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Ritorniamo dunque agli anni Settanta, che si aprivano con l’uscita di un numero della rivista “In- Argomenti e immagini di design” particolarmente importante per i suoi contenuti teorici, Degli altri articoli si parlerà a breve, ma quello su cui ora sembra opportuno focalizzarsi è il breve, seppur denso, saggio di Germano Celant, nel quale il giovane critico rilevava una mutazione di rotta in campo architettonico, e teorizzava l’affacciarsi sulla scena di un’architettura che definiva

                                                                                                                         

66Cfr.  M.  Vitta,  Il  progetto  della  bellezza,  il  design  fra  arte  e  tecnica  ,  1851-­‐  2001,  Einaudi,  Torino  2002;  vedi  anche  M.  

concettuale. Celant era molto critico nei confronti della disciplina che secondo lui aveva fallito i suoi obiettivi, e che nel tentativo di mascherarlo giocava come ultima carta quella dell’impegno politico. Scriveva: “Politica dell’architettura, il fare architetturale si è arricchito di un nuovo slogan capace di rinverdire le tristi vicende di un operare che da decenni dimostra di essere entrato in crisi, non avendo assolto nessuna delle premesse principali su cui si era formata una strategia operativa. (…) La platea architetturale ha assunto nuovi attori che brechtianamente presentano nuovi cartelli inneggianti all’impegno politico, immesso in un condominio in un ghetto per operai Fiat alla Mirafiori o in un villaggio pilota dell’Italsider o dell’Agip”67.

La conseguenza peggiore di questo modo di agire secondo lui era che discorsi politici o socio- estetici non avevano fatto altro che distogliere l’attenzione dalla questione più urgente cioè l’inadeguatezza e la violenza dell’habitat, un luogo caricato di sovrastrutture culturali che lo avevano ridotto a merce. A livello epidermico questo modo di progettare, senza pensare alle necessità e alle libertà dell’uomo, si era risolto nell’esaltazione della tecnologia, nell’adozione di slogan populisti, nel rinnovamento dello styling, nella conferma dell’ideologia borghese, ma non aveva mai avuto luogo il pensare ad una effettiva mutazione radicale della disciplina, dunque concludeva Celant, l’architettura “Dopo aver deturpato e distrutto il paesaggio, dopo aver fatto esplodere le città, dopo aver puntato tutte le sue carte sulla programmazione, sul design, sulla prefabbricazione si trova ora alienata ed isolata sradicata ed asservita ad un sistema che pensava di capovolgere, per cui non le rimane altra possibilità di una giustificazione moralistico-borghese del suo agire e continuare a produrre”68. Celant sottolineava in seguito che l’errore di questo modo di progettare era la riduzione del progetto al prodotto; il progetto realizzato a qualsiasi condizione diventava il fine stesso del lavoro e aboliva ogni fase speculativa che avrebbe dovuto essergli precedente. A questo punto Celant invitava i progettisti a riscoprire la rivoluzione apportata dalle avanguardie storiche, e nello specifico si riferiva al pensiero dell’architettura d’avanguardia russa, quella di El Lissitsky, Salijeskaja. Tatlin, che con la loro opera avevano posto in crisi, non la forma dell’edificio, ma la sua stessa esistenza.   Essi ritenevano infatti che ogni mezzo artistico ed architettonico perdesse sistematicamente il proprio valore specifico in rapporto all'evolversi storico e tecnologico, oltre che comportamentistico, della società, mentre la loro specificità risiedesse nell'intenzione filosofico-attitudinale. Era necessario, dunque secondo l’autore: “Spostare l’attenzione dall’edificio od oggetto architettonico da realizzare all’intenzione ed al comportamento” solo così sarebbe stato possibile recuperare il valore filosofico e attitudinale del fare architettonico e del vivere l’architettura, e uscire dalla trappola della mercificazione. Questo si

                                                                                                                         

67  G.  Celant,  Senza  titolo,  in  “In-­‐  Argomenti  e  immagini  di  design”,  n.  2-­‐3,  1971.   68  Ibidem  

poteva attuare tramite la radicalizzazione dell’architettura che significava fare dell’ideologia, della filosofia e del comportamento in architettura un lavoro di architettura. Detto questo Celant passava analizzare quei concetti che potevano diventare architettonici, o meglio che potevano contribuire a costruire un rinnovamento stesso della disciplina. Identificava, dunque, come utili: le ideologie, le filosofie ed i comportamenti; i media per il loro valore comunicazionale (qui vi era un esplicito riferimento a Mc Luhan), che potevano anche essere variamente messi in relazione tra loro; l’informazione e cioè ogni stesura concettuale scritta o parlata, il saggio, la lezione didattica, il discorso, la conferenza; la committenza; l’architetto stesso, considerato nella sua carica comportamentistica e fantastico- filosofica.

Quello di Celant era, dunque, un commento molto chiaro rispetto alla situazione del mondo del progetto architettonico e si schierava nettamente verso un rifiuto della mercificazione dell’architettura, che significava trasformare questa da fare orientato al prodotto a riflessione sulla natura e l’utilità dell’architettura ed il suo rapporto con l’uomo e con l’evolversi dei suoi comportamenti.

I cambiamenti auspicati ed in parte già avvenuti che Celant rilevava nel suo articolo sarebbero risultati ben presto evidenti, ed infatti nel 1971 l’architetto e storico dell’architettura e del design Jim Burns componeva un catalogo sull’avanguardia radicale europea. Qui Burns notava un cambiamento dei processi creativi tra anni Sessanta e Settanta e scriveva: “ Molti giovani architetti e urbanisti si sono stancati, se non addirittura non l’hanno rifiutata, dell’idea di architetto come ‘master builder’, del ruolo cioè di chi benevolmente produce grandi opere all’interno delle quali la gente può abitare, amare, lavorare. Loro, nelle realizzazioni degli edifici e dell’ambiente, sono i sentimenti e le necessità della gente, cioè degli utenti di quegli edifici e di quegli ambienti. (…) Proprio il coinvolgimento della gente nel processo di cambiamento del proprio ambiente rende diverso il ruolo del designer e del progettista, il quale non dirige più, ma piuttosto guida, come ‘partecipante esperto’ e non come colui che impone un sistema ambientale predeterminato”69.