Sin dalla fine degli anni Cinquanta Enzo Mari iniziava ad avvicinarsi al design con lo spirito esplorativo che lo contraddistinguerà. L’interesse per il settore della progettazione dell’oggetto sarebbe stato interpretato in seguito dalla critica come un passaggio naturale, in cui non vi era rottura con la progettazione artistica, ma continuità. “Per dare prova dell’interrelazione continua tra le due aree – avrebbe scritto Arturo Carlo Quintavalle – che sono divise, dico quella della produzione artistica e quella per la moltiplicazione industriale, divise soltanto in relazione ad una ipotetica differenza, tra oggetti non funzionali all’uso e oggetti funzionali all’uso”30.
Sullo stesso aspetto avrebbe scritto anche Renato Pedio, il quale avrebbe interpretato questo passaggio come una questione linguistica e di comunicazione e per spiegarlo avrebbe fatto riferimento alla linguistica di De Saussure, applicando all’opera di Mari le opposizioni langue/parole e significato/significante, costituenti il segno. “È applicabile volendo la coppia saussuriana langue/parole; nella langue grosso modo coincidono i repertori di termini, operatori e norme a cui attingere per produrre un determinato messaggio (oggetto) qui e ora; Il messaggio può definirsi un atto di parole. Mari passa deliberatamente dal sign (l’arte visiva) al design (il linguaggio degli oggetti, l’intercodice complesso i cui condizionamenti socio-economici sono assai più duri)”31. Pedio avrebbe continuato facendo riferimento specifico alle prime opere di design di Mari, scrivendo: “(egli) Deve, dunque acquisire quella langue, quel patrimonio culturale di termini, operatori, tecnologie: nella loro fonetica (caratteristiche fisiche dei materiali) e della loro sintattica (tecnologie, morfologie, dimensionamenti)… Il progetto è ancora un’intenzione di messaggio (…), è una partitura da trasdurre in processo industriale, una serie di istruzioni sensate affinché il messaggio venga pronunciato (costruito) e trasmesso (distribuito) al fruitore”32. Lo studioso avrebbe concluso valutando il rapporto tra oggetto e fruitore e specificando che l’oggetto è dinnanzi ad esso segno, cioè forma significante che veicola funzioni e significati, ma anche dicendo che in realtà, ciò su cui avrebbe lavorato Mari, era la consapevolezza che l’oggetto comprendesse aspetti secondari quali esteticità , decoro, potere, tradizione: “Lavorare su questo livello, operare sulle funzioni
29 “Un rifiuto possibile”, 3 luglio 1968, oggi in E. Mari, Funzione della ricerca estetica... op. cit,, p 101. 30A. C. Quintavalle, Enzo Mari, op. cit.
31 R. Pedio, Enzo Mari… op. cit. 32 Ibidem
seconde malgrado i significati pedestri che in genere la committenza impone, è il vero scopo del progetto/oggetto: con esse l’operatore sollecita l’utente a colloquio, gli svela valori e ne riceve”33. Per Mari lo slancio ad operare nel mondo della produzione era venuto dall’influenza di Bruno Munari e dall’ammirazione provata dinnanzi le opere dei fratelli Castiglioni. Questo interesse avrebbe trovato però concretezza anche grazie alla conoscenza e all’amicizia di Bruno Danese, giovane imprenditore che nel 1957 aveva fondato assieme alla compagna, la fotografa svizzera Jacqueline Vodoz, la società che portava il suo nome e con la quale si dedicava alla realizzazione di piccole serie di design34. Danese nel 1958 chiedeva a Mari di realizzare dei piccoli porta oggetti per il suo negozio galleria. Mari, non avendo mai operato nel settore del design, avrebbe deciso di intraprendere una sperimentazione sui materiali. Il materiale scelto per gli oggetti commissionatigli da Danese sarebbe stato il ferro. Decideva, inoltre, in prosecuzione con le esperienze maturate nell’ambito dell’arte programmata, di intervenire su semilavorati, appunto come era solito fare con le sue sculture. In questo caso i materiali prescelti sarebbero stati dunque lamiere e profilati in acciaio, che anziché essere letti come prodotti industriali finiti e unità per la costruzione architettonica, venivano visti come materiale grezzo sul quale era possibile intervenire esteticamente. Ne sarebbero nati i Contenitori di lamiera saldata ed i contenitori della serie Putrella35.
Nel presentarli sulle pagine di Funzione della ricerca estetica Mari definiva questi oggetti come gli esiti di una produzione sperimentale che intendeva sostituire le tradizionali esecuzioni artigiane, esplorando l’uso di macchine utensili di ultima generazione. Alcuni di questi contenitori erano realizzati in piccola serie, altri erano pezzi unici; il dato estetico che li legava era la saldatura in ottone senza rifiniture, eseguita a mano da un operaio. Si trattava di oggetti per un mercato elitario in cui la tecnica della saldatura lasciata a vista dava al pezzo un valore economico basso, che però aumentava per il fatto che la saldatura venisse eseguita a mano, lasciando acquisire agli oggetti una certa artigianalità: “Nei pezzi in lamiera, le saldature in ottone diventano una risorsa decorativa, lasciate nella loro schietta espressione di lavoro manuale”36.
33 Ibidem
34 È bello e interessante leggere nell’autobiografia di Mari della stima che lo legava a Bruno Danese, da lui descritto
come un giovane pieno di entusiasmo e di voglia di rivoluzione con il quale condivideva le stesse idee sul design, strumento per cambiare la società e “dare dignità all’uomo”. Lui e la Vodoz sono descritti come capaci ed intraprendenti: “I capitali sono quasi inesistenti e lui e la moglie sono factotum di se stessi: spazzano il negozio, fotografano i modelli e le mostre, trattano col pubblico e contattano i clienti internazionali”, da E. Mari, Venticinque modi per piantare un chiodo, Mondadori, 2011 Milano.
35 . Gli oggetti sarebbero stati presentati nella mostra “Quaranta vasi in ferro” tenutasi nel 1959 presso la galleria
Danese. Ludovico Barbiano di Belgiojoso avrebbe scritto un catalogo per l’occasione.
36 L. Belgiojoso, Quaranta vasi in ferro, oggi in F. Burkhardt, F. Picchi, Perché un libro su Enzo Mari, Federico Motta
Nella stessa sezione del volume Funzione della ricerca estetica , Mari avrebbe inserito anche i vasi della serie Camicia, prodotti da Danese nel 1961, in cui continuava la ricerca sui semilavorati. In questo caso il materiale di partenza era un tubo in alluminio, che costituiva appunto la camicia di un contenitore in vetro soffiato; dei tagli semplici sul supporto in alluminio consentivano oltre che la varietà formale, la possibilità di mostrare parti del fiore o della pianta, altrimenti nascoste. Dalla stessa tecnica, quindi dall’applicazione di semplici tagli, questa volta su un tubo in PVC, l’anno successivo sarebbe nato il portaombrelli Celebes (Danese), poi evoluto nel portacenere-cestino Mascarene (Danese, 1965) e nell’appendiabiti–portaombrelli Kerguelen (Danese, 1967).
L’impiego di moderne macchine utensili, usate al posto delle costose tecniche artigiane veniva sperimentato anche su materiali più tradizionali e non industriali, come il marmo ed il vetro, nell’ambito della ricerca Nuove proposte per la lavorazione del marmo e del vetro avviata nel 1964. Da questa ricerca scaturiva la serie di vasi in marmo ed in vetro Paros, prodotta dallo stesso 1964 da Danese. Il principio anche in questo caso, era quello di applicare a macchina dei tagli sulla superficie degli oggetti. “Domus” che presentava la ricerca, scriveva: “Una ricerca di grande interesse è quella che Mari sta compiendo, sulla lavorazione del marmo e del vetro, e che appare esemplificata negli oggetti ‘di serie’ (vasi, ciotole) da lui progettati per Danese a Milano. Nella produzione di serie è possibile ottenere forme plasticamente complesse solo con stampi ricavati da modelli eseguiti a mano. Per la lavorazione di certi materiali della tradizione classica, quali il marmo, non è possibile lo stampaggio e si è comunque persa la memoria di una corretta produzione artigianale. Queste ricerche sono nate dalla necessità di trovare nuovi metodi di progettazione che permettano la produzione in serie di oggetti di marmo plasticamente complessi, utilizzando le tecniche e gli strumenti industriali. Data la durezza del materiale, Mari ha cercato di ottenere la massima ricchezza formale limitando al minimo i passaggi dalle macchine utensili e, sempre scartando gli interventi manuali”37.
Queste prime prove di Mari nel design sarebbero state fondamentali, in quanto proprio in esse si sarebbe definito il metodo lavorativo del designer. Questo metodo non sarebbe stato molto diverso da quello già applicato alle sculture–ambienti dell’arte programmata, infatti anche nel caso del design il lavoro si definiva come ricerca e gli oggetti ne erano le prove intermedie o gli esiti: “nell’acquisire materiali e processi, Mari – notava Renato Pedio – sperimenta sulla forma”38. In particolare Mari voleva provare la ricchezza formale ottenibile con l’ausilio delle macchine e le modalità di sfruttamento dei prefabbricati. Il designer, inoltre dimostrava sin dall’inizio di intendere il suo lavoro di “progettatore” non nei termini di colui che progettava solo il prodotto finito, ma di
37Nuove proposte per la lavorazione del marmo e del vetro, in “Domus”, n. 420, 1964. 38 R. Pedio, Enzo Mari…op. cit.
quella figura che pensava al progetto anche nei passaggi successivi alle sue direttive, che andavano dal reperimento dei materiali alla lavorazione e alla vendita. Quello adoperato da Mari era un metodo globale orientato alla collettività, che andava stimolata a fare un uso corretto del lavoro e a volgersi verso il progresso e che “supera – usando le parole di Franҫois Burkhardt - i metodi generalmente applicati alle discipline del design, che sono guidati dagli studi di mercato diffusi attraverso i briefing aziendali e che basandosi unicamente su obiettivi economici d’ordine materiale, sono unilaterali e trascurano in toto i momenti dell’elaborazione del progetto, che egli definisce”39.