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L’interesse di Panzini per il passato non si limita alle parole e ai modi di dire, ma coinvolge episodi e figure del mito e della storia, da quella antica a quella contemporanea. I riferimenti alla cultura classica e al passato sono in Panzini

133 DM1, Prefazione, pp. XXXI-XXXII.

134 FV p. 823; un altro alter-ego, niente meno che Cicerone, enuncia un’altra differenza fra Panzini e la media degli scritti alla fine degli anni trenta: «forse io ho il vezzo di parlare per vezzeggiativi mentre qui in Roma si parla per accrescitivi» (BL p. 550).

135 La piè è citata anche nella v. Passatore; il suo fondatore, «il poeta dottor Aldo Spallicci» (v. Canterini

frequentissimi, sia nei lemmi e nelle spiegazioni del DM, sia nei romanzi e racconti. Nel DM troviamo fra i lemmi i nomi di tanti personaggi mitici per es. le vv.

Automedonte, Egeria, Giunone, Nemesi, Pètaso (il copricapo di Ermes, citato anche in L

p. 90), Priapo, Tersite e, emblematica del caratteristico buonsenso con cui Panzini spesso interpreta e giudica gli episodi della classicità,

Mida […] domandò al dio Bacco la grazia che tutto ciò che toccasse si mutasse in oro; ed era re di Frigia,

questo idiota!,

un punto di vista irriverente -e per molti irritante- che viene adottato anche all’avvio del cap. X di Santippe:

Vi sono nella vita certe cose meravigliose ed indomite che la ragione di un galantuomo non riesce a capire. Io, per esempio, non capisco perchè Socrate non volle fuggire dal carcere quando quel giorno, che non era né notte né l’alba, venne l’amico Critone e gli disse: «Socrate, fuggi!»,

e che alla fine cede di fronte alle sublimi «belle ragioni» di Socrate (S p. 240).

Altre voci richiamano episodi più o meno noti della mitologia classica, a volte riportando anche indicazioni bibliografiche, per es. le vv. Da Scilla a Cariddi, Icaro (volo

d’), Epigoni, Letto di Procuste, Spada di Damocle, Stalle d’Àugia, Vaso di Pandora, Vaso delle Danaidi, Fatiche d’Ercole (con fonte: «vedi Le Trachinie di Sofocle»), Ercole al bivio (dalla «bellissima favola di Prodico che si legge nei Memorabili di Senofonte e

che il Leopardi tradusse»).

Molti lemmi si rifanno alla storia e alle antichità greche e latine, anch’essi talvolta con indicazioni bibliografiche: vv. Bucefalo, Cane di Alcibiade, Dodici tavole, Duumviro,

Oche del Campidoglio, Vittoria di Pirro, Atellane, Corifeo, Miliare, Pirrica, Pretoriano, Reziario, Antologia palatina (con indicazione di due edizioni moderne), Bocca della verità (per la leggenda che «ne fa autore Virgilio» rimanda al Virgilio nell’evo medio di

Comparetti).

Ci sono inoltre tantissimi richiami alla classicità inseriti in tutt’altre voci: ad es. la Società delle Nazioni nella voce che le viene dedicata è detta, con marcato scetticismo, «sommo aeropago (?) di rappresentanti dei vari Stati, che si radunano (Tempio di Ginevra) per dirigere le cause di conflitto fra le nazioni e conservare la pace (?)», la v.

Caprifico termina dicendo che questo «fico selvatico, a frutti verdi o violetti, non

mangiabili», «ricorda l’aereo fico selvaggio su le mura delle porte Scee di cui Omero ragiona e sotto cui Ettore fu morto da Achille». Anche le vv. seguenti, per quanto riferite a realtà banali e contemporanee, finiscono col parlare di Omero:

Aver gli occhi di bove o di bue: locuzione nostra familiare, che significa veder le cose esagerate, di

maggior importanza che elle non siano. […] Dagli occhi bovini, cioè grandi e nero-azzurri, chiama Omero la dea Giunone; ma oggi una donna non accetterebbe questo paragone136,

Réclame: […] Quanto alla natura della réclame, si tratta di cosa antichissima. Non fece Virgilio la réclame

alla casa Giulia? E Achille, se non avesse trovato in Omero talem praeconem, sarebbe stato così noto?

136 Cfr. anche il cap. XX del Bacio di Lesbia, intitolato La boòpis, secondo il soprannome che Cicerone usa due volte per Lesbia (Epistulae ad Atticum II 9, 1 e II 23, 3): «dicendo Boòpis, Cicerone voleva fare una spiritosa malignità, ché non trovando nulla da ridire sul resto, prende di mira gli occhi di lei, come dire “la occhialona”, “occhi di civetta, occhi meretricii”» (BL pp. 606-607).

Nei romanzi Panzini si richiama in continuazione alle fonti fondamentali della sua cultura, anche al di fuori dei due romanzi “storici”, dove personaggi, oggetti, abitudini della Grecia e di Roma antica sono ovviamente onnipresenti. Capita spesso, ad esempio, che paragoni la realtà contadina a scene classiche137: Mingona filando «ripete il gesto delle antiche donne troiane […]; una volta anche le regine filavano come lei» (PM p. 386); il protagonista della Lanterna ricorda che il «casàro, che versava nell’ombra silenziosa il latte, gli parve un sacerdote che adempie un antico rito di libazione» (L pp. 30-31), che un vecchio contadino molto ricco «pareva nobile come l’antico Laerte, padre di Ulisse, nel fiorente pometo» (L p. 81), descrive le ragazze del mercato che «librano atticamente sul capo, a mo’ di canèfore, le grandi ceste» (L p. 50, cfr. anche L p. 52: «belle col cesto come antiche canèfore»), paragona i pioppi mossi dal vento a «foglie che una Sibilla avesse animate della sua verità» (L p. 104), vede un bellissimo olmo e lo chiama «degno di essere consacrato ad Ercole» (L p. 114). Panzini ama ragionare con termini di secoli fa anche quando non si tratta della realtà contadina: chiama pomposamente i corteggiatori delle «due milionarie» «stupidi proci che aspirano alle loro nozze» (VL p. 296), vede il mare e prorompe nell’esclamazione thalatta, thalatta (VL p. 350). Si parla del teatro antico quando un uomo che annuncia di possedere «uno stradivario» parla «con voce tremante e lenta, quale un anghelos del teatro greco dovea usare per annunciare un portento» (L p. 39), e quando di un personaggio che commenta a voce alta una scena a cui assiste si dice che «adempie quasi alla funzione del coro nell’antica tragedia» (FV p. 773).