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Gli anni a cavallo tra i Sessanta ed i Settanta in Italia sono stati percorsi da numerosi e differenti fremiti, in particolare per quel che riguarda il campo dell’architettura e del design. La mia tesi fino ad ora ha trattato prevalentemente dei progetti e dei pensieri relativi all’ambito del design radicale italiano, ritengo, però opportuno concludere la mia trattazione dedicando un breve approfondimento sulla figura di Enzo Mari, artista e designer che ha vissuto pienamente il periodo della contestazione sessantottina ed ha sperimentato incessantemente, maturando risultati durevoli, basati su una ricerca e su un pensiero rimasti sempre coerenti. L’esperienza di Mari rappresenta nel design italiano un unicum, assolutamente incomparabile a qualsiasi altra figura e ciò è vero non tanto a causa della grandissima quantità di progetti, ma soprattutto per le idee politiche e sociali espresse in numerosi campi, dall’arte figurativa al design, dalla grafica all’allestimento, che prendono le mosse da una fiducia “illuminista” nella ragione e nell’uguaglianza fra gli uomini1.

Nonostante Mari non abbia mai fatto parte del gruppo radicale, le sue idee sono state e sono tuttora radicali e partono da una critica a tutto tondo del sistema dell’arte e della cultura, ma anche del sistema di produzione e di induzione al consumo. A differenza dei radical, Mari sarebbe rimasto sempre fedele ad un linguaggio tanto complesso nei presupposti filosofici, quanto semplice in termini di caratteristiche formali delle opere. Dalle quali non sarebbe mai trasparsa ironia, ma una serissima ricerca alla semplificazione, alla funzionalità e all’economia. Egli avrebbe, inoltre, riservato una particolare attenzione verso quell’auspicata uguaglianza tra gli uomini, cui prima si accennava dalla quale sarebbero nati progetti semplici nella forma e nella funzionalità, meno nel meccanismo di progettazione, caratterizzati dall’idea di standard (“oggetti uguali per un mondo di eguali” era il suo motto) e in alcuni casi poco apprezzati proprio per la loro eccessiva schiettezza. Questi sarebbero stati permeati attorno al principio di eliminazione della ridondanza e di allontanamento della società da quel meccanismo perverso che portava a produrre ed immettere sul mercato oggetti sempre nuovi, sebbene dediti alla medesima funzione. Mari avrebbe definito i suoi progetti orientati a questo impegno come ricerche per la “limitazione dell’obsolescenza espressiva”, su queste avrebbe scritto: “L’apparente ricchezza formale degli oggetti che l’attuale società dei consumi fa proliferare, quasi sempre coincide con un loro decadimento anche formale. Infatti la breve durata, richiesta da continue e urgenti necessità di produzione che favoriscono il susseguirsi

                                                                                                                         

1  In  una  intervista  del  1997  dichiarava:  “L’utopia  è  l’isola  felice  che  non  c’è,  che  non  è  possibile.  Io  sono  figlio  della  

rivoluzione  francese,  come  tutti  noi  cattolici  o  ebrei  capitalisti  o  marxisti,  ritengo  che  la  parola  égalité  sia  la  mia  fede.   Non  penso  sia  possibile  effettivamente,  ma  voglio  credere  nella  possibilità  dell’uguaglianza  attraverso  il  design”  in  Il   design  o  è  plusvalore  culturale  o  non  è  design,  dialogo  con  E.  Mari  di  J.  Capella,  in  “Domus”,  n.  791,  1997,  p.  60  

delle mode, determina, per forza di cose, una loro nascita affrettata mediante processi superficiali e approssimativi che spesso si risolvono nella riproposta o variazione di particolari formali”2. Il progettista nel rammaricarsi per l’incapacità dei consumatori di leggere correttamente questo stato di cose avrebbe pensato ai suoi oggetti come espedienti didattici: “Si può contrastare questa situazione cerando di individuare ogni volta il tipo di linguaggio adatto ad aumentare la durata dell’oggetto sia in senso temporale sia in quello della sua disponibilità di adattamento. Chiarendo i tipi di linguaggio se ne definiscono le regole e cioè i modi del progetto”3.

A differenza degli oggetti radical – pop, spesso colorati e ridondanti, ai limiti col kitsch, gli oggetti “semplici” di Mari si definivano, sebbene secondo modalità diverse, didattici e utili al coinvolgimento dell’utenza. In coinvolgimento non sarebbe partito dalla sensorialità, ma dall’invito al creare razionalmente gli oggetti utili al benessere umano. Al tema dell’utenza Mari avrebbe legato quello del lavoro, considerando il primo utente del progetto, l’operaio che lo realizza e secondariamente colui che ne fruisce. A tale proposito scriveva Arturo Carlo Quintavalle: “Fra tutti i moderni progettisti, designer se preferiamo, Mari si è posto più di ogni altro il problema del lavoro. La questione ha una storia, una storia che traversa differenti ideologie, per cui il problema del lavoro del progettista diventa il problema del lavoro intellettuale e della sua contrapposizione al lavoro manuale”4. Quintavalle in questo caso si riferiva esplicitamente all’ideologia politica di Mari, di stampo marxista, che avrebbe portato l’artista e designer ad andare oltre i limiti della sua professione, facendosi autore di un’opera teorica dal titolo Atlante Secondo Lenin, carte dello scontro di linea oggi, edita nel 1976 da L’erba voglio Edizioni. In questa sede Mari affrontava il tema del lavoro secondo la filosofia marxista, e lo indicava come trasformazione della natura o dell’ambiente reale da parte dell’uomo, ma anche come momento da vedersi alla luce dei rapporti sociali e nella società capitalistica come alienazione dell’uomo, trasformato in forza – lavoro a favore della produzione dell’oggetto–merce. Mari, a differenza dei radical designer, non auspicava ad una scomparsa del lavoro, ma cercava di ripensarne le leggi. In quest’ottica, sarebbero state fondamentali le sperimentazioni a metà strada tra artigianato e industria, in cui l’ausilio della macchina non era altro che un modo per sgravare l’uomo dalla parte alienante del lavoro, il gesto manuale e meccanico, atto a produrre merci per falsi bisogni, ed in cui l’artigianato aveva senso solo se concepito come atto di creazione libera ed indipendente da schemi imposti. Seguendo questa strada Mari sarebbe arrivato a trattare la tematica dell’autoprogettazione, gesto estremo dinnanzi ai condizionamenti del consumismo, in cui Mari assommando tutta la sua produzione teorica, avrebbe ribadito con forza che gli scopi primari del progettista erano quello di asservirsi alla società ai fini

                                                                                                                         

2  E.  Mari,  Funzione  della  ricerca  estetica,  Edizioni  di  Comunità,  Milano  1970,  pp.  64-­‐  65.   3  Ibidem  

della sua trasformazione, e quello di condurre l’uomo nel suo processo di liberazione dal consumismo e quindi dal lavoro alienato.