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Come racconta Andrea Branzi, il termine radical in ambito architettonico sarebbe stato usato per la prima volta, nel 1969 dal critico Germano Celant, che con tale terminologia intendeva indicare alcune tendenze dell’architettura e del design che si stavano sviluppando all’epoca in Italia.

Nel caso dell’architettura radicale o del radical design possiamo parlare di movimento e non di una scuola o di un gruppo, perché questa tendenza non sarebbe mai stata teorizzata in un manifesto organico, sebbene molti dei suoi rappresentanti avessero dedicato vasto spazio alla teoria o alla raccolta delle diverse esperienze. In questo senso il movimento era profondamente debitore alla rivista “Casabella”, che negli anni della direzione di Alessandro Mendini (dal 1971 al 1976) dedicava molto spazio alla divulgazione delle proposte e delle idee di questa avanguardia. All’interno della rivista assumeva, inoltre un certo rilievo l’uso della parola radical, anche usata come sorta di prefisso variamente declinato. Questa infatti era stata usata in più occasioni: in un articolo di Mendini dedicato a tale avanguardia, Radical Design,    scritto nel 1972 per il numero 367; Radical Story di Franco Raggi, un articolo importante e riassuntivo sulla avanguardia radicale, pubblicato nel 1973 sul numero 382 ; la rubrica di Andrea Branzi Radical Notes, pubblicata a partire dal 1972 e tramite la quale egli cercava di spiegare alla critica e ai lettori in genere, il significato e gli obiettivi di questa avanguardia, a cui egli stesso apparteneva. In uno degli articoli della rubrica, intitolato Strategia dei tempi lunghi, apparso nel 1972 sul numero 370 della rivista, egli scriveva come sotto il termine di radical architecture si potessero raggruppare tutte le esperienze “di questi ultimi anni, esperienze spesso di difficile lettura, che possiedono la caratteristica comune di collocarsi al di fuori della linea netta professionale e di rilanciare, spesso in direzioni contrastanti, una sorta di rifondazione radicale (appunto) di tutta la disciplina architettonica”. Mendini nel 1974 all’interno della collana“Documenti di Casabella”, avrebbe curato l’uscita del volume Architettura “radicale”, un saggio scritto dai Paola Navone e Bruno Orlandoni, da considerarsi come il primo grande tentativo di documentazione e critica del movimento. Il libro si apriva con un’introduzione scritta da Andrea Branzi, in cui egli cercava di chiarire gli obiettivi e le prospettive di questo movimento che raccoglieva in sé varie esperienze internazionali: il controdesign, l’architettura concettuale, la tecnologia povera, eclettismo, il neodadaismo, il nomadismo. Scopo dell’architettura radicale era secondo Branzi quello di assumere

l’utopia come dato dal quale iniziare a lavorare e poi svolgerla realisticamente, “l’utopia non è nel fine, ma nel reale”2, e continuava sostenendo il principio secondo il quale fare architettura non significava esclusivamente fare case o costruire oggetti utili, ma anche esprimersi, comunicare, inventare attraverso strumenti e condizioni architettoniche. Branzi parlava appunto di “condizioni architettoniche” e non di architetture, come a voler sottolineare che il compito dell’architetto non è quello di creare una struttura, ma un ambiente in cui soprattutto era importante il rapporto con l’utente.

Al momento della diffusione del termine la tendenza già era avviata da vari anni. In particolare, erano gli anni tra 1963 e 1966 quando a Firenze iniziavano a manifestarsi le circostanze che avrebbero portato alla nascita del movimento.

Sull’onda della contestazione studentesca, infatti, presso la Facoltà di Architettura del capoluogo toscano, alcuni docenti accoglievano le richieste di rinnovamento della didattica, provenienti dagli studenti e istituivano nuovi corsi che proponevano delle innovazioni tanto dal punto di vista contenutistico che da quello dello svolgimento pratico. Era prevista ad esempio, la divisione in gruppi degli studenti e sotto la docenza di Leonardo Ricci e Leonardo Savioli si svolgevano i corsi di Visual Design e Spazio di Coinvolgimento, che sarebbero stati fondamentali per le idee sostenute successivamente dai radical.

All’epoca studiavano architettura a Firenze: Andrea Branzi, Massimo Morozzi, Paolo Deganello, Gilberto Corretti, Lucia Morozzi e Dario Bartolini, futuri membri del gruppo Archizoom; Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia, poi fondatori di Superstudio, formato anche da Piero Frassinelli, Alessandro e Roberto Magris. Più o meno nello stesso periodo la facoltà era frequentata da altri studenti che avrebbero fondato altri gruppi, come il 9999 formato da Fabrizio Fiumi e Paolo Galli; UFO costituito da Lapo Binazzi, Carlo Bachi, Riccardo Foresi, Patrizia Cammeo, Vittorio Maschietto e Sandro Gioli; Zziggurat fondato da Alberto Breschi, Giuliano Fiorenzuoli, Gigi Gavini, Roberto Pecchioli. A questo primo nucleo di creativi si univa, in sede ancora universitaria, l’apporto dell’opera e del pensiero di Ettore Sottsass jr e di Ugo La Pietra, che operavano a Milano, dove anche Franco Raggi e Alessandro Mendini, erano orientati verso alla divulgazione dell’Architettura Radicale, attraverso “Casabella”, e lo stesso Ugo La Pietra si occupava, tra i vari progetti, della formulazione e della diffusione di nuove teorie, tramite le riviste “In” e “Progettare Inpiù”. Ben presto, anche grazie a questo tipo di attività, tramite la quale si cercava innanzitutto di stimolare i progettisti al confronto, il radical iniziava a diffondersi in altre regioni d’Italia. Si formavano così vari altri gruppi, a Torino il Gruppo Strum, il cui nome è abbreviazione di architettura strumentale, formato da Pietro Derossi, Carlo Giammarco, Giorgio

                                                                                                                         

Ceretti, Riccardo Rosso, Maurizio Vogliazzo; lo Studio 65, inizialmente composto da Franco Audrito, Sampaniotis e Ferruccio Tartaglia; il Gruppo Libidarch attorno cui si raccoglievano Edoardo Ceretto, Maria Grazia Daprà Conti, Vittorio Gallo, Andrea Mascardie Valter Mazzella. Varie altre personalità agivano singolarmente, come Gaetano Pesce che dopo gli studi allo Iuav di Venezia, frequentava il Gruppo N di arte programmata e dal 1965 con la pubblicazione del Manifesto per un’architettura elastica iniziava a dedicarsi alle problematiche della progettazione architettonica; sempre a Padova si formava il Gruppo Cavart; mentre ancora a Firenze conduceva le sue sperimentazioni Gianni Pettena, che però ben presto ha abbandonato l’Italia per raggiungere gli Stati Uniti, ma che all’epoca costituiva una voce importante soprattutto in ambito teorico. L’unico tentativo radical nel sud Italia era costituito dall’azione di Riccardo Dalisi che da Napoli si dedicava a temi quali la didattica e la creatività spontanea.

Per tornare alle radici fiorentine, è necessario specificare che Firenze, secondo Andrea Branzi, mancava di proficui rapporti diretti con la modernità e questo avrebbe favorito in lui e nei suoi colleghi la volontà di creare un’idea diversa della stessa che si ponesse al di fuori della cultura industriale. I corsi universitari tenuti presso la Facoltà di Architettura, avrebbero inoltre, fortemente influenzato la concezione di design che sarebbe poi stata alla base dei progetti dei gruppi sopra nominati. Il corso di Visual design tenuto da Leonardo Ricci, ad esempio, trasmetteva un’idea di design che coinvolgeva vari sottoambiti, dal design dell’oggetto alla progettazione di ambienti, al packaging e alla grafica; ma educava anche gli studenti al forte legame che il design poteva mantenere con l’artigianato. Il docente infatti, presentava a lezione materiali di vario tipo, ferro, legno, cemento o pezzi di scarto a partire dai quali gli studenti avrebbero dovuto lavorare per la realizzazione dei loro progetti.

Per quanto riguarda il tenuto da Savioli si intendeva, invece, indagare un nuovo tipo di rapporto fra l’utente e lo spazio, tramite la progettazione di un locale di svago. Leonardo Savioli nel libro Ipotesi di spazio (1973) raccontava gli obiettivi del corso che aveva: “come scopo principale la progettazione di un locale per la ricreazione e lo spettacolo del tutto particolare: un Piper cioè, da ubicarsi alle Cascine di Firenze. Ma il progetto di questo ambiente era più che altro un pretesto – risultato del resto assai efficace – per una ricerca alle spalle più ampia che permettesse a sua volta di affrontare i problemi che evidentemente furono subito connessi con numerosi altri, quali l’uso di nuovi materiali, di nuovi mezzi di percezione e comunicazione, di nuove metodologie di progettazione”3. In effetti le tematiche affrontate erano varie e complesse come la realizzazione di spazi flessibili e polifunzionali e il rapporto tra i centri storici cittadini e le necessità della cultura di massa.

                                                                                                                         

Sebbene gli stimoli provenienti dai corsi universitari fossero stati fondamentali, per la formazione dei futuri designer, la loro opera sarebbe stata influenzata anche dai loro molteplici e vasti interessi, oltre che dai mutamenti in corso in campo sociale che inevitabilmente si rispecchiavano nell’ambito della progettazione architettonica e della produzione dell’oggetto.