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Maternità a distanza

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 117-123)

SFERA PUBBLICA E SFERA PRIVATA 1 Concetti e ness

9. Maternità a distanza

Un ulteriore punto da sottolineare è la dimensione della maternità e della famiglia. La particolarità del lavoro di cura, come è stato più volte sottolineato all’interno di questo capitolo, è che si svolge in famiglia che, luogo per eccellenza della sfera privata, diventa luogo del lavoro, per eccellenza parte della sfera pubblica. Il paradosso contenuto in questa tipologia consiste nel fatto che queste donne per entrare nel mercato del lavoro devono rientrare nella sfera privata, nella famiglia: si parla a tal proposito di “segregazione nella sfera privata per entrare nella sfera pubblica”(Barazzetti 2007). Come viene vissuto questo dalle donne migranti?

La risposta è legata ai percorsi soggettivi ed alle individualità ma in tutti i racconti emerge la centralità del lavoro, l’importanza ed il valore che viene attribuito a questa attività. Il legame tra lavoro e famiglia è sottolineato da tutte: in primo luogo, il rapporto con la famiglia datrice di lavoro che è la variabile determinante la positività o negatività del percorso. In secondo luogo il rapporto con la famiglia di origine e nella maggior parte dei casi, con i figli. Su questo è necessario spendere alcune parole per approfondire l’analisi sulla situazione delle donne migranti nel lavoro di cura. Si tratta infatti di una esperienza che le donne affrontano in gran parte da sole, sono donne che partono sole e che si fanno carico del peso delle responsabilità verso gli altri.

Le donne solo le sole attrici di questo percorso, autrici del cambiamento e soggetti messi a rischio per il benessere degli altri. Tutte le donne incontrate, però, sottolineano la condivisione della famiglia alla scelta della partenza; si hanno risposte del tipo

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“all’inizio i miei genitori non volevano, ma poi hanno capito” oppure “mia figlia sa che sono partita per lei, e quindi capisce il sacrificio” altri ancora “è una scelta dura. Ma poi capiscono, quando arrivano i soldi”.

Nel caso delle badanti, infatti, non risulta verificata l’ipotesi- nota in letteratura- per cui le donne che partono sole vengono definite “trasgressive”, anzi: in molti casi loro stesse definiscono “normale” la partenza delle donne. Le famiglie, quindi, contribuiscono in un modo o nell’altro alla scelta della partenza, contribuendo in maniera concreta, come ad esempio nel pagamento del viaggio, ma soprattutto nel mantenimento della struttura familiare in assenza delle donne. Infatti, il ruolo delle famiglie e delle donne che rimangono nei paesi di partenza è legato alla cura e alla crescita dei figli delle assenti. Sono le altre donne della famiglia, madri o sorelle, che si occupano dei figli e delle figlie: questo avviene in generale ma dalla ricerca emergono anche altre due principali tendenze. Questi ragazzi e queste ragazze vengono inseriti in collegi o istituti che garantiscano la formazione scolastica. Questo è un elemento che mette in discussione la “catena della cura”, ovvero le teorie in base alle quali la mobilità di una donna, ovvero l’ingresso nel mercato del lavoro possa essere possibile solo perché si delega la cura ad altre donne. In realtà la catena della cura è tutt’ora applicabile perché le donne spesso pagano altre donne per pensare ai propri figli o ai propri genitori: è per questo che le categorie della doppia presenza possono essere usate per comprendere tanto la situazione delle donne italiane quanto la situazione delle donne migranti. Riferisce al tal proposito una signora rumena “mia figlia vive da sola in Romania perché deve finire la scuola. C’è una signora che ci va sempre però, io la pago per questo. Così almeno non è sola”e lo stesso emerge dal racconto di un’altra, sempre badante rumena: “io vengo qui ma a casa ho mia madre che è anziana. Ed io cosa posso fare? C’è una signora là che sta con loro, ci lava, ci cucina almeno. Così sono tranquilla, mia madre è malata, ed io lavoro anche per loro”.

La catena della cura assume quindi una caratteristica differente se alle relazioni di affettività si aggiungono quelle lavorative: le donne vengono qui, in sintesi, per fare le badanti, ma nei paesi di partenza, pagano un’altra signora per fare la badante in casa sua. Una “catena del badantato” si potrebbe definire: emergono qui due caratteristiche interessanti. La prima fa riferimento al mercato del lavoro nei paesi di partenza ed al

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relativo ingresso delle donne: un ingresso dovuto alla partenza delle donne, che entrano nel mercato del lavoro internazionale, emigrando. La seconda al fatto che, le badanti in Romania, sostituiscono nel lavoro di cura “affettivo” le donne partite per un lavoro di cura “lavorativo” : un meccanismo di sostituzione, in cui affettività e guadagno si mescolano ancora una volta nelle sfere del privato e del pubblico, laddove la sfera privata per le donne migranti è anche la famiglia nei paesi di partenza.

Si può affermare che, come nel caso delle donne occidentali, l’ingresso nel mercato del lavoro è possibile grazie all’aiuto di altre donne, che dietro compenso o per legame familiare pensano alla cura di bambini ed anziani. Tutto ciò pone interrogativi importanti per la messa a lavoro del concetto di emancipazione e come si vedrà nei capitoli successivi, su tutto ciò che viene inteso come percorso delle donne occidentali di passaggio verso la sfera pubblica. Sono percorsi simili nella cornice generale che si diversificano perché si inquadrano in contesti diversi ed in logiche di potere internazionale in cui sono le diseguaglianze a dettare i movimenti.

Le donne migranti quindi, scelgono di entrare nel mercato del lavoro e di farlo rimanendo presenti nella sfera privata e nella sfera pubblica, una presenza diversa ma che si sviluppa in strategie innovative e tradizionali. In molte ricerche sono state sottolineate le conseguenze che l’assenza delle madri emigrate per lavoro abbia sullo sviluppo cognitivo ed emotivo dei bambini; altre ancora parlano di deficit di affetto e Barbara Ehrenreich ed Arlie Russel Hochschild parlano della convertibilità dell’amore che non può essere donato ai propri figli nel rapporto con i bambini per i quali lavorano. La riflessione che viene fuori da questa ricerca è però diversa. È necessario oggi pensare al cambiamento del ruolo delle donne ed in particolare è necessario ripensare la maternità: queste donne sono madri qui in Italia così come lo erano nei paesi di partenza, ma la necessità di lavorare e di partire cambiano le modalità, che si snodano in percorsi di sofferenza e dolore.

Il mito della presenza necessaria all’educazione dei figli, o della capacità di trasmette amore solo se presenti, devono, alla luce di ciò, essere rimessi in discussione.

Queste donne mettono in pratica uno sforzo continuo, in cui la disperazione della lontananza si trasforma in gesti concreti: la comunicazione continua,

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l’accompagnamento rispetto alle scelte, il fatto stesso di lavorare per mantenere loro gli studi sono tutte componenti che creano e rafforzano i legami. La lettura che è stata fatta sulla maternità di queste donne è influenzata dalla visione occidentale della donna madre, che accudisce i propri figli in gesti e pratiche quotidiane. Ma la volontà di queste donne di sacrificare la propria quotidianità per realizzare il futuro dei propri figli è allo stesso livello espressione di una maternità responsabile e consapevole. Parlare di deficit di affetto o di convertibilità dell’amore è in questo senso alquanto inopportuno perché vengono meno i presupposti del riconoscimento del valore di ogni singolo percorso di donna, nel doloroso tentativo di rimanere soprattutto madri.

10. “La frontiera” della cura.

Una caratteristica di questa tipologia di lavoro è la coesistenza delle due dimensioni del pubblico e del privato negli stessi tempi e negli stessi spazi. La famiglia, la casa, la cura, ma anche il lavoro, il contratto, il guadagno. Sfera pubblica e privata si intersecano, perdono i confini e si costruisce uno spazio nuovo, quello della cura, in cui vengono messi insieme elementi del privato e del pubblico, vengono escluse dinamiche esclusivamente del pubblico e si rafforzano quelle del privato. Provando a fornire degli esempi dalla vita quotidiana di queste donne si può partire dalla dimensione macro per arrivare al micro: e così per comprendere il fenomeno del badantato in Italia dobbiamo ricorrere alle spiegazioni sull’ingresso delle donne nel mercato del lavoro, sull’aumento dell’età media della popolazione e sulla crisi dello stato sociale.

Ed ancora, per incrociare domanda ed offerta di lavoro, le migrazioni internazionali incontrano i bisogni di un territorio. E poi la regolarizzazione dei contratti, l’aspetto normativo e regolamentare, il rapporto con enti ed istituzioni, i permessi di soggiorno. Tutto ciò rientra in una tipologia di lavoro, che si colloca in uno spazio, quello domestico della casa e che ha un tempo coincidente con l’intera giornata e spesso anche della notte. Questi tempi e spazi sono di relazione, con altre persone, con la persona assistita ed i familiari datori di lavoro. In questo spazio ed in questo tempo si collocano i corpi, il corpo delle donne ed un corpo da curare. Ed in questo spazio e tempo che si collocano le attività più intime e corporali, in cui avviene una relazione che è fatta di contatto, di tatto. Ed è anche il tempo e lo spazio delle emozioni, degli affetti, dei sentimenti, dei legami che si creano e delle emozioni da azzerare per poter andare

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avanti, per sopravvivere. È per tutto ciò che l’incontro con le donne migranti che lavorano nella cura non può essere letto a partire da un solo punto di vista, perché rappresenta un vero e proprio laboratorio esperienziale in cui le teorie e le prassi fanno fatica ad incontrarsi, talmente forte è la specificità e l’attenzione alle soggettività. Oggi si assiste alla costruzione di luoghi comuni ed a pregiudizi che hanno stereotipizzato la donna badante, creando immagini e idee che poco si avvicinano alla realtà. Il lavoro di cura è quindi una frontiera nel senso che richiama Zanini, il quale nella sua analisi ne sottolinea il carattere dinamico, definendolo come processo “sociale, politico e discorsivo”. Il carattere processuale quindi ne sottolinea il potenziale di innovazione, facendolo “diventare una pratica sociale dinamica” (Zanini 1997). A partire da ciò i percorsi delle donne migranti assumono una forma diversa e si collocano in una frontiera processuale e dinamica che comprende quindi strategie, percorsi e progetti differenti. Il lavoro di cura può infatti essere letto come l’esperienza per elaborare nuove riflessioni sulla situazione attuale delle donne, nonchè fornire alla teoria altri strumenti di analisi.

Usare la categoria della frontiera permette di cogliere l’aspetto dinamico dei passaggi tra la sfera privata e la sfera pubblica, tra famiglia e società, tra intimità e lavoro. Collocarsi nelle frontiere, come suggerito da Brambilla, significa riconoscersi in un nuovo spazio di riflessione, significa cambiare la prospettiva, spostare lo sguardo dell’osservatore, che è uno spazio relazionale che comprende un processo di riconoscimento dialettico e processuale. Collocarsi nella stessa frontiera, al confine tra sfere e spazi, permette di concentrarsi sui passaggi, sulle strategie, sulla dinamicità dei percorsi di queste donne. Il lavoro di cura è in questo senso frontiera perché offre la possibilità di ripensare i passaggi tra famiglia e lavoro, tra intimità e privato e quindi la possibilità di collocarsi è occasione per attivare processi dinamici di riconoscimento, per i quali si può “imparare a conoscere” l’altra senza vincoli di ruoli o posizioni di potere.

Cogliere l’invito fatto da Donatella Barazzetti a conclusione della sua riflessione sul lavoro di cura di “riposizionare lo sguardo” e di ripartire dai rapporti tra donne è stato portato avanti in questa ricerca, e di certo è stato un invito accolto dalle donne che

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hanno vi hanno preso parte: donne migranti lavoratrici, donne italiane datrici di lavoro e donne anziane, assistite. Riconoscere dietro ogni gesto un corpo, e dietro ogni corpo una persona, ha permesso di conoscere storie e percorsi mai sintetizzabili ma ricchi di un carico esperienziale che di certo nell’incontro con le soggettività femminili cambia la costruzione sociale delle donne. In un modo o nell’altro si parla di donne che si riposizionano in sfere e ambiti, che costruiscono una sfera privata su presupposti di collaborazione e fiducia, che elaborano strategie identitarie forti, rimettendo in discussione i ruoli tradizionali, innovandoli e modificandoli, partecipando ad una dimensione pubblica attraverso il lavoro. Il lavoro di cura, strumento e mezzo di mobilità sociale per le donne e per le famiglie di appartenenza, è centrale nella costruzione di una idea di donna che sceglie di intraprendere percorsi sofferenti ed entusiasmanti, carichi di attenzioni, scelte razionali e slanci coraggiosi: “è un rischio – così parla una donna rumena- è un grande rischio, ma per essere felici, è un rischio che si corre”.

120 Capitolo 2.2

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