SFERA PUBBLICA E SFERA PRIVATA 1 Concetti e ness
4. Tra sfera privata e sfera pubblica: gli spazi di frontiera
La frontiera diventa, quindi, nella ricerca anche categoria analitica: le migrazioni delle donne si giocano in luoghi altri, nuovi, di intersezione, sconfinamento e creatività. Collocarsi nelle frontiere significa riconoscersi in un nuovo spazio di riflessione, significa cambiare la prospettiva, spostare lo sguardo dell’osservatore, che non è più territorializzato, ma relazionale, in un processo di riconoscimento dialettico e processuale.
Collocarsi nella frontiera significa, altresì, dar voce al margine, alle donne migranti, protagoniste di scelte e percorsi di attraversamento, che permettono di considerare le frontiere come il luogo dell’espressione della resistenza, ciò che bell hooks (1998)
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definisce come il “bisogno di resistere che ci rende liberi, che decolonizza le nostre menti e tutto il nostro essere”.
All’interno della ricerca la categoria analitica diventa prassi nel momento in cui sono stati scelti i luoghi terzi di passaggio tra le due sfere, una sorta di corridoio tra “le stanze del soggiorno e quelle del salotto” suggerite da Habermas. L’ipotesi generale, lo ripetiamo, è l’idea di frontiera come spazio di creazione, elaborazione di percorsi creativi e liberi di integrazione delle donne migranti.
In generale, le categorie utilizzate sono spazi concreti e spazi sociali, riletti alla luce della base teorica esposta che richiama la centralità del soggetto narrante come contro narrazione del processo migratorio e come soggetto socialmente attivo nell’intero percorso dal paese di partenza a quello di accoglienza. In particolare gli spazi scelti sono il lavoro, le associazioni, le comunità. Ogni spazio è stato considerato a partire dalle donne migranti, dalle loro percezioni ed elaborazioni, cercando di comprendere le dinamiche di creazione di percorsi nuovi e creativi. Si è cercato di legare gli approcci teorici ed i contributi scientifici con la ricerca sul campo, valorizzando la relazione dialettica tra teoria-prassi teoria.
84 Capitolo 2 IL LAVORO
1. “La doppia presenza” ed il lavoro di cura
Laura Balbo analizzando la situazione delle donne nel mercato del lavoro nella fase fordista, parla dell’istituzionalizzazione della doppia presenza come caratteristica peculiare della situazione femminile. Da un punto di vista storico nell’elaborazione delle teorie femministe, si passa dalla concettualizzazione del doppio lavoro allo sviluppo di nuove teorie e riflessioni intorno alla doppia presenza. Parlare di doppio lavoro metteva in relazione la situazione delle donne con una dimensione macro, considerando le dimensioni del mercato e della produzione e facendo rientrare nel lavoro le attività tradizionalmente assegnate alle donne (pur senza alcuna remunerazione).
Al contrario, ripensare il lavoro alla luce delle doppia presenza permette di mettere al centro le singole soggettività, valorizzando i percorsi e ridando dignità alle lavoratrici in quanto donne. Da un punto di vista teorico il passaggio concettuale da doppio lavoro a doppia presenza consente di creare un’alternativa rispetto alla lettura delle donne nella sfera pubblica che possa andare oltre la costruzione dell’invisibilità e riportare la materialità dell’esserci, dello stare, del riconoscere le persone, le attività, i gesti, i corpi delle donne.
Laura Balbo (1978) parla di una nuova possibile configurazione della divisione sessuale del lavoro dovuta all’ingresso nel mercato del lavoro di donne sposate con figli, spostando l’attenzione sulle conseguenze a livello privato, politico e sociale. In generale si fa riferimento ai cambiamenti delle relazioni di genere all’interno delle famiglie, nella sfera della riproduzione e dell’educazione dei figli, ma bisogna riflettere anche sulle implicazioni politiche quali ad esempio le politiche di incentivazione o quelle che
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vengono definite le politiche di conciliazione14. Il mito della maternità ed il mito della divisione sessuale del lavoro in base al quale il lavoro domestico è compito delle donne (Ann Oakley in Arlie Russel Hochschild), hanno plasmato la vita quotidiana, responsabili del proprio essere “donne di casa”. Tutto ciò avviene in modo del tutto indipendente “dal fatto che abbiano aspettative, esperienze e competenze professionali”(Balbo 2008 p.59).
Da ciò dipende la garanzia del minimo di presenza delle donne in casa, ed è per questo che si sceglie il part time come forma organizzativa del lavoro. Il part time diventa una soluzione non solo lavorativa ma anche familiare: “l’occupazione extrafamiliare, retribuita e organizzata a metà tempo conciliabile con l’altro part time, quello per la vita familiare.”(Balbo 2008). Questi processi rendono visibile quello che prima era completamente invisibile, il lavoro delle donne nella sfera domestica, che diventa misurabile sia economicamente sia in base ai vantaggi nella qualità della vita e nel benessere di tutti. Molte sono state le definizione sul lavoro domestico, lavoro di servizio e lavoro di cura ma tutte però si concentrano sulla capacità di far fronte “a compiti molteplici e compositi: oggi abbiamo un termine tecnico, multi tasking”(Balbo 2008 p. 60).
Nel lavoro di cura rientrano i modi nelle relazioni, le informazioni, le scelte, la gestione di procedure con le amministrazioni e le istituzioni, la disponibilità del tempo. Il lavoro di cura è quindi questo: “interpretare e definire i bisogni di ciascuno; se ci si riesce, appagare i desideri”(Balbo 2008 p.61). Con ciò emerge l’idea della donna non più capace di stare in un ruolo solo, quello della casalinga e della madre. Laura Balbo scrive a tal proposito che “le giovani adulte si confrontano con il lavoro nel senso tradizionale e il lavorare proprio della cura, entrambe esperienze (e anche opportunità) significative” (Balbo 2008 p.61). La doppia presenza quindi è “l’esperienza del vivere in ambiti e ruoli tradizionalmente definiti come differenti e separati, famiglia e lavoro, privato e
14 Le politiche di conciliazione sono quelle misure che rendono possibile l’erogazione di lavoro per il mercato da parte di persone con vincoli familiari. Esse sono generalmente basate sulla liberazione di tempo per la cura, e quindi comprendono l’offerta di orari flessibili e/o ridotti, come il part-time, e l’offerta di servizi (pubblici o privati) di cura, sia per l’infanzia che per altri familiari dipendenti (anziani e disabili). Le politiche di incentivazione si basano prevalentemente sull’offerta di un reddito aggiuntivo, sia direttamente alle donne sia alle loro famiglie, nell’ipotesi che esso possa servire ad acquistare sul mercato servizi per la cura che sostituiscano la cura erogata in casa (home production), in grande maggioranza dalle donne.
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pubblico; l’essere soggetti di connessioni e di combinazione inedite, dunque negoziare, inventare, improvvisare. Riuscire a far convivere e funzionare identità e ruoli che appartengono a mondi ancora in qualche misura segregati e contrapposti” (Balbo 2008 p.62). In questa nuova configurazione del mercato del lavoro e quindi della situazione delle donne nella sfera pubblica il discorso si sposta sulle esperienze delle singole donne, e sulle modalità di organizzazione rispetto alle politiche locali ed ai diversi contesti.
L’ingresso delle donne italiane nel mercato del lavoro ha subito negli anni diversi cambiamenti che rientrano nella sfera dell’ economia e della politica. Alcune autrici sostengono che le donne della classe media in Occidente ed in Italia in particolare, abbiano fatto carriera “secondo il vecchio modello maschile” (Russel Hochschild, Ehrenreich 2002), seguendo le logiche della concorrenza, “del darci dentro finchè si è giovani, dell’accontentarsi di poco tempo libero e ridurre al minimo le incombenze domestiche affidandole a qualcun altro” (Russel Hochschild, Ehrenreich 2002 ). Nel modello maschile il qualcun altro è la donna, moglie o madre, che deve riempire spazi complementari rispetto all’uomo. Arlie Russel Hochschild afferma che con l’assenza da casa delle donne perché al lavoro, “l’industria dell’accudimento” deve occuparsi di riempire questi spazi, attraverso la richiesta di manodopera che viene soddisfatta dalle donne migranti. Da questo punto di vista le donne migranti possono essere viste come le operaie dell’accudimento, anche se è impossibile ed inopportuno collegare l’organizzazione di tipo industriale a quella della cura. Il lavoro di cura è anche relazione, è al confine tra spazio privato e pubblico e si gioca su un terreno di frontiera, uno spazio dove si intersecano le dimensioni dell’affetto e della professionalità, uno spazio che si costruisce tra l’intimità dei gesti quotidiani e la dimensione pubblica del contratto di lavoro.
Il lavoro di cura è creazione di legami ma anche distacco emotivo, è lo spazio in cui si giocano dinamiche tra la prossimità e la distanza. A tal proposito, Dotatella Barazzetti parla di “irruzione del mercato nella vita privata”, ripercorrendo una strada a ritroso, quella strada che aveva portato le donne a considerare il privato come pubblico ed il personale come politico. Le immigrate rientrano in quella che viene definita “la catena globale della cura” e quindi sono loro a farsi carico dei “compiti necessari per il vivere quotidiano: i lavori domestici, l’assistenza ad anziani e bambini”. In questa sorta di mobilità globale autrici come Barbara Ehrenreich e Arlie Russel Hochschild, parlano di
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importazione di amore e di pratiche di cura, definendo l’amore come rinnovabile merce di scambio, da una famiglia, quella di origine, ad un’altra, quella datrice di lavoro. Le autrici si soffermano sul deficit di amore nei paesi di partenza, rispetto al surplus che ne viene richiesto nei paesi di accoglienza, e sulle conseguenze nelle famiglie lasciate nei paesi di origine.
Questa nuova configurazione ha causato la necessità di trovare anche le parole giuste per descrivere questo tipo di attività: è così che nasce il termine badante, un neologismo applicato come sinonimo di assistente familiare, per indicare una persona che assiste a domicilio anziani e disabili non autosufficienti. Letteralmente, è il participio presente di "badare" , un verbo che significa stare attento, avere cura, occuparsi di qualcuno o qualcosa. La badante è colei che vive con una persona da assistere (di solito una persona anziana e non autonoma) che partecipa ed è responsabile di tutto ciò che rientra nel quotidiano. Alcune autrici parlano ancora di modello di welfare mediterraneo, caratterizzato da un forte innalzamento dell’età media e dall’assenza di politiche sociali per la cura e l’assistenza agli anziani con una conseguente richiesta di lavoro in questo settore.
All’interno del modello mediterraneo, molte ricerche parlano della situazione italiana in cui è stato facile avere un consenso culturale ed etico a questo tipo di approccio. Laura Balbo (2008), a tal proposito, sostiene che ciò avviene per la corrispondenza con il modello tradizionale della cura offerta non in istituti o residenze per anziani, ma in famiglia e “prestata da donne”. Oggi, come si vedrà dalla risposta delle donne incontrate, la richiesta e la chiamata diretta come badante rappresentano il primo motivo di ingresso in Italia dai paesi come la Romania, l’Ucraina e l’India. Un ulteriore punto da mettere in evidenza è la necessità di non banalizzare queste tematiche ma di considerare il fatto che i diversi contesti del quotidiano possano variare il percorso delle donne. Se si tratta di grande città o di piccoli paesi, ad esempio, oppure di donne partite sole o con la famiglia, i percorsi si costruiscono e si sviluppano in modi diversi tra loro. L’ipotesi di partenza quindi, si basa sull’idea che la configurazione odierna possa dare la possibilità di osservare nuove modalità e nuovi processi che hanno le radici nei percorsi individuali e nei contesti di accoglienza. Alla base di ciò l’idea che “circostanze di vita- di donne soprattutto- e modi di organizzazione delle risorse nelle diverse aree del mondo corrispondano a modelli inediti”.
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A livello teorico le lenti usate per leggere la presenza delle donne migranti nel lavoro di cura mettono insieme le teorie sulla doppia presenza e le riflessioni sul lavoro di cura nelle società occidentali. Il punto di partenza è considerare queste donne in processi e dinamiche simili e non solo complementari alle esperienze delle donne migranti. Sinteticamente si può dire che l’esperienza delle donne migranti può essere letta come un percorso di doppia presenza nel privato e nel pubblico che avviene su scala internazionale (o globale) ma che nel quotidiano coinvolge dinamiche e scelte del tutto paragonabili. Bianca Beccalli (1989) considera la doppia presenza come un approccio “volto a valorizzare la dimensione attiva della presenza femminile, suggerendo di guardare alle donne come a soggetti di strategie complesse e variabili, profondamente diverse da quelle monotematiche dei maschi”(Beccali in Barazzetti 2007) Usare le lenti della doppia presenza permette di considerare le donne migranti come attrici sociali dei propri percorsi, scelte e cambiamenti e di uscire dalla lettura monotematica degli approcci legati ad esempio, solo alla teorie sul potere o dello sfruttamento lavorativo. L’invisibilità che ha caratterizzato le donne nel lavoro di cura è un ulteriore elemento di analogia tra le situazioni delle donne italiane e le donne migranti: si parla di un tipo di lavoro, quello di cura, legato alla sfera della riproduzione che è stato da sempre tradizionalmente ruolo delle donne, taciuto nella dimensione pubblica.
All’interno di questa ricerca, è quindi centrale il ruolo delle donne migranti come attrici sociali del proprio cambiamento e di quello della propria famiglia o comunità. È per questo che la doppia presenza diventa il punto di partenza teorico per la riflessione sulle donne migranti che lavorano in Italia: l’ipotesi generale, se così si può sintetizzare, è che le donne migranti possano vivere processi analoghi a quelli delle donne italiane. La letteratura in merito fa spesso riferimento al ruolo delle donne migranti nell’economia nazionale e nel sostegno agli equilibri demografici. In questo caso il punto di vista è quello delle donne, che passano dalla sfera privata a quella pubblica rimanendo presenti in entrambe, in processi dialettici tra la famiglia ed il lavoro ed in dinamiche innovative nelle modalità e negli spazi, del tutto verificabili nella vita delle donne italiane. A supporto di ciò, quello che Laura Balbo (1989) individua nell’assunzione del punto di vista delle donne in quanto soggetto implicato e nell’ipotesi che le donne scelgano la doppia presenza, e che sia il sistema sociale a riorganizzarsi in base alla presenza o assenza delle donne rispettivamente nel privato e nel lavoro. La donna migrante in
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questo modo diventa visibile, viene vista come parte integrante dei processi organizzativi del lavoro e nelle dinamiche familiari, ed il superamento del confine simbolico tra la riproduzione e la produzione viene costantemente attraversato in dinamiche dialettiche e non lineari che sono, come suggerisce Bianca Beccalli, complesse e variabili.
L’ ipotesi di partenza quindi, ha le sue radici nel riconoscimento della visibilità delle donne migranti e nella scelta di stare ed attraversare i confini delle divisioni tra produzione e riproduzione, superando le aspettative sociali e la socializzazione anticipatoria rispetto ai ruoli esclusivi di madri e mogli. La donna migrante è quindi anche donna che lavora, che sceglie di essere presente nelle sfere del privato e nel pubblico. Ovviamente questa affermazione deve essere messa a lavoro, a partire dalla messa in discussione della partenza o del lavoro come scelta. Nell’intero dibattito sulle migrazioni il confine tra scelta e necessità è impossibile da definire e da tracciare, ed è impossibile fornire una risposta precisa anche in questo caso. Si vedrà come, nell’analisi delle storie di vita delle donne che lavorano nella cura, questa scelta viene motivata, subita e spiegata, e come a volte risulti un concetto ingabbiato in logiche occidentali che diventa quindi un vincolo al riconoscimento del lavoro di queste donne.