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Le “colf” straniere

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 32-36)

4. Le migrazioni in Italia: una lettura di genere

4.2 Le “colf” straniere

Al contrario di quanto viene ribadito dell’assenza delle donne nelle migrazioni, l’Italia rappresenta un caso particolare. Negli anni cinquanta, la prima immigrazione in Italia è quella femminile ed è legata alla richiesta di manodopera nel settore domestico. È necessario riportare una distinzione in base alla nazione di partenza, poiché in alcuni periodi si ha una maggiore presenza di una nazionalità rispetto ad un’altra, pur essendo presenti contemporaneamente. Le prime donne che arrivano in Italia sono donne sole, provenienti da Capo Verde, sono giovani ed hanno un basso livello culturale. La scelta dell’Italia è agevolata dalla presenza dei frati cappuccini nell’isola di san Nicolau, che hanno da sempre assunto il ruolo di mediazione.

La Chiesa Cattolica ha offerto la possibilità di avere un canale di ingresso regolare per molti anni. L’apertura del lavoro domestico, la possibilità di coltivare relazioni con le famiglie italiane e i rapporti con le comunità straniere nei paesi di origine, attraverso le congregazioni e le missioni, hanno reso la Chiesa Cattolica vettore dei flussi migratori. La collocazione delle prime lavoratrici domestiche è prevalentemente presso le famiglie del ceto medio-alto urbano, nelle cui abitazioni risiedono con serie limitazioni anche delle libertà personali, riproducendo un modello di lavoro servile( Pugliese 2002). Nel caso delle donne capoverdiane a partire sono soprattutto donne sole, le quali arrivano in un contesto del tutto sconosciuto. Lasciano a casa i compagni ed a volte anche i figli, non conoscono assolutamente la lingua italiana.

Vivono situazioni difficili, mancanza di comprensione ed un notevole cambiamento nella costruzione di una identità lavorativa. Vivendo con le famiglie, le donne capoverdiane devono acquisire un ritmo diverso rispetto a quello dettato dalle leggi della natura – si ricorda che nel paese di origine il settore lavorativo prevalente è quello dell’agricoltura – devono rapportarsi all’utilizzo degli elettrodomestici e non hanno

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spazi propri da condividere con i parenti. Quindi, come si vedrà in seguito, cambia anche il concetto di spazio privato che condiviso con la sfera del lavoro, con la famiglia ed i datori di lavoro risulta alla fine inesistente.

Le donne filippine rappresentano ancora oggi, la maggioranza degli ingressi per lavoro domestico. Sono donne che, al contrario delle capoverdiane, hanno un percorso formativo, conoscono le lingue. Alle spalle hanno famiglie di origine e comunità, la scelta della partenza è infatti comunitaria, ed il viaggio viene spesso pagato attraverso l’autotassazione dei parenti e degli amici. La situazione delle donne filippine in Italia ha suscitato molto interesse anche nelle ricerche sociali. Ne è esempio il lavoro di Graziella Favaro e Critistina Omenetto(1993). Le autrici individuano una periodizzazione dell’arrivo delle donne filippine in Italia.

Una prima fase, dal 1976 al 1982, in cui è predominante la partenza delle singole donne con contratto di lavoro in Italia; una seconda, dal 1983 al 1989, in cui la partenza delle donne è accompagnata da quella degli uomini che diventano manodopera irregolare. Questa seconda fase ha come fattore scatenante il peggioramento delle situazioni nel paese di partenza e quindi la necessità di avere un guadagno spinge gli uomini a partire; in questo caso le donne già in Italia diventano punto di riferimento ed iniziano ad avere la funzione di mediatori tra l’offerta e la domanda di lavoro.

La terza fase, individuata dalle autrice negli anni novanta, è caratterizzata dalla diminuzione degli arrivi delle donne filippine con un forte aumento dell’arrivo attraverso chiamata diretta per lavoro. Un ulteriore elemento che viene sottolineato è il cambiamento del progetto migratorio. Nella prima fase le donne erano mandate in Italia per ottenere un guadagno di tipo economico che potesse creare vantaggio alla donna ed alle comunità rimaste nei paesi di partenza. Si ricorda, infatti, che le Filippine sono tra i paesi che hanno incentivato la partenza delle donne grazie al valore aggiunto dalle rimesse nell’economia nazionale. In seguito, però, le condizioni a livello nazionale non hanno consentito il ritorno e, pertanto, la migrazione perde il suo carattere temporaneo per diventare di lungo periodo ed a volte definitiva. Con l’arrivo degli uomini si iniziano ad avere le prime famiglie, e, quindi, nuove situazioni da gestire sia a livello macro che micro sociale.

Graziella Favaro e Critistina Omenetto (1993) parlano ancora dell’aumento della nostalgia e del desiderio di rompere l’isolamento da parte di queste donne, sentimenti

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che hanno motivato il trasferimento in grandi città e la necessità di riunirsi in associazioni. In questo ambito, si colloca la ricerca di Parrenas (2001) che si sviluppa intorno a due variabili principali: la prima è quella delle famiglie transnazionali, la seconda il rapporto tra datrice di lavoro e lavoratrice domestica.

Nel caso delle famiglie transnazionali l’autrice ne analizza la struttura, i sistemi valoriali, il cambiamento dei ruoli di genere al suo interno, l’adattamento e la rielaborazione. Le donne filippine rappresentano “le serve della globalizzazione in una sorta di divisione internazionale del lavoro sporco”(Parrenas in Ehrenreich- Hochschild 2003 p. 45-58). Poiché hanno un alto livello di formazione per loro la migrazione rappresenta percorsi discendenti di mobilità sociale.

Per quanto riguarda le famiglie transnazionali, l’autrice conclude: “La penetrazione del modello capitalistico nell’intimità della vita familiare fa sì che il perseguimento del benessere economico per la famiglia venga collocato al di sopra del soddisfacimento dei bisogni emotivi dei suoi membri. (…) il tempo trascorso con i figli è meno importante del fatto di poter procurare loro denaro” (Parrenas in Ehrenreich- Hochschild 2003 p. 45-58). La diaspora filippina ha coinvolto a livello globale 130 paesi, e le donne sono diventate di fatto l’unione tra il paese di origine e quelli di destinazione: la trama di relazioni che ne scaturisce non dà vita ad una comunità transnazionale, ma ad una vera e propria comunità globale.

Diversa è la situazione delle donne provenienti dall’America Latina. Un ricerca molto interessante che ha avuto come oggetto le migrazioni delle donne latinoamericane è quella condotta da Maria Eugenia Quiroza (1991), che incentivata dall’avere la stessa origine, frequenta per 4 anni un luogo di incontro di queste donne nella città di Roma. Attraverso l’osservazione e la partecipazione, l’autrice ha potuto mettere in evidenza aspettative e delusioni nella società italiana, ha potuto conoscere situazioni che le hanno permesso di trarre importanti conclusioni. Tra le motivazioni della partenza viene riconosciuta una situazione di sottomissione, una richiesta di adempiere ruoli stereotipati e di sottomissione. Il desiderio di liberarsi da questa immagine spinge le donne a scegliere di partire.

Accanto a ciò, l’autrice ritrova situazioni di estrema povertà nel paese di partenza, storie di infanzia difficile ed, a volte, traumatica in cui la figura del padre risultava assente o negativamente influenzante. Le donne provengono quasi tutte da un contesto rurale, per

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cui le motivazioni si rintracciano sia nell’ambito del guadagno economico ma anche, come sottolinea l’autrice, nella ricerca di una illusoria e personale situazione (Quiroza in Macioti 1991). Le donne che provengono dall’America Latina sono anch’esse impiegate nel lavoro domestico e, parlando la lingua spagnola, sono meglio accettate dalle famiglie, le quali riescono a comunicare più facilmente. In più, un ruolo fondamentale nella richiesta di donne provenienti dall’America Latina e che facilita i percorsi di integrazione, viene giocato dalla religione. Come le donne Filippine, l’essere cattoliche continua a rappresentare una garanzia per l’accoglienza di queste donne. Le donne che provengono dall’Eritrea hanno un percorso del tutto differente. Innanzitutto la motivazione alla partenza è data dalle situazioni di guerra e dai conflitti che hanno caratterizzato la politica a partire dal periodo coloniale. Proprio in questo legame creato dal breve periodo coloniale, secondo Graziella Favaro e Mara Tognetti Bordogna (1991), si può rintracciare la motivazione per la scelta dell’Italia come paese di destinazione. Oltre alla conoscenza della lingua italiana, le donne eritree riconoscono un legame particolare tra i due paesi, valorizzando la dimensione “di un passato e di una cultura comune”.

Conoscendo e parlando la lingua italiana, le donne eritree possono dar voce alle proprie aspettative, possono svelare illusioni ed inganni. La scelta della partenza è in primo luogo fatta per sfuggire alla guerra e la speranza è sempre quella del ritorno. Il mancato miglioramento della situazione nel paese di partenza impedisce il rientro e quindi, riportano le autrici, “il problema più drammatico e centrale è diventato e diventa in misura maggiore quello della scelta tra continuare ad alimentare il desiderio del ritorno o perseguire un progetto di stabilizzazione” (Favaro, Tognetti Bordogna 1991 p. 79). 4.3 Le spose dal Maghreb

Le donne che rientrano in questa tipologia sono caratterizzate dall’arrivo per il ricongiungimento familiare e sono prevalentemente le donne che provengono dalla regione del Maghreb (si intendono soprattutto Algeria, Tunisia e Marocco). Le donne raggiungono i mariti, lavoratori presenti da tempo in Italia, e, difficilmente, almeno nella prima fase, entrano nel mercato del lavoro. Le spose che provengono dal Maghreb vivono soprattutto la sfera privata e sono poco presenti del dibattito pubblico. Questo ha incentivato la costruzione del pregiudizio in base al quale la donna marocchina o tunisina, identificata come donna musulmana, debba essere vittima, oppressa e non

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attiva. In generale, si può affermare che la peculiarità della migrazione maghrebina è data dalla rappresentazione della donna come realmente altra, incarnando l’opposizione tra tradizione e modernità.

Molto spesso, data anche l’assenza di spazi condivisi, viene meno l’incontro tra donne italiane e donne maghrebine, e ciò non aiuta alla conoscenza e quindi alla decostruzione di stereotipi e pregiudizi. La lettura della presenza di queste donne ha seguito due principali approcci; il primo ha a che fare con l’appartenenza comunitaria. Le donne sono viste, come ci suggerisce Ruba Salih (2000), come appartenenti ad una comunità omogenea ed immutabile.

Un secondo approccio sostituisce il concetto di comunità con quello di diaspora, focalizzandosi sulle esperienze dette “ibride” tra la cultura di partenza e quelle di accoglienza. Sono due esperienze migratorie diverse: la prima riporta “la vecchia casa in un posto nuovo”, la seconda è soprattutto esperienza della separazione, del “vivere qui pensando e desiderando un altrove”. È necessario, ci ricorda l’autrice, riflettere su entrambe le prospettive per fornire una comprensione della complessa ed eterogenea natura della negoziazione della loro identità nell’esperienza migratoria.

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 32-36)