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Una parentesi postcoloniale

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 58-61)

Proprio per la centralità dell’approccio metodologico all’interno di questa ricerca, è necessario aprire una parentesi sugli studi ed approcci post coloniali che sono alla base di questo lavoro. Il punto di partenza della decostruzione di una prospettiva sugli studi sull’immigrazione ed in particolare sulle donne migranti è riconoscere che l’impostazione sia stata a livello storico e sociale esclusivamente occidentale. Gli studi postcoloniali, interdisciplinari per natura e definizione, nascono nell’ambito della letteratura nello studio della produzione letteraria delle ex colonie inglesi. Nelle scienze sociali si parla di studi post coloniali facendo riferimento a “una galassia di studi la cui principale caratteristica sta nell’intendere il passato coloniale come un’eredità che contribuisce in modo sostanziale a dar forma al presente. Non è un modo neutro di guardare né alla storia passata né al presente: è un modo critico, o piuttosto autocritico” (Jedlowski, 2009 p. 322).

È necessario prendere atto e riconoscere la costruzione dell’alterità e l’auto- rappresentazione dell’occidente per decostruire discorsi e modelli interpretativi che hanno guidato le scienze sociali e le scelte negli ultimi decenni. L’intento dei postcoloniali è quello di riscrivere la storia ripercorrendo lo stesso percorso con altri strumenti e nuovi mezzi: riconoscendo l’inadeguatezza e l’insufficienza di quelle categorie, che alla base delle istituzioni e configurazioni hanno caratterizzato la storia nei paesi occidentali e nelle colonie (Loomba 2000). A partire da Orientalismo di Edward Said (1991), si profila un nuovo scenario nella riflessione sulla elaborazione di

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una idea di oriente legata a pratiche imperialiste e coloniali. Said, prendendo in considerazione il concetto di egemonia utilizzato da Gramsci4 e la nozione di discorso di Michel Foucault5 mostra come il discorso coloniale abbia creato la costruzione della realtà legittimando il dominio dell’occidente sui paesi “altri”. Ci si è posti di fronte al “concorrente culturale”, al diverso per definizione, e tale rapporto ha contribuito alla elaborazione della specificità di una identità che si distingue perché europea e occidentale. La cultura europea ha costruito la propria forza in contrapposizione all’Oriente che, sebbene vicino geograficamente, è stato sempre considerato “lontano” culturalmente: l’oriente è “una sorta di sé complementare e, per così dire, sotterraneo”(Said 1991, p.6).

Dietro la costruzione delle differenze, si nasconde un “inerente atteggiamento di dominio”, è il modo occidentale per esercitare la propria influenza ed il proprio predominio sull’Oriente. Si parla di costruzione dell’oriente proprio perché non si considera la realtà in quanto tale, ma soltanto i prodotti intellettuali e culturali, che vanno oltre le caratteristiche geografiche. È per questo che si parla di orientalizazzione dell’Oriente: è stato possibile renderlo orientale, ovvero tradurre le caratteristiche tipizzabili in strumenti di legittimazione del potere. Tale aspetto è “piuttosto un corpus teorico e pratico nel quale, nel corso di varie generazioni, è stato effettuato un imponente investimento materiale.

Tale investimento ha fatto dell’Oriente, un filtro attraverso il quale l’Oriente è entrato nella coscienza e nella cultura occidentale” ”(Said 1991, p.9). Orientalismo è, quindi, una strategia di costruzione dell’identità, ma altresì una flessibile superiorità di posizione, in base alla quale ogni rapporto con il proprio Est è legittimato dall’inferiorità. Conoscenza e potere sono i due pilastri sui quali è stata costruita la rappresentazione dell’oriente, il quale è sempre caratterizzato dagli stessi elementi, attribuendone, pertanto, carattere di immutabilità. L’orientalismo è, quindi, un

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Nell’analisi sulla società capitalistica Gramsci considera l’importanza e la relativa autonomia della sfera culturale rispetto alla struttura. All’interno di questo tipo di società le classi dominanti egemonizzano i comportamenti delle classi subalterne esercitando su di esse un tipo di potere non coercitivo. Tale processo avviene nell’inserimento nel senso comune, nella cultura comune; proprio quest’ultimo diventa terreno di lotta per la elaborazione di una egemonia alternativa.

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Il discorso è per Michel Foucault legato a pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano. I discorsi pertanto si inseriscono in una trama di rapporti di potere creandone altre, è il modo in cui gli individui percepiscono ed ordinano la realtà.

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fenomeno culturale e politico: è elaborazione di una collocazione geografica che diventa interesse; è il rapporto tra un potere intellettuale, culturale, morale, è l’insieme di tutto ciò che può distinguere un “noi” dagli “altri”. Said (1991) usa l’immagine del teatro per designare l’orientalismo: viene definito, infatti, come un palcoscenico. Spetta, dunque, allo spettatore la responsabilità della scena, dietro le cui quinte si nasconde “un ricchissimo repertorio culturale, le cui singole voci evocano fantasmagorie di un mondo incantato”(Said, 1991 p.67): l’oriente è trasformato in luogo chiuso, separato e sottoposto alla potestà interpretativa ed al giudizio dell’occidentale; si parla, pertanto, di realismo radicale per designare il carattere di realtà che viene attribuito a questo tipo di rappresentazione.

Orientalismo è anche per Said, “l’insieme dei sogni ad occhi aperti, immagini e risorse lessicali messi a disposizioni di chiunque desiderasse parlare di ciò che si trova al di là della linea di confine tra est e ovest” (Said, 1991 p.67). Per quanto riguarda l’interpretazione di genere, Said parla di “concezione maschile”. L’orientalismo ha accentuato una visione del mondo esclusivamente maschile, in base alle quale le donne hanno sempre risposto all’immagine di sensualità e soggetto del predominio maschile: il carattere immutabile attribuita a questa “natura” dell’orientale nega ogni tipo di cambiamento. Nella riflessione sugli studi post coloniali, essenziale è il lavoro di Frantz Fanon il quale si sofferma sulle rappresentazioni delle differenze razziali che contribuiscono a legittimare il dominio dei bianchi, dando molta importanza ai processi di auto rappresentazione ed interiorizzazione del principi di inferiorità. Usando le parole di Renate Siebert “Fanon analizza come lo specchio deformante dello sguardo razzista rimandi alla persona razzizzata un’immagine corporea ed una identità disturbante” (Siebert 2003 p.) in base alla quale l’esperienza della de-soggettivizzazione rende l’altro invisibile (Fanon 1996).

La rigidità e “fissità” dell’immagine dell’altro è anche secondo Homi Bhabba una produzione del colonialismo, per cui il mondo occidentale bianco diventa l’unico riferimento sul piano economico, politico ed anche simbolico. E’ per questo che l’assimilazione è il processo per cui si diventa simili ai bianchi, annullando le differenze e per cui la carta di ingresso nella società occidentale è la rinuncia alla propria specificità. Il meccanismo legato alla colonizzazione è quello che Pierre Bourdieu definisce violenza simbolica, ovvero la forma di potere esercitata direttamente sui corpi senza costrizione fisica (Siebert 2003) ma che si esercita attraverso schemi di

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percezione, valutazione ed azione fondativi degli habitus6. Fanon a tal proposito, sottolinea come l’alterità è sempre l’uomo bianco, che stabilisce una asimmetria di percezione legata alle dinamiche di potere.

La scelta del metodo qualitativo ha, quindi, in questo caso profonde radici negli studi postcoloniali ed in particolare nelle prospettive che vengono rintracciate da questi autori. Si vedrà in seguito come nel caso degli studi di genere, tutto ciò sia stato messo a tema nel dibattito sul femminismo e sugli apporti politici e sociali nelle società occidentale. A questo punto interessa invece sottolineare, riprendendo quanto ha affermato Said, la responsabilità di chi ascolta e l’importanza di dar voce a chi nella storia è stato dialetticamente escluso dai processi di riconoscimento (De Beauvoir 2008). Le donne migranti rappresentano quindi un universo di narrazioni di coloro che sono state poco riconosciute nei processi migratori ed è ciò che ha orientato la scelta metodologica, (ma anche teorica), di questa ricerca. Riconoscere le donne nel percorso migratorio, i loro ruoli e le loro strategie, è esempio di come sia possibile ascoltare la storia attraverso le altre voci, rintracciando anche i silenzi e le assenze che diventano visibili.

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 58-61)