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Il tema della città sarebbe stato trattato appena un anno dopo sulle pagine di un'altra rivista, “Progettare in più”, che affrontava la questione non in termini utopici e teorici ma in termini più pratici,, in questo caso si parlava Infatti di uso della città e di effettivo coinvolgimento dei cittadini in pratiche creative di vario tipo.

La rivista editava inoltre dei numeri monografici sottotitolati “L’uso della città” e ognuno di questi recava un sottotitolo diverso, in base al punto di vista dal quale veniva affrontato il tema. Il primo numero era accompagnato dalla ormai consueta indagine su campioni di popolazione che così era presentata da La Pietra: “ ‘L'uso della città’ vuole essere l'occasione di riflessione sulle reali capacità d'intervento dell'uomo comune nei processi di modificazione (per un uso più appropriato) dell'ambiente urbano. Prescindendo da valutazioni statistiche e da giudizi assoluti e generalizzati, da questa indagine si è potuto notare che gli atteggiamenti emergenti con maggior frequenza, nel momento in cui una persona è stimolata ad esprimere un proprio ed ipotetico intervento sull'ambiente, sono di due tipi: il primo è quello di considerare la città come un insieme di spazi privati ai quali corrispondono delle necessità private, le uniche degne di essere assecondate. Il secondo è quello di essere disponibili alla lettura della città come spazio collettivo, ma di vederne la conformazione e le necessità esclusivamente attraverso quegli stereotipi che il sistema diffonde mediante i tradizionali canali di informazione”.17

                                                                                                                         

Le schede che seguivano andavano compilate secondo un modulo che richiedeva: nome e cognome dell’intervistato, età, professione, indirizzo di residenza, numero di anni di residenza. La domanda posta era: “Quale intervento o situazione urbana vorreste modificare?” e di conseguenza si chiedevano la descrizione o la rappresentazione della modifica. Si chiedeva di allegare anche due immagini: una dell’elemento ambientale da modificare, l’altra la rappresentazione della modifica. Da queste schede emergevano delle lamentele comuni, come quelle riguardanti il problema della viabilità, che ogni intervistato avrebbe risolto in maniera differente, chi col semplice ausilio di semafori, chi con l’apertura di parcheggi, chi, invece, con soluzioni più ironiche come il geometra trentatreenne che pensava ad un sistema metropolitano di tappeti volanti, al quale era necessario abbinare il potenziamento dell’industria di battitappeti; altra questione che risultava urgente da risolvere era l’apertura di spazi verdi o parchi (una pubblicitaria ventiquattrenne scriveva di desiderare che “la vita a Milano ritorni ad una dimensione più umana. Cos’è questo correre, affannarsi, senza mai fermarsi? Anche i milanesi possono vivere felici!”) che la mamma desiderava per i suoi bambini ad ogni isolato, che il bambino immaginava attrezzati di piscina, pista di pattinaggio e cinema e che la musicista pensava con bar, piscina, ma soprattutto dotati di un teatrino coperto o meno, gestito da chiunque volesse organizzare manifestazioni artistiche.

La Pietra dopo l’esame delle schede giungeva ad un'unica e triste conclusione: “Il sistema ha escluso il cittadino dall’amministrazione economica e dal processo di modificazione dell’ambiente urbano, e non sarà certo una piccola indagine a far riemergere nell’uomo le capacità e la lucida consapevolezza di necessità da tempo assopite”. Si mostrava, tuttavia, soddisfatto dell’interesse e dell’entusiasmo che gli intervistati avevano dimostrato, fatto significativo che indicava quanto la popolazione desiderasse essere coinvolta.

L’uso della città era anche il titolo di un interessante articolo di Almerico De Angelis, in cui egli sosteneva che ormai parlare della crisi delle città fosse diventato un luogo comune, tanto che la critica aveva perso ogni mordente. Alcuni motivi della crisi erano evidenti, come la scarsità di servizi, l’inefficienza dei mezzi pubblici di trasporto, la mancanza di aree verdi, ma De Angelis sosteneva anche che questi problemi non erano le cause della crisi, bensì solo inadeguatezze che andavano risolte. Le cause più reali e profonde non erano da addurre, secondo chi scriveva, né alle forme, né alle infrastrutture, ma nell’uso che di queste veniva fatto. In breve De Angelis rimproverava i troppi divieti che impedivano un uso libero della città. Questi divieti, aggiungeva, non avevano fatto altro che influenzare anche a livello inconscio l’individuo, abituandolo o meglio educandolo all’inibizione o al senso di vergogna all’atto di partecipazione. A questo punto l’autore sosteneva che bisognasse creare momenti e luoghi in cui l’individuo lasciasse cadere le sue

inibizioni e partecipasse attivamente e creativamente alla vita della città18. “Per tutto ciò - scriveva De Angelis – non servono città nuove, serve soltanto riuscire a fare un uso diverso della città com’è (…) lo sbaglio è considerare l’ambiente soltanto come una somma algebrica di segni architettonici”19, infatti, egli diceva, sebbene i comportamenti scaturissero dall’ambiente, era allo stesso tempo vero che proprio i comportamenti concorrono alla formazione dell’immagine ambientale. Questo creava un legame forte tra ambiente e comportamento. Per modificare l’ambiente, dunque, non occorreva necessariamente intervenire su di esso in senso fisico, ma era necessario invece agire sull’uso.

De Angelis stesso si era fatto sostenitore in quegli anni di un tipo particolare di architettura, che egli chiamava “architettura eventuale” con essa, diceva lo studioso, “intendiamo lasciare il massimo campo di azione alla creatività individuale volta anziché a subire passivamente un ambiente, a modificarlo di continuo con la sua sola presenza, con il suo comportamento. Quello che noi vogliamo - per dirlo con Gregotti – è semplicemente rendere l'ambiente fisico più provocatoriamente disponibile all'immaginazione della società”20.

Questo concetto si traduceva concretamente in due eventi organizzati a Napoli nel 1973, nell’ambito dei corsi di Composizione e Disegno tenuti dallo stesso De Angelis presso la facoltà di Architettura della stessa città. In entrambi i casi si trattava di una sorta di giochi, espedienti per coinvolgere la popolazione e verificarne le modalità di comportamento, ma anche per creare un momento di espressione libera, che derivava volutamente le sue modalità di attuazione dal gioco dei bambini e di conoscenza e scambi tra individui. Nel primo evento l’azione consisteva nella realizzazione di una barca di quattro metri costruita con carta da imballaggio e nella costruzione di manichini di carta a dimensioni umane con i quali poi si sarebbe attraversata la città. Il secondo evento avveniva, invece, in Campo dei Martiri e consisteva nella realizzazione di una costruzione effimera di foulard e palloncini.