Il tema del rapporto tra l’individuo e lo spazio privato sarebbe stato affrontato dalla rivista “Progettare In più”93 ideata da Ugo La Pietra, nella quale dopo l’esperienza di “In” si affrontavano in tre numeri monotematici i temi del rapporto tra l’uomo e lo spazio collettivo e tra l’uomo e lo spazio urbano.
La rivista si presentava come “un mezzo di informazione che, consapevole delle proprie responsabilità e ruolo all’interno delle strutture culturali cui si riferisce, intende presentarsi come uno strumento realizzato per coloro che prescindendo dalle proprie collocazioni culturali e sociali
sentono la necessità di una costante attività auto educativa”94.
La pubblicazione voleva proporsi come uno spazio di avvicinamento tra l’operatore culturale e il lettore/ utente95, infatti tramite questa si voleva spingere l’intellettuale a non avere un atteggiamento
92 Ibidem
93 La rivista, trimestrale, edita da Jabik e Colophon, nasceva nel 1973 a Milano, per chiudere appena due anni dopo. 94 U. La Pietra, Editoriale in “Progettare in più” , n.1, 1973
95 Riviste come “In” e “Progettare In più” o la “Casabella” di Mendini, ma anche le riviste/fanzine di Ettore Sottsass
come “Pianeta Fresco”, possono essere considerate dei veri e propri oggetti di Radical design, non solo per il tipo di grafica, rigorose ed in bianco e nero le prime due, colorate e dinamiche le altre, ma anche per le tematiche affrontate e per il modo allo stesso tempo scientifico e libero come nel caso di Sottsass. In particolare “Pianeta Fresco” rivista di controcultura beat e hippie, era autofinanziata da Pivano e Sottsass che si occupava della grafica con la collaborazione
impositivo verso l’utente, ma lo potesse stimolare affinché egli tramite le proprie capacità si riappropriasse dell’ambiente. Si trattava, dunque di uno strumento per avviare dinamiche di creatività collettiva in cui le distinzioni tra utente e progettista dovevano cadere. L’utente/lettore, inoltre, era reso protagonista vero della rivista (non solo perché essa non intendeva rivolgersi ad un pubblico elitario, ma alla società in genere) grazie ad uno spazio dedicato ad approfonditi sondaggi/censimenti.
Il primo numero presentava l’argomento dell’ambiente domestico, in questo caso venivano pubblicate delle schede di indagine dal titolo Il desiderio dell’oggetto. Le schede comprendevano una sorta di breve identikit dell’intervistato (venivano indicati nome, cognome, data di nascita, residenza, professione, composizione del nucleo familiare), una foto dell’intervistato, una foto della sua abitazione e una foto o un disegno dell’oggetto desiderato. Gli intervistati provenivano da diverse classi sociali, diverse zone d’Italia, facevano mestieri diversi e avevano diversi gradi di istruzione, come anche età differenti. Chiaramente erano molto diversi anche i loro desideri: dall’acqua corrente dell’anziano contadino, alle superfici acquatiche del designer, ai gatti e cani della bambina e della vedova, dall’oggetto di antiquariato veneziano del consulente finanziario, alle lampade smerigliate inventate dall’idraulico e che egli sognava di vedere realizzate per esporle in salotto.
L’indagine era corredata da un testo di poche pagine (scritto in italiano e inglese) sulla natura e sul ruolo dell’oggetto. Qui l’oggetto all’interno dello spazio domestico era definito come uno degli strumenti più ingannevoli forniti dalla società dei consumi, essendo l’unico strumento e la casa l’unico luogo dove l’uomo si illude di avere ancora qualche libertà, qualche grado di disponibilità alla trasformazione dell’ambiente: “Eliminate tutte le occasioni di intervento all’interno delle strutture ambientali e organizzative della società, le nostre necessità di intervento si scaricano tutte sugli oggetti”96. Su questo concetto, secondo La Pietra, speculavano le aziende produttrici, i loro pubblicisti, i loro designer che concepivano oggetti assemblabili o multifunzionali in grado di dare l’illusione della possibilità di intervento, oggetti che anche grazie alla loro specializzazione tecnologica, fornivano “servizi” o svolgevano lavori altrimenti compiuti a mano o impossibili da compiere, dei quali in breve tempo si credeva di non poter più fare a meno, oggetti che in breve tempo diventavano status symbol. Le abitazioni che ne risultavano erano piene di oggetti, tanto da limitare ogni possibilità, mentale e fisica di partecipazione. Ma attenzione, avvertiva La Pietra, sbarazzarsi di questi oggetti dal proprio spazio abitativo, per sentirsi liberi dalla schiavitù da loro esercitata, non era sufficiente. Bisognava, innanzitutto eliminarli dal proprio spazio mentale.
di Allan Ginsberg. I tre si dichiaravano rispettivamente: Direttore responsabile, Capo dei Giardini (le pagine della rivista erano fioritissime e la rivista veniva venduta accompagnata da una rosa), Direttore irresponsabile.
Occorreva distruggere tutte quelle convenzioni e quelle immagini di cui la mente era stata nutrita dalle logiche del consumismo. “Infatti – scriveva l’autore – è possibile rilevare come queste rappresentano gli impulsi base che determinano in noi i desideri che soddisfiamo o che cerchiamo di soddisfare nella acquisizione di nuovi oggetti. Tutto ciò che portiamo o vorremmo portare nella nostra abitazione corrisponde sempre agli stimoli che a livello d’uso e di comportamento ci vengono imposti attraverso i meccanismi che, l’informazione sottomessa alla speculazione, appronta per generare in noi detti stimoli. Ed ecco quindi che la nostra abitazione invece di essere l’ultimo spazio all’interno del quale poter esprimere il proprio atteggiamento libero e creativo, in effetti diventa il luogo dove si accumulano le immagini e i simboli che esprimono la nostra insoddisfazione e alienazione. Così spesso, se non sempre, il desiderio dell’oggetto è solo esclusivamente la realizzazione di un bisogno che le spinte provocate dall’ambiente sociale in cui viviamo determinano in noi”97.