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Archizoom e Superstudio tra 1969 e primi anni Settanta cambiavano nettamente la loro poetica ed iniziavano a concentrarsi più sulla teorizzazione e la speculazione che sul fare pratico. Si concentravano sempre di più sulla critica dell’architettura e del design dominati dai valori del consumismo e del capitalismo e teorizzavano le loro risposte alla questione, sostituendo

                                                                                                                         

69   J.   Burns,   Un   nuovo   futuro   per   il   design,   tratto   da   Radicals,   saggi   e   critica,   in   G.   Pettena,   Radicals,   architettura   e  

all’attenzione verso il risultato formale, quella per la rifondazione concettuale delle discipline della progettazione.

Nel 1971 le loro strade continuavano ad incrociarsi e i due gruppi contattavano la rivista “In” per realizzare un numero monografico sulla distruzione dell’oggetto70, lo stesso in cui era contenuto l’articolo di Celant. Il direttore della rivista PierPaolo Saporito nell’editoriale definiva la distruzione dell’oggetto come “progressiva eliminazione del feticismo dagli oggetti e dalle comunicazioni sociali ed autoritarie che attraverso l’oggetto avvengono nella prefigurazione di modelli borghesi. Il designer deve operare per togliere dagli oggetti la loro ridondanza semantica e il complesso delle loro sovrastrutture e ridurli a elementi neutri e disponibili”71. L’obiettivo era quello di liberare l’utente dalla supremazia del produttore/designer e lasciare l’opera aperta all’intervento proprio dell’utente. Si passava dunque in questi anni da una sovrastimolazione dell’utente tramite oggetti multi funzione e carichi di proprietà sensoriali (dal colore, alla forma, alla sensazione tattile) alla teorizzazione di una stimolazione che avveniva tramite la neutralità e la riduzione a zero del significato simbolico.

Superstudio, in questa occasione, oltre a presentare dei fotogrammi tratti dal film Architettura interplanetaria72, pubblicava un saggio breve dal titolo Distruzione, metamorfosi e ricostruzione degli oggetti. Lo scritto si apriva con un chiarimento circa la situazione della cultura architettonica, di cui si diceva: “si presenta oggi stabilizzata in categorie e generi autosufficienti e perfetti (…) organizzata secondo modelli tecnologici e artistici e condizionata dalle strutture formali del potere”73. Secondo Superstudio la cultura influenzata dalle strutture del potere non forniva un’immagine del mondo veritiera, ma un’immagine di esso filtrata attraverso i codici semantici finalizzati dal potere. Potere che trovava la sua linfa nella società della superproduzione e del superconsumo e nell’attuazione di processi di imperialismo culturale. Per ribaltare tale situazione l’unica soluzione prevista da Superstudio erano la critica a tutti i livelli del presente e la ricerca di un cambiamento. In questa situazione il design appariva come mezzo di induzione al consumo; l’oggetto come status symbol della società borghese dominante; il possesso degli oggetti come espressione di motivazioni inconsce. Perché il presente giungesse a mutazione, dicevano i

                                                                                                                         

70  Sarebbero  usciti  in  seguito  anche  altri  due  numeri  tematici  di  cui  uno  dedicato  all’eliminazione  della  città  e  l’altro  

alla  scomparsa  del  lavoro.  Al  numero  La  distruzione  dell’oggetto  intervenivano  oltre  Archizoom  e  Superstudio,  anche   Sottsass   jr.,   Ugo   La   Pietra,   i   9999,   gli   Archigram,   Raimund   Abraham,   Max   Peintner,   Bau-­‐cooperative  Himmelblau,   Haus-­‐Rucker-­‐Co.,  Salz  der  Erde  e  George  J.  Sowden.  

71  P.  Saporito,  Editoriale,in  “In”,  n.  2–3,  1971.  

72   Qui   si   immaginava   che   la   Terra   potesse   estendersi   grazie   alla   captazione   di   piccoli   pianeti   gravitanti   in   orbita   sui  

quali  l’uomo  avrebbe  potuto  vivere  e  l’architetto  progettare  senza  gli  assilli  della  cultura  consumistica.  Si  trattava  di   una  sorta  di  modo  per  ironizzare,  sebbene  con  amarezza  sulle  condizioni  frustranti  nelle  quali  l’architetto  si  trovava  ad   agire.    

Superstudio, era necessario operare una distruzione dell’oggetto e cioè eliminare i suoi legami sintattici col sistema e le sovrastrutture che gli vengono imposte dal potere. Una volta fatto questo si poteva tentare una ricostruzione dell’oggetto, non come forma di comunicazione della realtà, ma forma della realtà stessa. Questo poteva avvenire solo eliminando la distinzione tra produttore e consumatore e quindi eliminando il design come induzione al potere e creando un’area vuota che lentamente poteva essere colmata dal “bisogno di fare, plasmare, trasformare, donare, conservare, modificare”74. Il risveglio della creatività era quindi baluardo di un mondo più “sereno e luminoso in cui le azioni ritrovino il loro senso completo e in cui la vita sia possibile in pochi utensili magici”.

L’attacco al consumismo era adesso gestito in modo diverso, partendo da una posizione teorica molto forte. Nel caso dell’approfondimento di Archizoom il pensiero teorico75 partiva da una riflessione di tipo storico che prendeva le mosse dalla rivoluzione industriale fino ad arrivare alla contemporaneità. Con questo excursus storico si voleva mostrare il percorso che aveva portato alla nascita della società dei consumi che, secondo gli Archizoom, aveva portato l’uomo ad asservirsi all’oggetto e a riconoscere ed adottare tanto le leggi della produzione quanto quelle del consumo, trasformando l’uomo stesso ed i suoi bisogni in strumenti del capitalismo. “Distruggere gli oggetti – scrivevano, inoltre - significa dunque liberare l'uomo dalle strutture formali ‘significanti’ che agiscono con le loro interrelazioni come media figurali alla sua azione, condizionandola e reprimendola come tutte le strutture morali, culturali e di comportamento. Ridurre a zero la ‘comunicazione attraverso gli oggetti’ significa anche non intendere il design come struttura portante della figurazione della casa, ma solo come parte neutra, funzionalmente esatta, che ha il solo scopo di sgombrare la casa stessa assolvendo al maggior numero possibile di servizi. II problema non deve più essere quello di garantire le condizioni ottimali sui piano del comfort, permettendo alla casa di funzionare come ‘spazio-vuoto-attrezzato’, cioè come un parcheggio neutro dentro il quale sia possibile operare liberamente al di fuori di una figurazione architettonica e spaziale preesistente. Il diritto ad elaborare privatamente il proprio habitat significa non riconoscere nessuna ‘cultura ufficiale’ e insieme riconoscere nella liberta l'unica cultura possibile. Solo così è possibile evitare l'ennesima elaborazione di un modello ottimale della casa: il vuoto che noi qui descriviamo e una semplice ipotesi strategica”76.

                                                                                                                         

74  Ibidem  

75  Il  testo  era  accompagnato  da  illustrazioni  di  Stanze  vuote,  ora  popolate  da  oggetti  sorti  dall’accostamento  di  forme  

geometriche  alla  maniera  suprematista  che  formano  macchine  e  automi,  ora  da  oggetti  cristalli  formi  che  pian  piano  si   dissolvevano   fino   a   lasciare   la   stanza   vuota.   Altri   disegni   mostrano   invece   stanze   popolate   da   uomini   nudi,   a   voler   evocare  la  condizione  nomadica  dell’essere  umano,  circondati  da  oggetti  riconoscibili  ma  assemblati  alla  maniera  dei   Gazebi  senza  alcuna  correlazione.  

Nell’articolo era trattato anche il tema della distruzione del lavoro, tematica tipica della sinistra italiana, molto attiva in quegli anni, che sosteneva lo slogan “più soldi e meno lavoro” e vedeva nella classe operaia lo strumento indispensabile per lo sviluppo del capitalismo. La distruzione del lavoro avrebbe, inoltre, portato all’attribuzione di un nuovo significato alla casa, non più un luogo della rigenerazione psico-fisica per lavorare meglio, bensì luogo dell’espressione massima del proprio essere creativo. Liberare dal lavoro significava anche “il recupero di tutte quelle facoltà creative ed intellettuali atrofizzate da secoli di lavoro sfruttato”77.

Gli articoli sulla distruzione dell’oggetto erano seguiti da vari altri interventi, tra questi c’era un articolo di Tommaso Trini che criticava aspramente la Pop art ed il Nouveau realisme per aver messo in rilievo l’oggetto come feticcio a discapito della libertà dell’individuo, al contrario riteneva positivo l’uso dell’ironia e del disincanto da parte di alcuni gruppi che così facendo contribuivano alla distruzione dell’oggetto e al recupero della centralità dell’uomo.