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Modi di dire, etimologie e raccontin

Moltissimi sono i modi di dire, sempre tipici del linguaggio colloquiale: le tante locuzioni verbali con fare (vv. Far carte false, Far coda, Far da comparsa, Far da

cuscinetto, Far della camorra, Far della notte giorno, Far due parti nella commedia, il

colloquialissimo Fare i suoi passi, Fare una figura barbina, Fare un viaggio e due

servizi, Far fagotto, Farla cascare dall’alto, Far fiasco, esportata in francese e in

tedesco, fatto commentato dalla freddura finale «ecco il caso di una locuzione che può vantarsi di non aver fatto fiasco») e moltissime altre, per es. le vv.: Attaccar la voglia al

chiodo, Essere il gallo della checca, Legarsela al dito, Tenere i piedi in due staffe, Me lo saluta lei?109, Dare gli otto giorni (col commento banale, ma forse inatteso per il 1922, «oggi è difficile trovare donne di servizio, e sono piuttosto esse che dànno gli otto giorni»).

Non di rado i modi di dire sono spiegati ricorrendo ad un aneddoto, storico o leggendario, che ne racconta l’origine, oppure ricordando esperienze o pratiche un tempo comuni. Panzini ammette che spesso si tratta di tentativi di etimologia che poco hanno di scientifico, e che talvolta sono di sua completa invenzione:

molte volte la storia e la ragione della parola o del motto mi riuscì impenetrabile, e…. me la sono cavata

108 Le etimologie proposte per naja e spago, vengono corrette da Schiaffini e non sono attualmente

accettate. Secondo Fabio Marri, Panzini riscatta i frequenti errori in fatto di etimologie con l’«accertamento filologico degno di uno storico vero» che impiega in altre voci e «scrupoli documentari degni di un lessicografo storico» (MARRI, cit., pp. 65-66 e 72)

109 «Si dice di cosa che si vuole, ma non c’è»; cfr. il romanzo Gli indifferenti: Maria Grazia parla a Leo della più seria conseguenza di un loro trasloco dalla villa in un appartamento: «tutti ci volterebbero le spalle… la gente è fatta così… e allora, me lo saluta lei il matrimonio di mia figlia?» (A.MORAVIA, Opere

1927-47, a c. di G.PAMPALONI, Milano, Bompiani, 1986, p. 38). Il modo di dire compare nelle Aggiunte di

come meglio ho potuto: se alcuno mi vorrà erudire, mi farà favore e già lo ringrazio110,

(cfr. anche l’avviso che precede il noto aneddoto che illustra la v. Busillis: «la spiegazione che si dà di questa parola è la seguente, e vale per quello che vale»). Panzini accoglie o inventa con gioia questi raccontini, con la nota felice vena nell’abbozzare una storiella in poche righe, che -come è già stato notato- non di rado fa nascere il sospetto che la voce stessa debba la sua inserzione nel DM al desiderio di includervi l’aneddoto111.

Fra gli aneddoti più o meno credibili raccontati, si possono ricordare le vv.

Fico (conoscer): modo di dire toscano: l’ho conosciuto fico. Io non so in che villaggio, un famoso

predicatore, a fin di quaresimale, brandì il crocefisso e […] lo avvicinava alla faccia di ciascun fedele: che lo baciasse e si pentisse dei suoi peccati. E ciascuno baciava piangendo. Quando si trovò di fronte al falegname del villaggio, il predicatore porse il Cristo anche a lui. Ma il falegname, che aveva ritagliato il crocefisso da un fico infruttifero nel suo orto, invece di baciarlo si trasse indietro: «No, caro; t’ho conosciuto fico, e come non hai fatto fichi, non farai grazie». A Napoli l’ho conosciuto piro (pero),

Chillu filu!: quel filo! Questa espressione ebbe qualche voga: il brigante Musolino, calabrese, fu catturato

dai carabinieri proprio a caso; e sarebbe fuggito come tante altre volte, se uno di quei fili di ferro che sostengono le viti, non l’avesse fatto cadere. Chillu filu, cioè la fatalità. Meglio, chiddu filu,

cfr. anche le vv. Honny soit qui mal y pense (detto collegato a due episodi della vita di Enrico III d’Inghilterra), Papaveri (alti), da «un’antica leggenda romana di Tarquinio il Superbo», Far fiasco, Frondeur, Sanculotto, Marionette, Oncle Sam…

Quanto alle locuzioni o parole che possono avere avuto origine nella pratica, sono presentate dubitativamente le spiegazioni per le vv.

Roba da chiodi: nella frase dir roba da chiodi, dire, cioè, ogni specie di male, ingiuriare nel modo più

offensivo e malefico. Roba da inchiodare, nel senso di crocifiggere?,

Venire ai ferri corti […]: si dice quando nei litigi o questioni è messo da parte ogni riguardo o cautela:

ferro corto è il pugnale, onde la locuzione deve trarre origine da questa forma risolutiva e feroce di

combattimento,

Egitto: spesso, ribattendo sgarbatamente scuse o affermazioni altrui, si ripete l’altrui parola con l’aggiunta

d’Egitto, che nega e riprova; modo familiare. (Forse l’Egitto come luogo a noi remoto per tempo, luogo,

costume),

Tenere a stecchetto: dare troppo parsimoniosamente il necessario e con rigore eccessivo: antica e viva

locuzione nostra. Stecchetto, quasi stecchito? […] Dedotta dal modo come si alimentano i nidiaci, imboccandoli con lo stecchetto?.

110 DM1, Prefazione, p. XIII.

111 MARRI, p. 80 cita parole o espressioni dialettali messe a lemma per «conservare un pezzetto di civiltà destinato, forse a scomparire» o per ricordare episodi gustosi; cfr. anche i raccontini compresi nelle vv.

Compagnia della Lesina, Flagellum dei, Iettatore, Stetoscopio, Tenno, Venerdì… L’abilità di novelliere

“minimo” si nota anche nel Panzini dei romanzi e delle novelle: cfr. la metaletteraria serie di episodi, raccontati in una paginetta o poco più, che diverranno altrettante novelle scritte dal protagonista della

«Repubblica delle lettere» (FV pp. 814-26; quella abbozzata a p. 824, Il tesoro di carta, era già riferita,

lumeggiando particolari differenti, in L p. 112), i brevi resoconti degli incontri fra «signori» e «comunisti» all’epoca delle leghe contadine (PM pp. 491-95) e le quindici righe che raccontano con sorprendente vivacità e ricchezza di dettagli la tragica morte del padre del protagonista in CN p. 666.

Sono illustrate come più sicure le origini dei modi di dire

Essere o ridursi al lumicino: locuzione toscana che vuol dire morire; dal lumicino che si accende nella

stanza dei morenti […],

Far la civetta: locuzione familiare, detta delle donne che per vanità o capriccio si studiano di sedurre,

acchiappare i merli, nel modo stesso che la civetta chiama al paretaio gli uccelli,

Far la festa a uno: […] vale uccidere, e anche giustiziare. […] Il Salvini (Annot. alla Tancia del

Buonarroti, p. 573) annota: «far la festa a uno, perchè quando si fa giustizia, è come si facesse una festa, e

il popolo viene come a una solennità». Meglio intendere come antifrasi,

cfr. anche Aver le mani in pasta («traslato evidente dal fornaio che lavora la pasta»),

Essere al verde, Cuculo (fare il), Fare l’occhio di triglia, Far l’orecchio da mercante, mettere i puntini sugli i (v. I).

Anche molte singole parole sono spiegate con un fatto storico o con un’antica abitudine, per esempio Bancarotta («era infatti costume antico rompere il banco al banchiere fallito»), Biolca («etimologicamente, quanto può arare un bifolco in un dì»),

Strozzinaggio, Pantalone (con la fantasiosa ipotesi «Pantaloni furono chiamati gli antichi

veneziani, da un corrotto pianta leoni, perchè in tutte le terre di nuovo acquisto mettevano lo stemma marmoreo del leone alato, indizio di imperio»).

In altri casi, specie per le singole parole, Panzini cerca di riportare delle etimologie scientifiche (o quasi…) riconducendo le parole a radici latine, greche o germaniche112, specie per tante parole del linguaggio scientifico di nuova coniazione (per es. Ematopoetici, Ematosi, Embolia dal greco). Vengono ricondotte al latino (e sono occasione per digressioni che descrivono costumi di popoli diversi) le vv.

Desinare: con questo verbo, secondo l’etimologia più probabile, cioè da dis-junare, dedotto da disjejunare,

latino = rompere il digiuno, si indicò in origine il primo pasto del giorno, e quindi il pasto più copioso, che in molte città e nel contado si fa a mezzodì, e che il popolo dell’alta Italia dice desinare, e non pranzare. Cfr. il fr. déjeuner […]. Gli inglesi usano il break-fast (rompere il digiuno) colazione copiosa del mattino; poi il dinner, al tocco; poi il the classico delle ore cinque; o il lunch (merenda), poi il supper (cena) sul tardi. Popolo imperiale, delicatamente mangiatore,

Lavabo: questa voce nei dizionari nostri è registrata nel senso di acquaio delle sacrestie. In tale senso la

parola proviene dal futuro latino del verbo lavare: lavabo inter innocentes manus meas, preghiera che recita il sacerdote lavandosi le dita durante la messa. Nell’uso, lavabo vale lavamano elegante, dal francese: senso eletto, moltissime volte notato, che hanno fra noi le parole straniere.

Si ipotizzano modifiche di trafila popolare e paraetimologie per voci come

Sputato: nella frase familiare essere nato e sputato, cioè simigliantissimo, vero, patente, sembra rispondere

al latino purus putus = paro e pretto, trasformato il secondo aggettivo in putatus con l’s intensiva,

112 L’analisi delle etimologie è un vezzo che tocca anche i romanzi, in cui reminescenze etimologiche interrompono le descrizioni di un orto («rosmarino (ros maris, cioè “rugiada del mare”)», L p. 104), di un boschetto («nella mia mente d’improvviso apparve l’unità della radice nelle due parole: “lussureggiante”, detto dei pioppi, e “lussuria”, detta della piccola attrice», L p. 121), e i vagheggiamenti di Catullo («il mondo è così bello, così elegante, così puro, come hanno detto i Greci che lo hanno chiamato “cosmos” e i Romani lo hanno chiamato “mondo”, che pur vuol dire: adorno e bello», BL p. 640-41).

Stravacato: torto, coricato, rovesciato, versato, da stravacare, verbo plebeo, usato nei vari dialetti, e

dedotto — pare — da un extravacuare = rivoltare, far vuoto, vacuus. Ma nell’etimologia popolare c’è l’imagine della vacca sdraiata; e ciò è dimostrato dalla grafia con due c […].

Derivano invece da radici germaniche fra gli altri

Banale: […] corrisponderebbe all’italiano bandito, anche pel suo valore etimologico, da ban = bando, cioè

lo stendardo (cfr. bandiera), poi il proclama feudale che si faceva mercè il vessillo: banale significa ciò che era di uso pubblico per effetto di bando, poi ebbe il senso di vulgare, comunale,

Fard: voce francese, che vale belletto. Cfr. l’antica voce italiana farda e il verbo inzafardare; ambedue

paiono derivare da una parola tedesca, da cui Farbe = colore. Così fardée, in certo linguaggio mondano, pare più dicevole che imbellettata.

Voci da nomi propri di luoghi o persone

Il DM -spesso correttamente- rintraccia l’origine di molte altre parole in un nome proprio, di luogo o di persona. Il luogo è quello di provenienza della merce, o quello dove l’oggetto è stato inventato:

Pilsen: nome di una birra chiara, frizzante, dalla città di Pilsen in Boemia, ove si fabbrica,

Seltz (Acqua di): nota acqua minerale artificiale che prende il nome dalle sorgenti di Niederselters,

villaggio della Prussia,

cfr. anche la pelliccia di Astrakan, i sigari Avana, i cristalli Baccarat, le porcellane

Limoges, l’acqua di Vichy; meno piacevole il ricordo, nel prodotto noto come Yprite, «gas

asfissiante tedesco», della «distrutta città di Ypres»113.

Se invece il nome deriva da quello di una persona, si può trattare dell’inventore:

Elzevìr: fu nome di una celebre famiglia di stampatori olandesi del sec. XVII, che a Leida ed Amsterdam

pubblicò con nitide e corrette edizioni molte opere, specialmente dei classici latini. I caratteri di quelle preziose stampe essendo tornati di moda, e al carattere convenendo uno speciale formato elegante, così si disse un elzevir ed anche un elzeviro per significare un volume stampato a quel modo. […] In gergo giornalistico, l’articolo di varietà o novella nella terza pagina del giornale: mi mandi un bell’elzeviro,

Pralìne: un cuoco del signor du Plessis-Praslin inventò le mandorle toste o candite, chiamate poi amandes

à la prasline e poi pralines […],

(cfr. anche Béchamel, Dagherrotipia, Elzevìr, Ghigliottina, Marconìfono e derivati,

Stradivario…). Spesso l’inventore è anche il produttore della cosa, ed ecco che molti

oggetti nuovi assumono antonomasticamente il nome della ditta produttrice o del primo prodotto di quel tipo messo in vendita114: fra i marchi commerciali nel DM troviamo le voci aspirina, borsalino («dal nome del fabbricatore d’Alessandria nel Piemonte»),

113 Ad un “luogo” di provenienza sui generis si deve il nome Andrienne per la «vestaglia a larghe maniche, in uso nel secolo XVIII, così detta perchè secondo il modello immaginato dalla attrice Dancourt nella parte di Glicera nell’Andrienne di Michele Baron».

114 Cfr. F.ZARDO, Nomi di marchio e dizionari, in «Studi di lessicografia italiana», XIII (1996), pp. 365-92 (del DM si parla soprattutto alle pp. 378-79).

Burberry, Kodak, Plasmon, Yale,

Baedeker: (bedèker) nome delle guide di ogni principale paese in varie lingue tradotte […], così chiamate

da Carlo Baedeker (1801-1859) di Essen, libraio di Coblenza, che primo imaginò cotali manuali115,

Citroën: vetturetta automobile francese, che «mette l’automobilismo alla portata di tutte le borse» (non

della mia) (1925),

(l’ultima battuta, che ancora una volta mette in primo piano l’autore, è omessa nell’ultima edizione), l’insetticida Flit (con soddisfazione Panzini annota che «uccide mosche, scarafaggi, ma le formiche, no»), il marsala Florio, il ricostituente Fòsfol, l’estratto di carne Liebig, il «blando antisettico» Lysoform, le automobili di lusso Hispano Suiza e

Rolls-Royce, il liquore Strega, il dentifricio tedesco Òdol «già lanciato anche fra noi con

enorme pubblicità», etc. 116.

Altre volte, gli oggetti prendono il nome da un personaggio celebre che ne faceva uso, come per la v.

Suwarov: nome di generale russo, a noi specialmente noto nella storia per le sue vittorie sui francesi nel

1799: lasciò il suo nome (oh, gloria degli uomini!) per indicare una specie di coturno o stivale elegante […],

(cfr. anche Sandwich); oppure si tratta di qualcuno che ebbe a che fare con la cosa:

Boicottare: dall’inglese boycott, cioè congiurare contro qualcuno rifiutando ogni rapporto di compra e

vendita […]. Metodo di lotta politica e commerciale praticato primariamente dai Land-Leaguers in Irlanda. Il capitano Boycott irlandese fu prima e notabile vittima del sistema: da esso il nome della cosa […],

(cfr. anche la v. Calembour e la varietà selezionata di grano Edda, «in onore della figlia del Duce»). A volte è un nome famoso che poteva ricordare in qualche modo l’oggetto, per similitudine

Carnera: voce effimera popolare data ai giganteschi camion e autotreni stradali (da Carnera il gigante

pugilatore), 1934,

o per antonomasia:

Sparafucile: propr. chi impaurisce sparando il fucile, minacciando a vuoto, indi scherano, bravaccio, in

senso spregiativo e figurato. Personaggio del Rigoletto,

Sosia: nella commedia L’Anfitrione (Plauto, Molière), Mercurio assume l’aspetto di Sosia, onde il giuoco di

due persone simili. I francesi dicono appunto Sosie di individuo ad altro somigliantissimo. E così pure da noi.

Spesso l’antonomasia è solo una scusa per lemmatizzare dei nomi propri:

115 I baedeker sono nominati spesso nei romanzi, anche se non molto apprezzati: ad esempio, il protagonista della Lanterna sulle prime pensa di reagire maleducatamente alla domanda di un tedesco munito di tale libretto: «“Al diavolo te e il tuo Baedeker”, dissi mentalmente», e poi gli esprime apertamente le sue riserve, in latino: «Noli in isto ostrogotico Bèdeker quaerere Italiam, domine professor» (L pp. 19 e 21). 116 Su odolizzatevi!, che fece epoca, cfr. A.SANGREGORIO, Precedenti pubblicitari del tipo «vespizzatevi!», in «Lingua Nostra», XXXIII (1972), pp. 21-22.

evidentemente si tratta di personaggi, reali o letterari, che hanno colpito l’immaginazione dell’autore e di cui desidera ricordare le imprese: per esempio le vv. D’Artagnan (fino a DM5 Panzini giustifica l’inserzione del nome perché divenuto «presso che proverbiale e antonomastico»117), Cid Campeador («qui il nome storico è registrato perché talora occorre nell’uso come voce antonomastica»), Anfitrione, Attila, Brummel, Mata Hari («la più romanzesca fra le spie di Guerra», secondo una delle Aggiunte a DM7, probabilmente sollecitata dalla «interessante narrazione della sua fine in Corriere della Sera, 19 settembre 1934», ivi citata), e il lunghissimo racconto (con commento) delle piccanti vicende del personaggio biblico nella v. Susanna.

Serial killer e Galgenhumor

Due gruppi cospicui di personaggi storici celebri lemmatizzati col loro nome nel DM sono le stelle del cinema, di cui parlerò più avanti, e quelli che attualmente sono chiamati serial killer. Panzini rimase evidentemente molto colpito dai loro crimini, perché non solo include nel DM le vv. Barbablù-Barbe-bleu, Landrù, Jack the ripper, ma rimanda dall’una all’altra come per per assicurarsi che esse non vengano trascurate. Per es., la v. Barbablù è un rimando: «v. Jach e Barbe-bleu» (evidentemente il primo rimando è alla v. Jack the ripper) alla fine della v. Barbe-bleu troviamo «v. Landrù»). Inoltre, aggiorna via via le varie edizioni del DM con nuovi episodi di cronaca nera. Mi limito a riportare la v.

[1905] *Jack the ripper: […] Giovanni lo sventratore. Fu un ignoto assassino (pare fosse un celebre medico fornito di doppia personalità) il quale in Londra, l’anno 1888, fece strage di alcune donne di mala vita. Nè è meraviglia che il fatto si ripeta, giacchè si tratta di perversione sessuale, congiunta ad istinti sanguinari; [1923] v. Barbe-bleu. Celebre anche Landrù (1922). [1927] Celebre Harmann, il vampiro di Hannover. Sempre superamenti!

Così la quinta edizione; appena otto anni dopo, in DM7, Panzini inserisce al posto dell’ultima frase i recenti «superamenti», ovvero i nomi e le imprese di altri maniaci omicidi: «Celebre un ignoto stupratore e uccisore di bambine in Roma. Celebre il mostro di Düsseldorf, certo Peter Kürten (1930). La serie continua. Donne in baule o il valigia». Nei commenti che chiudono la voce sembra di cogliere un “entusiasmo” del tutto fuori luogo; un cattivo gusto analogo si incontra nell’umorismo macabro di alcune voci- freddura, forse inserite dall’autore proprio per la loro arguzia, più mal collocata che mai:

Infortunato: persona cui capitò disgrazia (infortunio) sul lavoro, e può anche diventar fortunato; o

morendo, far fortunati i suoi,

Sparatoria: rissa a colpi di rivoltella, in cui di solito è colpito chi passa,

Sedia elettrica: […] la meno comoda delle sedie, benchè a braccioli (Prigione di Sing-Sing a Nuova York

e altrove) […],

Acéfalo: termine di ostetricia, mostruosità del feto: senza testa. (Molti acefali hanno la testa!),

117 Infatti in VL p. 302 una delle «due milionarie» parla dello spasimante dell’altra: «el xe un pitor

futurista, che fa el romantico, el d’Artagnan». Per i personaggi di opere letterarie lemmatizzati nel DM cfr.

(cfr. anche i cinici fulmina in clausola, se così si può dire, delle vv. Fiammiferi svedesi,

Zooprofilassi, Zoopsiche). Non meraviglia dunque che il DM fin dalla sesta edizione

comprenda una spiegazione abbastanza dettagliata della v.

*Galgenhumor: voce tedesca, spirito patibolare, da forca. Un tale nell’apprendere che il lunedì doveva

essere impiccato, osservò: che brutto principio di settimana! E un altro, dopo aver bevuto il bicchiere di rum: «è di quello buono. Vorrei trovarne della stessa qualità nell’altro mondo». E un altro rifiutò davanti alla forca il tradizionale bicchiere di rum, affermando di non avere mai bevuto liquori e di non voler cominciare in quel momento. «Salvatemi dai topi or che son unto!» E non era un impiccato. E Socrate «Offrite un gallo ad Esculapio».

Quanto ai romanzi, Panzini si sforza in Santippe di mostrarsi -passi l’ossimoro, chè di questo si tratta- amabilmente cinico paragonando i vari tipi di «morte legale» e la cura con cui i carnefici vi si preparavano, infine facendo notare che rispetto ai «lugubri progressi tecnici» (ghigliottina, sedia elettrica, impiccagione) la cicuta aveva il vantaggio di essere «una maniera più intima e meno spettacolosa» per uccidere (S p. 242). Una certa dose di umorismo nero si rintraccia anche in PM a proposito di un giovane che professa con entusiasmo le idee della filosofia idealista, secondo il protagonista Zvanìn semplicemente «un gran “studiante” […] matto per due con la faccenda del cervello» (PM p. 458, alle pp. 458-59 i sermoni del giovane). Dopo qualche capitolo arriva la notizia della sua morte in guerra, laconicamente commentata dallo stesso Zvanìn: «una bomba gli portò via la testa con dentro il cervello, lui che ci teneva tanto!» (PM p. 485).