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Storia delle associazioni in Francia

Nel documento Esperienze di frontiera (pagine 138-149)

IL LAVORO, IL CASO FRANCESE

2. Le associazioni: teorie ed ipotes

3.1 Storia delle associazioni in Francia

A partire dai primi anni del novecento, le associazioni di migranti sono state considerate come straniere e sotto il controllo dello stato; solo dopo gli anni venti queste associazioni iniziano a rivendicare la parità di diritto rispetto a quelle nazionali. Prima di intervenire sugli spazi della cittadinanza (tra cui la rappresentanza nei partiti politici), le associazioni hanno basato le proprie azioni su un piano culturale, poi, constatando i limiti della democrazia locale, resi evidenti dall'introduzione del voto diretto municipale, le associazioni entrano nel campo della cosiddetta cittadinanza di residenza. Nella storia della Repubblica Francese, il diritto di espressione e libertà di associazione sono connessi; nella dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino nel 1789 si legge che « le but de toute les association politique est la conservation des droits naturels et imprescriptible de l'homme ».

Con la rivoluzione francese, gli stessi protagonisti rifiutano l'idea che ci possano essere azioni intermedie tra l'individuo e lo stato: questo è il senso della legge Le Chapelier, adottata nell'Assemblea Costituente il 14 giugno 1791, che impedisce l'azione collettiva ed associativa agli operai. In quel periodo solo Marat afferma che questa è « usurpazione dei diritti di sovranità del popolo dai suoi rappresentanti ».

Bisogna aspettare fino alla fine del XIX, per avere il diritto di riunione, di libertà di stampa ed il riconoscimento dei sindacati. Nel 1884, Pierre Zaldeck-Rousseau, allora ministro della Repubblica Francese, fa approvare la legge sulle associazioni professionali e, lo stesso, divenuto Presidente inspira la legge del 1901, relativa al contratto di associazione, la quale definisce le associazioni come “l’accordo mediante il

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quale due o più persone condividono, in modo permanente, le loro conoscenze o attività in un fine diverso da quello della condivisione dei profitti” 25(art 1).

Nel 1939, il governo Daladiers firma la legge sulle associazione straniere, definite come associazioni con sede all'estero o dirette da stranieri, o, con una presenza straniera negli aderenti pari ad un quarto dei membri. Quello che però manifesta la concezione di estraneità rispetto al governo è la possibilità di scioglimento amministrativo (e non giudiziario); ancora c'è da sottolineare l'obbligo imposto di inserire negli statuti la proibizione di partecipazione ed attività politica. Pertanto agli stranieri viene riconosciuto il diritto di associazione, ma non il diritto di espressione politica. Le associazioni nate in questo periodo, quindi, hanno come obiettivo quello di rispondere ai bisogni sociali e culturali dei lavoratori migranti per un aiuto giuridico, materiale o morale. La figura centrale anche per gli stessi migranti è quella del lavoratore maschio, e la coscienza politica risulta assente, come se si fosse naturalizzato il concetto che per partecipare alla vita democratica dello stato bisogna essere francesi.

La decentralizzazione ed i processi di democrazia partecipativa degli anni settanta, pur mantenendo una centralità dello stato, invitano i cittadini ad una maggiore attenzione verso il locale, a partire dalle municipalità e dai quartieri. Le associazioni di migranti che nascono in questi anni per coadiuvare i governi locali non hanno valore coercitivo. L'obiettivo adesso diventa la partecipazione al momento elettorale, vissuto come una forma di partecipazione politica.

Con l'organizzazione degli stati generali dell'immigrazione nel 1988, l'associazione Memoria Fertile, inizia a mettere a tema i nuovi spazi di cittadinanza, come le associazioni dei genitori degli alunni, ed inizia la riflessione sulla creazione di un contro potere e sulle logiche di cambiamento nei giochi politici. Con il riconoscimento a livello europeo del diritto di voto ed eleggibilità, le associazioni cambiano prospettiva e si iniziano ad interessare al dibattito sui diritti politici.

A questo punto, riprendendo la periodizzazione fatta nella prima parte di questo lavoro, possiamo mettere in relazione le associazioni con la storia della immigrazione francese. Nella prima fase, nella quale l'immigrazione è temporanea, ed ha come protagonista il lavoratore uomo, le associazioni sono orientate al ritorno, per cui mantengono i

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« La convention par laquelle deux ou plusieurs personnes mettent en commun, d'une façon permanente, leurs connaissances ou leurs activités dans un but autre que de partager des bénéfices. » (art.1)

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collegamenti con i paesi di partenza ed assumono una posizione “riservata” rispetto al potere pubblico.

Nella seconda fase, con la femminilizzazione delle migrazioni, le associazioni non sono più orientate al ritorno, bensì all'ancoraggio, alla stabilizzazione. Negli anni sessanta, con l'esplosione delle grandi associazioni si rafforzano i legami con i paesi di origine: nasce in questo periodo l’associazione “Amicale des algériens en Europe”.

Tali strategie associative risultano presenti nello spazio pubblico francese, tant'è che le associazioni possono essere considerate come spazi intermedi, né completamente comunitarie (nel senso delle comunità di origine), né completamente pubbliche. Possiamo qui riportare alcuni esempi, per comprendere meglio la suddivisione in fasi e gli obiettivi perseguiti. L'associazione “Amicale des algériens en Europe”, può essere considerata come cinta di trasmissione tra il paese ex colonizzato ed i migranti che vivono forme di solidarietà nuove nel paese di accoglienza. Gli scopi sono quasi istituzionali, l’Amicale è caratterizzata da una struttura gerarchica e la sua logica può essere definita dall'alto; le relazioni al suo interno sono secondarie, l'interesse è verso i « suoi », non verso i migranti in generale. Le attività possono essere considerate da « sportello » e gli aderenti sono utenti. Le attività proposte sono orientate al ritorno, per cui si alimentano i rapporti con i paesi di origine, si avviano percorsi di conservazione della memoria.

Le associazioni degli anni ottanta vengono definite come “associazioni dei padri”. Il contesto è diverso e l'avvento della sinistra al governo implica una moltiplicazione delle associazioni. Nate prima a livello locale, le associazioni diventano in un secondo momento nazionali, con gli obiettivi di lotta al razzismo e di integrazione degli immigrati.

Le associazioni locali nascono dalla presenza di reti di aiuto sul territorio e rivendicano un discorso politico e culturale. Testimonianze di quel periodo affermano che è necessario « rifare la democrazia francese, la prossimità col popolo, definire uno spazio comunitario integrante il nord e il sud » (Homme et Immigration 2001). In questa fase si forma una identità che si sviluppa dialetticamente in una logica individuale che si distacca dal gruppo comunitario.

Negli anni 90 si parla invece di “associazioni dei figli”. Gli obiettivi non sono dichiarati ed espliciti, si ha poca formalizzazione e le associazioni nascono su territori etnicizzati, dove vi è convivenza tra prossimi, e si fondano sulla legittimità data dal riconoscimento

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istituzionale. In questi anni si avviano anche quelli che vengono definiti “i tempi delle madri”. L'obiettivo è l'“apertura della maternità”.

L' “Association les amies de la maternité”, ad esempio, nasce come strumento di conoscenza e scambio sull'essere madri, ma tali obiettivi diventano ben presto marginali. Come le altre associazioni nate in questa fase si ha l'attivazione dei gruppi di parola, di attività sulla calligrafia, e di momenti regolari in cui poter discutere. Obiettivi diventano l'aiuto sanitario e psicologico, costruzioni di legami con i servizi sociali, l'educazione dei figli, la partecipazione alla loro vita scolastica.

La storia di questa associazione permette di capire il coinvolgimento graduale verso la sfera pubblica, in una dimensione specifica che concerne i rapporti sociali e molte donne usano l'associazione come trampolino per rinegoziare le loro posizioni. In questo senso, il coinvolgimento equivale ad un processo di liberazione graduale dallo spazio privato. I primi tempi sono segnati dalla prudenza di cui fanno prova queste donne, sia nei riguardi dei vicini che dello sposo. Tali aspetti si evincono, ad esempio, dall’analisi dei tempi e degli spazi. Le riunioni sono poco numerose e mai la sera, e avvengono in un luogo lontano dal “centro della maternità” (il villaggio, il centro storico o il quartiere): allontanandosi dalla comunità, le donne sono più libere e meno vincolate dal controllo sociale.

La gestione dell'educazione dei figli è un ruolo attribuito alle madri. Questo significa che il cambiamento passa attraverso i bambini nel senso che le madri hanno la possibilità di far capire il senso di una attività per il bene dei piccoli, sfuggendo al controllo dei mariti. In questa fase sono gli uomini ad assumere i ruoli di responsabilità delle associazioni. Anche questa è una strategia del tutto femminile poiché, così facendo, gli uomini possono comprendere e approvare scelte che diventano poi condivise. In tal senso, possiamo concludere che la partecipazione alle associazioni rappresenta la realizzazione di un noi che determina una doppia presa di distanza, dalla società di origine e da quella di accoglienza.

Per quanto riguarda le associazioni di donne nate in questo periodo è opportuno citare “Nanas-Beurs”, “Voix d’Elles-Rebelles” et “Voix de Femmes”. Tali associazioni, mettono in luce il ruolo attivo delle donne immigrate nel movimento associativo che ha contribuito a modificare il loro rapporto con lo spazio pubblico, nonché a trasformare dall’interno la sfera privata. Le tre associazioni sono state fondate da donne maghrebine, ma non si sono limitate alla tutela di queste ultime; obiettivo, infatti, è

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quello della autonomizzazione effettiva delle donne dalla sfera privata e l’ingresso in quella pubblica.

Le associazioni lavorano cercando di introdurre nel dibattito pubblico la riflessione che associa la discriminazione di genere e la discriminazione razziale. Come afferma l'autrice di questa ricerca, “loro contribuiscono così ad esaminare i principi del" modello repubblicano di integrazione "e le modalità di esercizio della cittadinanza in Francia26” (Corinne Mélis, 2003).

Le stesse fondatrici hanno modo di affermare che “la costituzione di Beurs Nanas- intorno a un progetto di mobilitazione comunitaria, ma su una rivendicazione della piena partecipazione degli immigrati e dei loro figli nella società francese, riflette lo spirito pionieristico dell’« associatonisme civique issu de l’immigration » (De Wenden e Leva, 2001). L'associazione ha anche introdotto nel dibattito pubblico la dimensione sessuata della lotta per la parità dei diritti che situa contemporaneamente nel campo della famiglia, della comunità e nell’ ambito sociale, considerando che la discriminazione diretta e indiretta vissute specificatamente da donne e ragazze immigrate interessano la società nel suo insieme"27(De Rudder, 1995).“ Possiamo quindi sottolineare che il progetto associativo si avvia a partire dall'incrocio delle rivendicazioni relative alle discriminazioni di genere, al razzismo, ma anche alla esclusione sociale e la relegazione spaziale. Le attività di queste associazioni che lavorano in rete si concretizzano nell'accoglienza delle donne in situazione di difficoltà e sulla formazione ed informazione nella cittadinanza.

26 « Elles contribuent de ce fait à interroger les principes du « modèle républicain d’intégration » et les

modalités d’exercice en France de la citoyenneté” (Corinne Mélis, 2003).

27 « La constitution des Nanas-Beurs autour d’un projet de mobilisation communautaire, mais sur une revendication de pleine participation des immigrés et de leurs enfants à la société française reflète l’esprit des débuts de « l’associatonisme civique issu de l’immigration » (De Wenden et Leveau, 2001). L’association introduit en outre dans le débat public la dimension sexuée d’une lutte pour l’égalité des droits qu’elle situe simultanément dans le champ familial et communautaire et dans le champ sociétal, considérant que les discriminations directes et indirectes spécifiques vécues par les femmes et les filles immigrées ou issues de l’immigration intéressent la société dans son ensemble”(De Rudder, 1995).

140 3.2 Storia delle associazioni in Italia

Nel ripercorrere la storia delle associazioni in Italia è necessario soffermarsi sulla dimensione del volontariato e della solidarietà, al fine di comprendere natura e scopi del movimento che si è venuto a creare.

La caratteristica dell’associazionismo italiano è legata al fare volontariato che è esperienza personale, ma anche collettive, che riguarda l’individuo ed il gruppo che condivide questa scelta. La caratteristica del volontariato è secondo Ranci (2006) la pragmaticità, proprio perché si concretizza in gesti concreti, si manifesta in azioni e servizi, e si sviluppa in relazioni umane. Secondo lo stesso autore, altre due caratteristiche sono importanti per la comprensione dell’attività del volontario: da una parte la scelta reversibile, quindi non legata ad un contratto di lavoro; dall’altra la dimensione della gratuità: l’azione del volontario è un trasferimento di tempo, di risorse da se stessi ad altri, senza alcuna contropartita economica, ma sulla base di un ulteriore e reciproco riconoscimento umano.

L’impegno volontario è quindi un dono. Il dono implica non solo la dimensione della scelta individuale, ma anche un livello altro che è la relazione intersoggettiva, ed è, quindi, assunzione di responsabilità, che è alla base del riconoscimento. È anche una forma di partecipazione attiva nella società, poiché garantisce un orientamento al bene comune, e ciò che interessa in questa sede sottolineare è che “il volontariato si colloca in una sfera intermedia tra quella privata e pubblica, in un’area sociale che dove si combinano insieme l’intimità tipica delle relazioni di aiuto con la solidarietà pubblica tipica delle azioni rivolte all’altro, a persone estranee” (Ranci 2006).

Nel considerare il percorso storico delle associazioni in Italia si parla di azioni volontarie in ambiti comunitari mentre quello che viene definito volontariato moderno nasce all’esterno degli ambiti tradizionali. Sottolinea Ranci , il volontariato moderno rispetto a quello tradizionale, “ne riprende lo spirito, ma lo traspone dentro una società individualizzata, in cui i legami tra le persone non sono più fondati sull’appartenenza comunitaria, dove gli individui godono della libertà di movimento e possono stabilire autonomamente gran parte delle loro relazioni sociali”. (Ranci 2006)

In base a ciò, il volontariato diventa un’azione organizzativa, nonché motivato da culture civili o da credenze etico-religiose. L’organizzazione è alla base del riconoscimento pubblico e politico e rende il volontariato più controllabile ed affidabile. La scelta individuale è legata ad una risposta collettiva, poiché “rinvia a concezioni

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morali e civili che attribuiscono notevole valore al fatto di assumersi una responsabilità verso gli altri.” In seguito alla spinta ideologica degli anni sessanta, negli anni settanta il nuovo volontariato si presenta non ideologizzato, ma estremamente legato alla concretezza, alla capacità di rispondere subito ai bisogni sociali, pertanto “invece che rinviare la soluzione dei problemi sociali ad una improbabile rivoluzione politica, si persegue il lavoro quotidiano, a contatto diretto con i soggetti dell’emarginazione”(Ranci 2006).

Ancora, il serbatoio culturale è l’associazionismo cattolico che è sempre più indipendente dalla gerarchia ecclesiale. Il punto di partenza, individuato da Ranci è “il riconoscimento del diritto morale e sociale degli emarginati ad essere assistiti e reinseriti nella società: il riscatto di questi ultimi coincide infatti con una rinnovata qualità nei rapporti sociali”. (Ranci 2006)

La ripresa dei temi affrontati dal Concilio Vaticano Secondo ha fatto delle parrocchie il luogo dell’incontro e della creazione di esperienze, “la parrocchia diviene per i gruppi una importante fonte sia di risorse materiali che di legittimazione nei confronti della popolazione e delle autorità politiche”. Sono gli anni in cui emerge una nuova figura del laicato cattolico che si traduce in forme forti di associazionismo, che riprende la rivoluzione (che oggi definiamo in molti, rivoluzione dimenticata) della Chiesa in quegli anni. Le associazioni in quegli anni fanno propria la vicinanza ai poveri ed emarginati, ribadiscono una chiesa corresponsabile in cui i concetti di comunità e “popolo di Dio” vanno oltre le organizzazioni gerarchiche.

Sono le parole del Concilio, quindi, a guidare l’operato dei laici in quegli anni: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.” (Gaudium et Spes, 1968, 1)

Un discorso analogo viene portato avanti per le tradizioni laiche, nelle regioni in cui la “tradizione rossa” (Ambrosini, 2005) si è tradotta non solo in politiche amministrative, ma anche in esperienze associative e cooperative. Questi differenti approcci non devono essere letti in contrapposizione bensì in un rapporto di reciproca influenza e contaminazione una collaborazione tra diverse “matrici ideali” dell’impegno solidaristico che diventa a volte difficile da distinguere (Ambrosini, 2005).

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Dal punto di vista legislativo, il pilastro è rappresentato dalla legge quadro sul volontariato, la Legge 266 del 1991, nella quale la “Repubblica italiana riconosce il valore sociale e la funzione dell'attività di volontariato come espressione di partecipazione, solidarietà e pluralismo” e nella quale vi è la definizione di cosa si intende per volontariato, ovvero l’attività “prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l'organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà”.

Ritornando alla storia delle associazioni dei migranti in Italia si deve ricordare che nella prima fase della migrazione delle donne in Italia, come espresso nei primi capitoli, la catena migratoria ha prevalentemente fatto riferimento alla chiesa cattolica che diventa la struttura della prima accoglienza, offrendo anche la possibilità dell’inserimento lavorativo, in quanto il carattere territoriale delle parrocchie permette a sacerdoti e volontari di conoscere bene le esigenze delle famiglie che diventeranno datrici di lavoro.

Pertanto le chiese e le parrocchie diventano esse stesse luoghi di incontro, nonché di affiancamento ai gruppi di donne che iniziano ad aggregarsi in forme associative. Anche in Italia, quindi, l’immigrazione per popolamento, quella definitiva e di lungo periodo, causa la nascita della associazioni di migranti connazionali ed in particolare di donne. Il caso delle capoverdiane, ad esempio, è emblematico poiché rappresenta la prima forma di associazionismo, in quanto si tratta di donne sole senza alcun altro riferimento familiare o comunitario. In generale dove esistono flussi femminili consistenti, nasce uno specifico associazionismo femminile (Macioti, Pugliese 2003).

Il tipo di associazionismo interno alle parrocchie dei quartieri o dei piccoli paesi è sintomatico della invisibilità delle donne in questa fase, che impegnate nel lavoro domestico e di cura, non sono visibili in luoghi pubblici, ma solo nelle associazioni parrocchiali che diventano vere e proprie agenzie di collocamento al lavoro che, data la tipicità del lavoro domestico, implica anche il vitto e l’alloggio.

La seconda fase dello sviluppo delle associazioni, si caratterizza per il fatto che le associazioni si formano non solo in base alla provenienza delle donne, ma in base alla condivisione di situazioni e problematiche. Pur se si tratta di donne con origine diversa, le associazioni si formano non solo per il raggiungimento di obiettivi e la condivisione di interessi, ma anche per sfuggire alle dinamiche comunitarie troppo strette ed in cui il controllo sociale è molto forte.

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A poco a poco il legame con la dimensione religiosa viene meno, e si cercano altri spazi di autonomia. L’autonomia è legata alla consapevolezza delle proprie possibilità, o meglio ad “una autoconsapevolezza” (Macioti, Pugliese 2003) che ha portato le donne a negoziare, accordarsi tra loro ed avere contatti con istituzioni o enti pubblici. Le prime erano soprattutto associazioni nazionali, legate alle comunità nel paese di accoglienza. La prima finalità delle associazioni di questo tipo faceva riferimento al tramite con il paese di origine. Con i ricongiungimenti familiari, le donne necessitano di altri strumenti e categorie per affrontare una migrazione che diventa di lungo periodo. C’è anche da dire che nella prima fase le donne ripropongono un modello di vita simile a quello nei paesi di partenza, con la segregazione della sfera privata e la partecipazione alle comunità nazionali per ribadire usi e costumi, ad esempio in occasione delle feste. Tra le associazioni di sole donne immigrate, le prime sono quelle delle donne eritree nei primi anni ‘80.

In seguito nascerà l’OMCVI (Organisaçao das mulheres caboverdeanas em Italia), poi il Women’s Council delle donne filippine nel 1992, e da qui molte altre. Caratteristica comune delle associazioni che si formano in questa fase non è solo “offrire rassicurazione e generico sostegno” (Macioti, Puglise 2003), ma anche di mediare tra domanda ed offerta di lavoro, nonché essere esse stesse proposta di attività lavorative: da esse nascono ad esempio, cooperative ed imprese legate al commercio etnico. Tra le associazioni nate in questo periodo ne ripropongo tre, rappresentative per la diversa tipologia a cui fanno riferimento, e che possono essere utili per la comprensione dell’intero fenomeno associativo delle donne migranti in Italia. La prima associazione è il Centro servizi donne immigrate in Italia di Livorno un esempio citato da Pugliese e

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