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La crisi del Movimento Moderno e la nascita della società dei consum

Un processo di profonda mutazione nel campo dell’architettura era stato avviato già dai tardi anni Cinquanta, quando in Europa si era diffusa una ricerca di carattere utopico, che lasciava intendere la necessità che l’architettura adottasse nuovi linguaggi e formulasse nuove teorie. Si trattava di necessità scaturite dal fatto che una volta terminata l’urgenza della ricostruzione post-bellica gli architetti e gli artisti avevano iniziato ad interrogarsi in maniera estremamente critica circa il proprio ruolo e gli scopi della propria disciplina, sempre più dominata dalla fiducia nella scienza e nelle nuove tecnologie, ma anche dai grandi cambiamenti sociali ed economici in corso, a partire da un considerevole aumento demografico, fino ad un nuovo tipo di distribuzione della ricchezza, che vedeva sorgere nuove classi sociali ed un aumento dei consumi che presto avrebbe portato al passaggio da un’economia sostanzialmente capitalista ad un’economia basata sui consumi di massa. Ben presto si entrò in un clima caratterizzato da pluralismo e discontinuità

I principi portati avanti dal Movimento Moderno venivano ritenuti astratti ed arretrati, rispetto a queste nuove istanze. Ai modelli di città da questo proposti per esempio nella Ville Radieuse di Le Corbusier o nei principi enunciati nella Carta di Atene (documento redatto sul tema della città dal Ciam nel 1933 e poi pubblicato da Le Corbusier), che prevedevano una città caratterizzata dallo zoning, dall’organizzazione a maglia reticolare e dalla divisione dei percorsi stradali, veniva rimproverata soprattutto una scarsa flessibilità se rapportata a ciò di cui l’uomo aveva allora bisogno, che proprio in nome della nuova situazione di complessità, gli imponeva di rapportarsi e di comunicare in spazi funzionali e intercambiabili. Andrea Branzi nel saggio introduttivo del volumetto Architettura “radicale” scriveva che, secondo lui, la crisi del rapporto tra architettura e società stava “nell’impossibilità a reperire oggi una condizione sociale permanente che non venga immediatamente messa in crisi per il fatto stesso di essere stata raggiunta”4. Continuava sostenendo le condizioni diverse in cui si trovava ad operare il Movimento Moderno, infatti: “la realtà sociale gli permetteva di progettare tipologie che potevano assumere la qualifica di “permanenti”, essendo

                                                                                                                         

la crescita economica non solo controllata, ma indirizzata su modelli di sviluppo che allora sembravano sufficientemente chiari”5.

Questi cambiamenti si rispecchiavano anche nell’ambito del rapporto con l’oggetto, secondo le nuove dinamiche d’uso e consumo che il benessere aveva diffuso stava portando in buona parte del mondo occidentale. Se in un passato non troppo lontano ciò che muoveva l’economia era soprattutto il bisogno, ora questo bisogno era sostituito dalla brama di possesso. La società di quegli anni puntava più che ad una accumulazione di oggetti, al loro consumo dato non tanto da un deperimento fisico o funzionale dell’oggetto, quanto dal venir meno delle sue qualità formali, insomma, una sorta di archetipo del nostro concetto di usa e getta.

Iniziavano, inoltre, a mutare le tipologie di approccio al mercato da parte dell’impresa, si passava, infatti, da una strategia di orientamento al prodotto, in cui la competizione si basava sulle qualità del prodotto e sui metodi della produzione, ad una strategia di orientamento alle vendite e al consumo. Proprio negli anni in cui avvenivano tali cambiamenti, il sociologo francese Jean Baudrillard, nello scritto Il sistema degli oggetti (1964), elaborava una critica alla società dei consumi. Lo studioso intendeva indicare una fase di superamento della teoria economica di Karl Marx, che risultava ormai insufficiente a spiegare il fenomeno della nascita della società del consumo. Nelle sue teorie questi aveva inteso la merce come qualcosa che doveva soddisfare un bisogno ed il bisogno come la condizione senza la quale la merce non esisterebbe, ma non si era soffermato a valutare la natura del bisogno o la causa dalla quale esso scaturisse. Al contrario la critica di Baudrillard muoveva proprio da una riflessione sul significato di bisogno. Il bisogno, nell’epoca del capitalismo, poteva essere definito una funzione indotta negli individui dalla forza interna del sistema. L’oggetto, in questa prospettiva, non rispondendo ad una necessità semplice e diretta, assumeva caratteristiche di fascinazione e proiezione ed entrava a far parte della sfera del desiderio. Più un oggetto è desiderato, nella misura in cui il sistema ce lo propone come desiderabile, più esso assume valore. Posta la crisi del funzionalismo e l’uscita dell’oggetto dal circolo chiuso della funzionalità, il prodotto ridotto a segno, si trasformava in simbolo e rivelava di avere un legame più stretto col valore di scambio piuttosto che col valore d’uso, al punto che senza valore di scambio non vi era alcun valore d’uso. Al di là del loro valore sociale o relazionale gli oggetti non rappresentavano niente.

Su queste stesse tematiche rifletteva anche Gillo Dorfles: egli sosteneva che l’oggetto industriale doveva essere funzionale, ma doveva anche tener conto della instabilità formale, imposta dalla

                                                                                                                         

5   Ibidem.   La   critica   la   Movimento   moderno   avrebbe   caratterizzato   la   realtà   architettonica   di   quegli   anni,   ma   è  

necessario   ricordare   che   accanto   ai   detrattori,   molti   architetti   avrebbero   continuato   ad   apprezzarne   e   applicarne   i   principi.  Vedi  a  tale  proposito:  P.  Belfiore,  I  maestri  del  Movimento  Moderno,  Dedalo,  Bari  1979;  B.  Zevi  Le  sterzate   architettoniche.   Conflitti   e   polemiche   degli   anni   Settanta-­‐Novanta,   Dedalo,   Bari   1992;   G.   De   Carlo,   Le   Corbusier,   antologia  critica  degli  scritti,  ,  Rosa  e  Ballo,  Milano  1945.  

dinamica della produzione. Tale instabilità formale non faceva altro che riflettersi nella preminenza data all’aspetto semantico e simbolico, perciò Dorfles riteneva che si potesse parlare di una nuova forma di “mitopoiesi”, cioè una nuova capacità dell’oggetto di rispecchiare l’ethos e il pathos di colui che lo possiede. Egli era, inoltre ben attento ad ammonire contro il rischio di quest’azione: “oggi, troppo spesso non si tiene conto o si dimentica di considerare l'aspetto semantico - immaginifico degli oggetti” tanto che tali oggetti, “rischiano di prendere la mano all'individuo sopraffacendone lo stato di coscienza vigile, svolgendo un'azione mitopoietica anzi addirittura mitagogica - che può giungere a forzare la soglia della lucida consapevolezza dell’individuo agendo su di lui sublinarmente e quindi in maniera spesso pericolosamente coartante”6.

Il consumo, dunque, più che riguardare l’oggetto in sé, visto che la sua funzionalità, era ormai un aspetto dato per scontato, -Dorfles parlava di crollo dell’idolo tecnologico, ormai diventato familiare e quotidiano- riguardava il suo aspetto simbolico e la rappresentazione del possessore che essa consentiva.