturale e la proposta politica, denunciando un latente razzismo nell’analisi delle pratiche e delle teorie. Questa riflessione ha portato alla consapevolezza del rapporto tra razzismo e sessimo, ed alla comprensione della necessità di ampliare l’analisi mettendo in relazione il genere, la classe e l’etnia.

Mentre le ricerche statunitensi mettono per prime a tema la presenza delle donne, in Europa ciò avviene solo in una fase attuale. Questo a causa di diversi fattori come lo sviluppo degli studi e teorie di genere, la stabilizzazione delle popolazioni immigrate, il cambiamento del profilo delle migrazioni internazionali.

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Tra i cambiamenti più importanti quello su cui si intende porre l’attenzione è la femminilizzazione dei flussi, con cui intendiamo un ruolo crescente delle donne in tutte le regioni ed in tutte le migrazioni. Ciò vale a dire che non si prende in considerazione solo l’aspetto quantitativo del fenomeno, ma anche quello qualitativo, in relazione, ad esempio, alle esperienze delle donne primo migranti, ed alla crescente offerta di lavoro per le donne. Le prime conferenze che metteranno a tema la questione delle donne nelle migrazioni si avranno alla fine degli anni ottanta. In particolare nel 1988, la Conferenza dell’Unesco che ha come argomento centrale le migrazioni femminili, è il momento in cui si esce ufficialmente dalla invisibilità.

Facendo un exursus degli studi europei sulle migrazioni si inizia a parlare di donne negli anni settanta a causa dell’aumento delle donne per ricongiungimento familiare. In generale si afferma che nonostante la presenza, le donne nelle migrazioni siano state invisibili (Morokvasic 2008): nella ricerca sociale è la ricerca sul campo che permette di cambiare prospettiva.

Le statistiche senza distribuzione di genere, la concentrazione solo sull’ambito del lavoro non creano una base conoscitiva delle esperienze delle donne. In Francia, ci suggerisce Mirjana Morokvasic la letteratura ha oscillato tra l’ esclusione delle donne dalle migrazioni e lo stigma della donna isolata, inattiva ed analfabeta. Secondo l’autrice, l’ “ingresso” di queste tematiche negli studi e ricerche è dovuto a tre principali cambiamenti: il primo è, appunto, l’attenzione del movimento femminista sui rapporti di genere come frutto della combinazione di più forme di dominio; il secondo è la scoperta ed il riconoscimento del ruolo economico delle donne.

Si inizia a parlare delle attività informali e complementari delle donne nella sfera produttiva, ma, soprattutto, si avviano i processi di ridefinizione e riconcettualizzazione del lavoro. In terzo luogo, in seguito al cambiamento degli anni settanta nei flussi migratori viene meno l’idea della migrazione come frutto della richiesta di manodopera, e l’attenzione si sposta sui problemi sociali, sull’integrazione nelle società di accoglienza. È in questa fase che le donne diventano centrali, in quanto le logiche si giocano sulla vita e sul corpo delle donne. Tutto ciò diventa visibile quando le donne prendono la parola. Lo stereotipo si scontra con la vita quotidiana, le esperienze, le storie, le attività di queste donne. Le donne emergono nel movimento contro le

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discriminazioni ed il razzismo istituzionalizzato: in Francia nel Collectif des femmes immigrées, in Inghilterra le donne provenienti dal subcontinente indiano si organizzano mettendo in atto importanti scioperi, in Svizzera si ha un importante incontro su questi temi durante il quale viene elaborato un manifesto sul ruolo delle donne nella sfera pubblica. I primi approcci negli studi e ricerche seguono due correnti: da una parte il modello della proletarizzazione e del passaggio dal rurale all’urbano, dall’altro il passaggio culturale e sociale dalla tradizione alla modernità.

Le analisi si concentrano sul ruolo delle donne in quanto madri e spose, riportandole nella sfera della tradizione, senza considerare i mutamenti interni alle società di partenza oltre ai percorsi individuali.

Negli studi degli anni settanta ritroviamo gli stessi nodi teorici sulla via della liberazione occidentale, orientate come si è detto per le ricerche statunitensi, ad un modello eurocentrico.

La critica alla dicotomia tradizione/modernità ed all’approccio evoluzionista eurocentrico corrisponde al cambiamento dei fenomeni economici e sociali tra i quali la stabilizzazione delle comunità dei migranti nei paesi europei, che, di fatto, ha costretto alla conoscenza delle diversità dei paesi di origine e ai mutamenti sociali, che al loro interno non possono più essere ricondotte alla categoria di tradizione.

Per esempio, il femminismo critico pone l’accento sull’imperativo dell’emancipazione come conseguenza dell’indipendenza economica e, quindi, del tutto concentrata all’inserimento nel mercato del lavoro, senza considerare i meccanismi di compartecipazione nell’economia familiare che può assumere forme diverse. In generale facciamo nostro il monito di Brah nell’invito alla riflessione sulla creazione della categorie essenzialiste di femminismo bianco o nero, suggerendo di considerarli come “campi di contestazione, iscritti in processi discorsivi e materiali in un terreno post coloniale” ( Brah in Campani 2000, p.88).

È così che la prassi dell’incontro diventa lotta contro l’oppressione e la discriminazione, che accomuna e non divide.

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Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 38-42)