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Mari con la realizzazione degli oggetti appena descritti dimostrava particolare interesse per l’industria e per le possibilità che essa offriva per la liberazione dell’uomo dal lavoro. Non bisogna, però dimenticare che egli si sarebbe interessato anche alle tecniche artigianali, infatti già

                                                                                                                         

41  M.  Zanuso,  catalogo  Danese,  oggi  in  F.  Burkhardt.  F.  Picchi,  Perché  un  libro…op.  cit,  p.  116.   42  A.  C.  Quintavalle,  Enzo  Mari…  op  cit.,  p.  173.  

dall’esecuzione dei suoi primi progetti di design e nello specifico i contenitori della serie Putrella, collocava la sua produzione in un settore a metà strada tra artigianato e industria, seguendo quella stessa linea che prima di lui, nel secondo dopoguerra avevano intrapreso molti coraggiosi pionieri. Sempre su questo versante il designer si sarebbe mosso nel 1973, anno in cui avrebbe elaborato la sua Proposta per la lavorazione della porcellana, che avrebbe presentato appena un anno dopo presso la Galleria Danese, con una mostra dal titolo omonimo. Anche questa ricerca era partita su stimolo di Bruno Danese che aveva chiesto a Mari di disegnare alcuni vasi in porcellana.

La tecnica di lavorazione della porcellana per Mari era sconosciuta e per approfondirla iniziava una ricerca, durante la quale notava che la maggior parte delle porcellane presenti sul mercato erano elaborate con la tecnica del colaggio. Questo significava che anche per la realizzazione artigianale erano usate logiche da produzione industriale, infatti dagli stampi in gesso era possibile ottenere un’infinità di modelli replicabili. L’intervento dell’artigiano si limitava dunque, ad un lavoro manuale e ripetitivo, poco creativo. Mari decideva allora di tentare di ripristinare la modalità più antica di lavorazione della porcellana, e cioè quella a mano. Con questa proposta si sarebbe recato in una antica manifattura veneta, il Laboratorio Tosin di Vicenza dove avrebbe sollecitato gli artigiani ad operare con le sole mani, senza guardare a modelli preordinati, ma solo alla loro esperienza e al loro slancio creativo. Sarebbe nata dall’esperienza una serie di circa venti porcellane, dalle forme diverse, semplici ed eleganti. Ettore Sottsass avrebbe scritto un bellissimo testo in proposito: “Che l'Enzo Mari, tra tutti quelli che fanno questo buffo, ambiguo, incerto e scivoloso mestiere che oggi si chiama ‘design’, sia uno che insegue con più disperazione e accanimento il sogno di sottrarlo (questo mestiere) al suo peccato originale, di riscattarlo dalla corruzione, di metterlo in qualche modo a disposizione della storia malinconica della gente che cammina per le strade piuttosto che a disposizione delle presunzioni stizzose delle aristocrazie al potere, questo si sa; lo sappiamo benissimo e proprio per questo – se posso dirlo qui – gli vogliamo molto bene: per questa sua impaurita dolcezza per la quale se si mette a fare qualche cosa, lo fa sperando di riempire in qualche modo qualcuno di quei vuoti orribili, neri come buchi di peste, che si vedono o non si vedono ( ma che ci sono) sotto la finta pelle perfetta di questo ansante corpo della ‘civiltà avanzata’. (…). Mari che per conto suo più ci pensava e più si sentiva male, almeno fino a quando, a forza di pensarci, non ha scoperto che forse c’era un modo di mettere il suo lavoro (più che le sue porcellane) al servizio di quello che le facevano, invece che al servizio di quelli che le avrebbero comperate. Più o meno così. Il disegno di queste porcellane dunque, non gli è venuto in mente ‘a tavolino’, (...), e neanche gli è venuto in mente la notte, nel letto, con la lucetta (...), voglio dire come risultato di un calcolo fatto con i numeri della cultura (...) è venuto in mente a guardare gli uomini, le donne e i ragazzi mentre facevano, in fabbrica, altre porcellane, e a vedere

che erano strati costretti adagio adagio, per vie delle esigenze produttive di mercato a ridurre a zero, magari sottozero, le loro qualità, se per qualità si intende il fatto di possedere e di manovrare privatamente i rapporti che esistono tra il lavoro che uno fa e sa fare e la propria vita. Con questa storia delle macchine e pseudo macchine quegli uomini e donne e ragazzi sono finiti a spostare manovelle, a riempire stampi di gesso con il pesante latte del caolino e poi vuotarli, a limare sbavature, magari a pressare pagnotte di argilla o attaccare decalcomanie e cose così; sono finiti a compiere gesti di questo genere, gesti senza senso, che non impegnano nessuno e niente, forse soltanto i muscoli o forse neanche i muscoli. Ma l’Enzo Mari io me lo immagino guardare manovelle, stampi di gesso, decalcomanie e pagnotte di argilla, con quei suoi occhi impauriti e accaniti e me lo immagino prendere pezzetti di argilla con le dita, davanti a quegli uomini delusi della loro storia, e chiedere: ‘Come si fa? Si fa così?’ e invitarli a continuare... Adesso qui ci sono le porcellane. A me, a dire la verità, non sembrano oggetti neanche un poco, voglio dire oggetti da mettere in giro sui mobiletti a fare da centro o centrotavola ancora meno mi sembrano oggetti che uno si tiene perché sono fatti a mano, oggetti complicati e costosi (anche se forse lo sono) o perché sono folklore (...) Io credo che queste porcellane siano piuttosto diagrammi per gesti meticolosi di mani e per sguardi attendi di occhi che forse hanno ritrovato il loro destino; credo che siano diagrammi per esercizi liberatori; (...) credo che siano strumenti di consolazione piuttosto che strumenti di presunzione. Credo che queste porcellane bisogna toccarle con cura, come si tocca una memoria della vita, credo che bisogna onorarle (...), credo che bisogna appoggiarle adagio sul legno del tavolo, come si appoggia adagio il foglio fragile di una lettera che racconta avventure melanconiche, credo che poi, forse, vadano avvolte nel lino e riposte in un armadio molto speciale perché non vengano toccate dalla ferocia della vita quotidiana che non fa altro che farci dimenticare, dimenticare, dimenticare le mani affaticate, gli occhi spaventati, la pelle inerme della gente”43.