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La comunicazione dell’oggetto, quindi la sua pubblicizzazione, passava attraverso mezzi soprattutto visivi, quali la televisione, il cinema, i manifesti, i fotoromanzi, i fumetti, i rotocalchi. La televisione ad esempio in Italia, iniziava ad essere un bene in possesso di una fascia di popolazione più ampia; in Italia dal 1957 andava in onda Carosello, programma concepito come una serie di sketch pubblicitari, cui contribuivano grandi registi come Fellini, Avati, Pasolini, Leone, ma anche vari artisti per esempio Piero Gilardi avrebbe creato di Pippo, pupazzo con le sembianze di un ippopotamo usato per gli spot della Lines, e Armando Testa dei personaggi Caballero e Carmencita per Lavazza, dalla cui forma sarebbe poi scaturita nel 1979 la creazione della caffettiera Carmencita di Marco Zanuso). Questa produzione di immagini, rapida ed in continuo rinnovamento generava nelle masse nuovi modelli iconografici di riferimento. Il mondo dell’arte affascinato da tali mutazioni e dal fatto che quel tipo comunicazione potesse creare valore, iniziava ad attingere al linguaggio della merce, sfruttando caratteristiche come la ripetizione o il sovradimensionamento. In Inghilterra prendeva vita, già negli anni Cinquanta l’esperienza dell’Indipent Group del critico Lawrence Alloway.7 A questo avrebbero partecipato Reyner Banham, Richard Hamilton, Edoardo Paolozzi, il fotografo Nigel Henderson e gli architetti Alison e

                                                                                                                         

6  G.  Dorfles,  Iconologia  e  nuove  iconi,  in  "Lineastruttura"  n.  1-­‐2,  1967.  

     

Peter Smithson.  Banham scriveva in quegli anni una serie di saggi sulle tematiche dell’obsolescenza e della spendibilità dei beni nella società dei consumi. Secondo la sua teoria – utile per comprendere l’affermazione della pop art -gli artisti, analogamente a ciò che stava accadendo nell’industria, avrebbero dovuto impiegare il linguaggio simbolico della cultura popolare nelle loro opere. Queste idee trovavano piena realizzazione nelle mostre e nei dibattiti organizzati all’interno dell’Institute of Contemporary Arts di Londra, in cui i partecipanti si concentravano su temi legati alla natura dinamica della realtà e riprendevano la lezione dadaista lasciando emergere l’attitudine a gesti come il recupero e l’assemblaggio di materiali diversi e la volontà di creare una controcultura tramite l’uso e la presentazione di feticci dell’immaginario di massa, come pubblicità, riviste popolari, attrezzi tecnologici. La tecnologia iniziava a giocare un ruolo sempre più importante come si poteva facilmente notare in alcuni progetti radicali dei coniugi Smithsoncome la Unhouse, del 1956, una casa fatta esclusivamente di tubature, interruttori, spine, antenne, impianti di gas, acqua, condizionamento, elettricità, elettrodomestici,oppure nella mostra “This is Tomorrow”, organizzata presso la Whitechapel Art Gallery di Londra nel 1956, in cui il visitatore veniva immerso in un ambiente multisensoriale, tecnologico, fantascientifico e dominato dalla presenza di icone della società mediatica. In mostra veniva esibito un ingrandimento del collage fotografico di Richard Hamilton Just What Is It That Makes Today's Homes So Different, So Appealing? che mostrava un interno domestico, abitato da un body builder che al posto dei manubri sollevava un enorme leccalecca recante la scritta pop e da una pin up che mostrava orgogliosa il seno. In bella vista si trovavano il televisore, un registratore, vari elettrodomestici, un poster di un fumetto, mentre dalle finestra si intravedevano un cinematografo e insegne al neon luminose. Si trattava insomma di quell’ambito di oggetti che Gillo Dorfles , in un articolo per la rivista “Op. cit.” uscito nel 1964, definiva “nuove iconi” e che nel già citato articolo di “Lineastruttura”, uscito qualche tempo dopo riassumeva spiegando come conquesto termine intendesse: “tutte quelle immagini che costituiscono il maggior bagaglio espressivo della civiltà odierna e si identificano nella segnaletica stradale, nei prodotti del disegno industriale, nelle nuove sagome delle architetture prefabbricate, nei cartelloni pubblicitari”8. Era iniziato, dunque, il dominio delle nuove iconi che inevitabilmente sarebbe stato promotore di opere d’arte “siano esse pitture e sculture, siano architetture e oggetti dell’industria”. Tale fenomeno si sarebbe sviluppato in particolare negli Stati Uniti, dapprima con le operazioni di recupero e decontestualizzazione ad opera degli artisti Neo-dada, come Jasper Johns e Robert Rauschenberg, e successivamente con l’opera degli artisti propriamente pop, che si esprimevano usando un linguaggio visivo a sua volta filtrato, assimilato e ritrasmesso dai linguaggi di

                                                                                                                         

8  G.  Dorfles,  Iconologia  e…  op.cit,  p.  13.Vedi  anche:  G.  Dorfles,  Le  "Nuove  Iconi"  e  la  "civiltà  del  consumo",  in  “Op.  cit.”,  

comunicazione di massa. Questo tipo di ricerche arrivava in Italia soprattutto tramite l’edizione della Biennale di Venezia del 1964, in un momento in cui l’informale, , era ancora la tendenza artistica principale9.

Ben presto anche l’architettura iniziava ad adottare linguaggi pop. Andrea Branzi definiva quel clima come un momento ricco di energia che si esprimeva attraverso linguaggi fantasiosi, vitali ed eversivi, ma anche caratterizzato da un estremo realismo. I architettura, infatti per la prima volta ci si accorgeva che anche il paesaggio metropolitano era stravolto dalla cultura dei consumi e dei linguaggi di comunicazione di massa. Se in un passato non troppo lontano, il Movimento Moderno riteneva il momento dei consumi come totalmente inserito dentro una corretta progettazione, all’inizio dei Sessanta il progetto architettonico o di design modificavano i loro contenuti per assorbire all’interno del prodotto tutti i meccanismi di induzione al consumo e di promozione della pubblicità. Queste componenti erano caratteristiche dell’architettura di Robert Venturi, che in Complexity and Contraddiction in Architecture (1966) raccontava la città contemporanea come un luogo inclusivo in cui si ritrova l’accostamento di elementi discordanti, mentre in Learning from Las Vegas (scritto con Denise Scott Brown e Steven Izenour nel 1972) indicava la città del Nevada, con i suoi casinò, i divertimenti, le insegne al neon coloratissime, come il luogo massmediatico per eccellenza.

In Inghilterra, intanto, nascevano gli Archigram. Si trattava di un gruppo di architetti che dal 1961 era occupato nella realizzazione di una fanzine (una rivista autoprodotta) dal titolo “Archigram”, che si rifaceva all’immaginario dei fumetti e dei miti della cultura pop. Il gruppo solo dal 1963 si sarebbe riunito in uno studio. Quell’anno sarebbe stato per loro fondamentale, infatti grazie all’architetto ed editore Theo Crosby avrebbero organizzato presso l’ICA (Institutes of Contemporary Art) la prima mostra dal titolo “Living City”. Era l’occasione per mostrare la loro idea di città riconsiderata dal punto di vista degli abitanti: l’ambiente urbano di solito impostato sulla logica degli edifici (hardware) veniva pensato come qualcosa di flessibile (software) dipendente da coloro che lo vivono. Ben presto il gruppo avrebbe abbandonato i progetti megastrutturali ed avrebbe iniziato a concentrarsi sulla ricerca del pop, dell’underground, del tecnologico - come in Logplug (1964) in cui la natura veniva cablata, o Living- Pod (1965) una casa-guscio attrezzata per meccanizzare tutte le funzioni vitali - ma anche del nomadismo, tipico atteggiamento dell’uomo contemporaneo con progetti come Cushicle (1967), cellula abitativa

                                                                                                                         

9  In  questa  occasione  Leo  Castelli  e  la  moglie  Ileana  Sonnabend  realizzavano,  presso  l’ex  consolato  degli  Stati  Uniti  a  

San  Gregorio,  una  mostra  collaterale  di  artisti  pop,  alla  quale  partecipavano  Jasper  Johns,  Jim  Dine  e  Claes  Oldenburg,   oltre  che  Robert  Rauschenberg,  vincitore  del  Premio  Internazionale  della  Biennale.  

minima trasportabile sulle spalle come uno zaino o Walking City (1964) città astronave dotata di gambe per camminare e spostarsi nel mondo.

In Italia, tra il 1967 e il 1968, la rivista“Marcatré” pubblicava i progetti e le ricerche del gruppo inglese a cura di Patrizia Pizzinato e Angelo Villa che si soffermavano sulle loro immagini che esaltavano la tecnologia, tanto da risultare fantascientifiche e si rifacevano all’iconografia urbana e alla cultura di massa. La loro ricerca era, infatti molto vicina a settori quali quello dei fumetti, del cinema, della moda e dell’attualità. Questo appariva molto evidente nei loro progetti, che sarebbero rimasti per lo più su carta, ma anche nella loro rivista. Per esempio sul n. 4 di “Archigram” appariva un supereroe che sembrava arrivare dallo spazio, creato dalla fantasia di Warren Chalk il quale chiaramente si ispirava ai personaggi di Flash Gordon e Superman; anche la copertina di Yellow Submarine dei Beatles sembrava riecheggiare le Seaside Bubbles progettate da Ron Herron nel 1966.  Il fenomeno dell’architettura pop sarebbe stato profondamente criticato da lì a poco, proprio in Italia, da Navone e Orlandoni nel saggio sull’architettura radicale. Sia nell’esperienza di Venturi sia in quella degli Archigram sarebbe stato notato uno scarto significativo tra l’interesse delle proposte teoretiche e l’insufficienza operativa e progettuale. “Se per gli Archigram - scrivevano i due studiosi – il punto critico è il passaggio dalla proposta formale, creativa, dell’iconografia pop alla concretizzazione di proposte ancora astratte ma tecniche, per Venturi la contraddizione è interna al proprio porsi come tecnico, e consiste nell’incapacità (o impossibilità) di passare dal piano delle proposte teoriche (…) alla concretizzazione di interventi reali”10.

Il fenomeno pop, intanto, si diffondeva anche in Austria, dove veniva interpretato da Hans Hollein in modalità molto diverse rispetto agli americani o agli inglesi. L’architetto nel 1962 pubblicava il Manifesto dell’architettura assoluta. Il perno attorno al quale ruotava la sua teoria era il rapporto tra forma e funzione. Per Hollein, infatti, i due concetti erano assolutamente indipendenti, anzi la forma non solo non doveva seguire la funzione, ma anche quest’ultima si generava solo in una fase secondaria alla progettazione, e quindi generalmente nella fase d’uso da parte del fruitore. Nel suo metodo di progettazione seguiva un procedimento tipico della pop art: partiva da un oggetto o forma preesistente per decontestualizzarlo ed inserirlo in un nuovo contesto.

Per quel che riguarda gli italiani, come già scritto, essi erano a conoscenza degli avvenimenti di cui si è appena trattato e nei loro primi progetti confluiva proprio l’influenza dei temi trattati dai vari esponenti internazionali dell’architettura pop.