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Genere, etnia e classe: l’approccio interiezionale

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 42-53)

“Poter indicare il cammino a tutte le altre, attraverso la dimensione liberatoria del viaggio”. (Campani 2000, p.38) L’approccio che sembra oggi quello più pertinente alla lettura delle esperienze delle donne migranti è quello detto intersezionale, che pone la costruzione sociale delle differenze di genere, di etnia e classe sociale come prisma attraverso cui osservare percorsi e comportamenti. Per articolare le variabili di genere, etnia e classi Giovanna Campani suggerisce di considerare le donne “contemporaneamente come componente femminile della migrazione e come componente migrante dell’universo femminile”(Campani 2000 p. 38). Considerare le donne come componente femminile delle migrazioni porta a riflettere sui temi centrali delle condizioni delle donne come la costruzione sociale del genere, la doppia presenza, le discriminazioni; considerarle, invece, come componente migrante dell’universo femminile significa la possibilità di “poter indicare il cammino a tutte le altre, attraverso la dimensione liberatoria del viaggio”( Campani 2000, p 38). Pensare il genere, la razza e la classe significa pensare storicamente il potere e lo sfruttamento economico, le strutture delle disuguaglianze di potere e le disuguaglianze nella distribuzione delle risorse. Situare la conoscenza quindi ha a che fare con la produzione di un discorso dominante e, nel caso della ricerca, col tipo di domanda che viene formulata all’inizio e che, quindi, ha come conseguenza un tipo di riflessione diversa. Poiret porta il seguente esempio: c’è una differenza nel chiedere “perché le donne guadagnano meno?” oppure “perché gli uomini guadagnano di più?”( Poiret 2005).

Le relazioni tra le variabili della differenza iniziano ad essere messe a tema in Gran Bretagna, ed in particolare da Floya Anthias e Nira Yuval Davis (1992), le quali in una ricerca sulle donne migranti mettono in relazione la differenza di classe con il genere e l’etnicità. Le autrici sottolineano l’impossibilità di considerare le tre differenze come cumulatorie, in base alle quali le situazioni delle donne migranti diventerebbero la sommatoria di tre forme di oppressione, in base al genere, in base alla classe sociale ed in base all’etnia. L’introduzione di un concetto più dinamico per cui si parla di articolazione delle differenze e non di sommatoria permette di analizzare sia il cambiamento dei ruoli all’interno del gruppo di appartenenza, sia le nuove forme di

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relazione tra le donne migranti e le donne nel paese di accoglienza, sia da un punto di vista ideologico che economico.

Christian Poiret (2005) si sofferma sul dibattito francese riprendendo il presupposto che non ci sia una somma della triade, ma che ci sia un attenzione alle situazioni che le attraversano. In particolare, il dibattito si sviluppa nell’ambito del lavoro e nella prima fase di queste ricerche sulla posizione dei migranti nella classe operaia, per poi soffermarsi sulla discriminazione e sul razzismo sul posto di lavoro. Ma la visibilità delle donne nelle migrazioni permette di mettere a fuoco l’argomento attraverso due macro tematiche: quella delle donne nelle migrazioni che sono in forte aumento negli ultimi anni e la visibilità nella sfera pubblica per i giovani figli di migranti e le questioni che ruotano intorno al concetto di laicità (Poiret 2005). Il punto centrale è quello di riconoscere le donne ma anche i membri di comunità etniche come agenti storici con un punto di vista particolare sul sociale, radicati in una esperienza specifica di vita quotidiana (Poiret 2005).

La nozione di intersezionalità descrive processi micro sociologici, per sapere come ogni individuo e ogni gruppo possa occupare una posizione sociale all’interno delle strutture interconnesse che modellano congiuntamente l’oppressione. Il postulato di partenza è che le diverse forme di dominazione non siano separate o addizionali, ma che, al contrario, siano interattive nel processo, nelle conseguenze e negli effetti. Questo tipo di approccio può essere ampliato, Collins ci suggerisce di aggiungere anche altre variabili come la nazionalità, l’età, l’orientamento sessuale, la religione. Questo permette di rendersi conto che le stesse persone possano allo stesso tempo essere oppressori ed oppressi, privilegiati e penalizzati.

Da un punto di vista metodologico, può avvenire l’esasperazione di un punto di vista e quindi una troppa concentrazione sulle singole esperienze. È per questo che questo tipo di analisi deve essere inquadrata in un contesto più grande, prendendo in considerazione i rapporti sociali che inquadrano le interazioni e ne danno loro senso. E,’ altresì, importante inserire il punto di vista dei gruppi dominanti, con l’obiettivo di creare un’alternativa e per comprendere meglio i contesti considerati. Non è quindi solo necessario conoscere le singole esperienze ma i processi che li creano e come questi

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processi sono tra loro connessi e come possano influire nella vita quotidiana delle persone.

Un primo lavoro a cui si fa riferimento nell’ambito dell’approccio intersezionale è quello di Philomena Essed, Understanding Everyday racism (1991), nel quale introduce il concetto di razzismo quotidiano attraverso i racconti delle donne vittime di razzismo. L’autrice mette in relazione la differenza di classe con quelle di genere ed etnia, legando quindi le singole esperienze ai processi generali di razzismo, di sessimo e di classismo. Legando l’individuo alle strutture sociali vengono comparate le diverse interpretazioni delle donne per cercare delle convergenze, delle regolarità che siano connesse ai micro eventi con l’obiettivo di indurre dei processi strutturanti.

Il termine intersezionalità è stato introdotto da Kimberlé Crenshaw (1991) a partire dalla elaborazione teorica sulla situazione delle donne nere con una occupazione di tipo impiegatizio. In generale il concetto denota il modo in cui i soggetti sono posizionati simultaneamente all’interno della società e nelle sue gerarchie di potere. Il concetto è poi stato ripreso da diverse organizzazioni non governative, riflessione che è poi stata esplicitata nel 2002. La risoluzione E/CN.4/2002/L.59 della Commissione delle Nazioni Unite per i Diritti Umani in riconosce “l’importanza di esaminare le intersezioni delle multiple forme di discriminazione, considerando le loro profonde cause da una prospettiva di genere”.

Dal punto di vista del dibattito all’interno del movimento femminista tale considerazione viene fatta da bell hooks, la quale non trova una comune situazione di oppressione che possa determinare la sorellanza. Al contrario, le differenze di razza e classe causano diversi modi di vivere e diversi status che si ritrovano nell’esperienza che le donne possono condividere. Quello che interessa sottolineare all’interno di questa ricerca è il cambiamento di prospettiva, che si basa sulla messa a tema delle esperienze minoritarie: un approccio anti essenzialista delle categorie dell’alterità che permette di mettere l’accento sulla natura combinata delle diverse forme di oppressione. All’interno del dibattito femminista questi aspetti hanno assunto notevole importanza, sia perché da un lato era stata messa a tema la questione dei rapporti di dominio e dell’oppressione, sia perché non viene più considerato il genere come categoria isolata. In questa prospettiva, le donne afro americane non sono considerate in logica di

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addizione o sottrazione rispetto al referente bianco: non possono essere più considerate come donne bianche con più il colore o ancora degli uomini con in più il genere. Per comprendere la situazione e le esperienze è quindi necessario combinare le differenze di genere, etnia e classe sociale, concentrandosi su quella che Patricia Hill Collins (2000) chiama matrice della dominazione. In base a ciò, vi è la concezione che gli assi dell’oppressione sessista e razzista non sono separati ma “instricamente interconnessi” e che, di conseguenza, le identità razziali sono esperite in una prospettiva di genere e che le identità di genere sono esperite in maniera razziale.

Come è evidente, l’approccio intersezionale nasce in un milieu militante ed è all’interno di esso che le conseguenze risultano più evidenti. A livello politico Crenshaw suggerisce che l’approccio permette di costruire la base per riconcettualizzare la razza come “coalizione di donne e uomini di colore” (Crenshaw, 1991). Utilizzare l’approccio in seno al movimento significa considerare le differenzazioni che attraversano le organizzazioni identitarie e di poter negoziare le forme di espressione all’interno delle coalizioni politiche. L’approccio intersezionale può essere considerato come una teoria per l’analisi dell’interazione tra categorie sociali e culturali. La parola intersezione significa che una linea passa attraverso un’altra linea e può essere usata immaginando le strade che si incrociano a vicenda. Nel linguaggio matematico, ricorrendo all’insiemistica, l’intersezione è l’insieme che ha come elementi gli elementi comuni a due insiemi dati. In tal senso, l’intersezione è quella parte di insieme che accomuna gli elementi della costruzione della differenza in base al genere, all’etnia ed alla classe. Tale approccio coniuga i due diversi modi in cui a livello globale si è sviluppato lo stesso movimento femminista. Il femminismo degli Usa ha da sempre messo insieme le istanze delle donne e quelli dei neri (gender and race); il femminismo europeo invece, ha portato avanti il legame tra il genere e la divisione in classi sociali.

Con i cambiamenti e le trasformazioni dei flussi migratori, il femminismo europeo ha necessariamente dovuto mettere in discussione i proprio approcci teorici e l’esperienza della donna migrante ha inserito nelle istanze del genere e della classe anche quelle della razza o etnia. Questo tipo di approccio permette di comprendere i complessi legami tra la struttura di classe, l’appartenenza etnico-razziale e le relazioni di genere all’interno della struttura dominati- dominanti. La teorizzazione della discriminazione

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tripla viene messa in discussione a partire dalla diversità e non riducibilità delle presunte basi ontologiche della divisioni sociali. Questo nuovo tipo di approccio evidenzia come nelle concrete esperienze di oppressione, la discriminazione non è unidimensionale, ma inserita in altre divisioni sociali. La costruzione del discorso pubblico tende egemonicamente a rendere invisibili le esperienze dei membri più marginali all’interno delle categorie, costruendo un unico ed omogeneo modo di vedere e conoscere la differenza.

Durante gli anni settanta il dibattito sull’intersezionalità diventa politico e, nel 1977, questa visibilità politica viene sancita nel Manifesto del Collettivo Combahee River. Nel manifesto le donne sottolineano l’intento politico nell’impegno nella battaglia contro le oppressioni sessuali, razziali e classiste, individuando il preciso compito di “analisi integrate e di pratiche basate sul fatto che i principali sistemi di oppressioni sono tra loro interconnessi”(Manifesto del collettivo Combahee River 2009). Analizzando la situazione delle donne dichiarano che “la politica dei sessi nel patriarcato sia tanto pervasiva nella vita delle donne nere quanto lo sono la razza e la classe” e che il fatto di sperimentarle quotidianamente e contemporaneamente non permetta di distinguerle e di metterle a tema nella lotta politica. Negli anni ottanta si ha l’ampliamento del dibattito e l’opera più importante viene pubblicata nel 1982, All the women are white, all the black are men, but some of us are brave. Si tratta di una antologia in cui le autrici3 denunciano l’invisibilità nelle pratiche e nei discorsi del femminismo bianco delle esperienze delle donne nere. Nello stesso anno Hazel Carby pubblica White woman listen!, denunciando lo stereotipo che le donne bianche hanno avuto nei confronti delle donne nere, sempre costruendo l’immagine contrapposta alla donna emancipata ed è qui che viene messo in discussione il concetto di sorellanza fra tutte le donne del mondo.

In Europa in questi anni il dibattito si concentra in Francia all’interno del femminismo materialista francese. Daniéle Kergoat propone il concetto di consubstantialité per analizzare l’articolazione dei rapporti sociali. Negli anni novanta si aggiunge la riflessione da parte delle donne vissute nelle ex colonie e il dibattito entra nelle accademie e nei centri di elaborazione dei post cultural studies e del femminismo post

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coloniale. Quest’ultimo in generale, denuncia come il colonialismo “abbia lavorato sulle categorie di genere, etnia e classe per assicurarsi il suo potere e come l’eredità dell’ideologia colonialista sia intatta in alcune sezioni del femminismo occidentale” (Manifesto del collettivo Combahee River 2009, p. 63).

Come hanno sostenuto Nira Yuval- Davis e Floya Anthias (1992) la letteratura femminista sulla riproduzione ha trascurato di considerare la riproduzione delle categorie nazionali, etniche e razziali. L’immagine della nazione come donna e il simbolo della madre nei movimenti anticoloniali e nazionalisti è stato da sempre centrale. Sotto il dominio coloniale, l’immagine della donna serviva a rappresentare sia il potere della donna che la sua debolezza: la donna che protegge e la donna che viene minacciata. Alle donne, che venivano considerate come madri della nazione, veniva attribuita una identità limitata. Le donne diventano lo spazio simbolico (Loomba, 2000, p. 216) nonché bersagli nei discorsi colonialisti e nazionalisti.

Nel 2001, Crenshaw definisce l’intersezionalità come la situazione di una donna attraversa una città passando per diverse strade che incrociano il suo cammino: “Intersectionality is what occurs when a woman from a minority group . . .tries to navigate the main crossing in the city. . . . The main highway is ‘racism road’. One cross street can be Colonialism, then Patriarchy Street. . . .She has to deal not only with one form of oppression but with all forms, those named as road signs, which link together to make a double, a triple,multiple, a many layered blanket of oppression.” (Crenshaw 2001 in Yuval-Davis 2006 p. 196).

Nel 2001, il Center for Women’s Global Leadership, enfatizza la necessità di considerare le interazioni dei diversi tipi di disuguaglianza nell’analisi della marginalità e del disempowerment: “È il modo in cui il razzismo, il patriarcato, la classe e altre discriminazioni creano sistemi di disuguaglianza, che struttura le relative posizioni delle donne, delle classi, delle etnie, e altre. In più l’intersezionalità indica la strada secondo cui specifiche azioni e policy possano operare insieme per creare un futuro empowerment”. Recentemente, parlare di intersezionalità è sempre più legato all’identità; in questo senso l’approccio meglio strutturato è quello di Essed, che sottolinea l’importanza dell’analisi del contesto e della storia: “racisms and genderisms are rooted in specific histories designating separate as well as mutually interwoven

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formations of race, ethnicity and gender” (Essed, 2001:in Yuval-Davis 2006 p.197). Crenshaw suggerisce di dividere il concetto di intersezionalità in strutturale e politica. Per spiegare tale divisione concettuale, usa il fenomeno della violenza domestica contro una donna di colore. Intende quindi per intersezionalità strutturale il modo in cui l’essere una donna di colore nell’intersezione della razza e del genere, contribuisce a considerare la sua attuale esperienza di violenza domestica diversa da quella di una donna bianca; l’intersezionalità politica fa riferimento al tandem delle politiche femministe e antirazziali in funzione del problema della violenza sulle donne di colore. Nel 2005 durante il convegno internazionale dal titolo le genre au croisement d’autres rapports de poivoir viene messo in luce che “la molteplicità e l’intersezione dei rapporti di potere modulano profondamente la dominazione di genere.

Così il rapporto di genere non può essere appreso in maniera isolata, ma richiede invece lo sviluppo di strumenti di analisi critici per cogliere l’incrociarsi dei rapporti di dominazione, condizione materiale della loro riproduzione” (Manifesto del Collettivo Combahee River, 2009 p. 67).

Nira Yuval-Davis (2006) propone un excursus sulla costruzione delle divisioni sociali. Una prima definizione fa riferimento agli assi macro del potere ed alla vita concreta delle persone. In particolare si considerano le diverse forme organizzative, intersoggettive, esperienziali e in cui la divisione si consolida. La divisione sociale è, secondo un’ ulteriore definizione, il modo in cui le persone quotidianamente vivono le esperienze di inclusione/esclusione, discriminazione e svantaggio, aspirazioni ed identità. Nelle diverse situazioni e contesti, i legami e i posizionamenti in termini di classe, razza, etnia, genere, abilità, fase nel ciclo della vita, creano un sistema gerarchico e conseguente differente accesso alle risorse. Nira Yuval-Davis, pone due interrogativi, il primo è che ci sono dei contesti e periodi in cui alcune divisioni sociali sono più forti di altre, il secondo che il soggetto costruisce e decostruisce i significati. La valenza politica della costruzione delle divisioni, parte dalla considerazione che la costruzione di confini è un processo legato alla diversa distribuzione di potere, alla creazione di rapporti asimmetrici in base ai quali si rendono marginali soggetti altri. Il punto centrale della intersezionalità non è di unificare molte identità sotto una unica definizione, ma riscrivere e decostruire un modello di oppressione additivo. Questo significa analizzare i diversi modi in cui le diverse divisioni sociali sono concretamente

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intessute e costruite, e mettere in relazione tali divisioni con la costruzione politica e soggettiva delle identità.

Nel contesto francese la costruzione politica e soggettiva delle identità viene problematizzata in seguito a due grandi accadimenti. Il primo introdotto dalla legge nel 2004, conosciuta come legge sulla laicità, che vieta l’ostentazione dei simboli religiosi nelle istituzioni pubbliche, il secondo la rivolta nelle banlieues. In questa situazione il dibattito si concentra sull’oppressione razzista e classista e “sul peso del passato coloniale nell’attuale società francese e delle strategie di resistenza al sessismo ed al razzismo messe a punto dalle giovani francesi discendenti dalle colonie, (…) che fa emergere da una parte l’articolazione tra l’oppressione razzista e dall’altra la necessità di una lotta femminista che sia insieme antisessista ed antirazzista” (Manifesto del Collettivo Combahee River, 2009, p. 68).

Nell’anno accademico 2005-2006, nella rivista Sexe et Race: discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle che, lungo i due ultimi decenni, ha riprodotto il lavoro svolto nel seminario che le dà nome, tenuto all’università di Paris 7– Denis Diderot, vengono analizzati i discorsi e le forme di esclusione ed emarginazione che si sono sviluppate negli ultimi due secoli nelle società europee, per “esplorare ed esplicitare i rapporti, complessi e mobili, tra le rappresentazioni della differenza dei sessi e quelle delle differenze o gerarchie etniche (di ‘razza’), così come la loro funzione nella costruzione dei discorsi e delle modalità nuove (o classiche) di dominazione ed esclusione”, evitando “le impasse dell’amalgama, della confusione, o della semplice giustapposizione”.

Il merito principale di Sexe et Race è precisamente quello di aver saputo porre e di continuare a porre queste questioni, talvolta così scomode per la storia delle nostre società, ma così fondamentali per cercare di comprenderne il funzionamento passato e presente. Diversa è la situazione italiana ed in particolare del movimento femminista italiano. Nel ricostruirne la storia e nel rintracciare le modalità di approccio intersezionale, le autrici come Vincenza Perilli e Elsa Dorlin (2005) individuano nell’egemonia del concetto di differenza e nella cancellazione del passato razzista italiano, le cause della mancata tematizzazione delle differenze di genere, etnia e classe. È solo con la nascita del movimento associativo tra donne italiane e donne migranti che

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si iniziano a mettere insieme le riflessioni sull’aspetto multidimensionale delle differenze.

48 PARTE II LA RICERCA

49 Capitolo1 Il progetto 1. Le idee di partenza

I percorsi migratori delle donne rappresentano l’esperienza del passaggio, del cambiamento, dello stare nei confini e dello sconfinamento. L’esperienza della donna migrante costringe ad una riflessione su prospettive e categorie che hanno contribuito a naturalizzare la differenza, l’esclusione sociale e le disuguaglianze.

Il concetto generale da cui è partita la riflessione alla base del progetto è quello di emancipazione: troppo spesso dato per scontato, occidentalizzato e reso assoluto, l’emancipazione rimane un concetto ambiguo, che coincide con la costruzione della donna autonoma ed indipendente, vale a dire vincolando lo sguardo all’aspetto economico. La parola emancipazione deriva dal latino e – ex, che significa fuori, fuori di, oltre, e mancipium, dominazione. E’ necessario chiedersi cosa intendiamo oggi per dominazione, aprendo l’orizzonte di pensiero dai rapporti coloniali ancora oggi così forti nei legami post coloniali, alla costruzione sociale del genere, ed a tutto ciò che può essere attraversato dal potere. Adorno scrive che “non esiste alcuna emancipazione senza l’emancipazione della società” e questo suggerisce la necessità di avere cura della dimensione pubblica, che è responsabilità politica e sociale di tutti, che è un discorso di cittadinanza e non di appartenenze.

Intento di questa ricerca è quello di decostruire e costruire una definizione di emancipazione attraverso la conoscenza dell’esperienza della donna che emigra sola. Questo implica riflettere su quali significati oggi attribuire alle categorie della tradizione femminista occidentale in seguito all’incontro con le esperienze migranti, nonché

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 42-53)