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ULRICO HOEPLI EDITORE MILANO 6>T

[1931] DELLE PAROLE CHE NON SI TROVANO NEGLI ALTRI DIZIONAR

MILANO 3-5 ULRICO HOEPLI EDITORE MILANO 6>T

[1905] A MIO PADRE

EMILIO PANZINI

MEDICO 1831 – 1885 [1923]

Sarebbe opera degna di questo secolo ed utilissima… un vocabolario universale europeo, che comprendesse quelle parole, significanti precisamente una idea chiara, sottile e precisa, che sono comuni a tutte o alla maggior parte delle moderne lingue colte. Questo vocabolario sarebbe utilissimo… massimamente all’Italia, la quale dovrebbe vedere quanta copia di parole, che tutta l’Europa pronunzia e scrive, e riconosce per necessarie, ella disprezzi e proscriva. E la lingua italiana dovrebbe adottar (?) le dette voci senza timore di corrompersi più di quello che si siano corrotte con l’adottarle tutte le altre lingue europee.

Conte GIACOMO LEOPARDI (1821).

[1] A MIO PADRE…(1821).] Ø 8

[1905-1908] PREFAZIONE ALLA PRIMA EDIZIONE. Ragione e natura dell’opera considerandolo stato presente della lingua italiana → Suppl. 1

[1905] AVVERTIMENTO AL LETTORE

[1905] RISPOSTE ALLA PREFAZIONE DELLA PRIMA EDIZIONE → Suppl. 1 [1908-1927] PREFAZIONE ALLA SECONDA EDIZIONE → Suppl. 1

[1918-1927] PREFAZIONE ALLA TERZA EDIZIONE → Suppl. 1 [1923-1927] PREFAZIONE ALLA QUARTA EDIZIONE → Suppl. 1

[1927] AL LETTORE / PREFAZIONE ALLA QUINTA EDIZIONE → Suppl. 1 [1931] PREFAZIONE ALLA SESTA EDIZIONE → Suppl. 1

[1939] DI QUESTA OTTAVA EDIZIONE → Suppl. 2

[1935]

DICHIARAZIONI ALLA SETTIMA EDIZIONE

Nel pubblicare questa settima edizione del mio Dizionario Moderno, mi pare necessario dichiarare un po’ meglio che cosa esso è, e come va trattato e considerato.

Non che vi sia bisogno di presentazione, chè anzi quest’opera è abbastanza conosciuta ed è consultata; mica dai dotti, ma da ogni gente, che me ne scrivono, e mi consigliano, e anche mi domandano consigli.

È necessaria per prima la dichiarazione che segue, anche se ripetuta altre volte e stampata sul frontespizio: questo Dizionario non contiene tutte le parole, come gli altri dizionari, ma soltanto quelle che si cercano altrove, e altrove non si trovano. Ma anche questa cosa va intesa con discrezione

Se poi si trovano parole comuni agli altri dizionari, è perchè hanno avuto una deviazione di significato, sia pure per lieve sfumatura. Per esempio: la parola Nonna è in tutti i dizionari, ma in questa settima edizione si legge così:

«Nonna, e anche Nonno: sono parole che richiamano vecchiezza, perciò poco

ricercate nel giovane Novecento».

Sciocchezze! Non dico di no, anzi il Dizionario ne è pieno, e io ne porto tutta la colpa: quest’opera è del tutto personale, e se non fosse per la mia modestia, direi originale e inimitabile: e la strada se l’è fatta da sè, e ne sono ancora meravigliato.

E con ciò vengo ad altra dichiarazione che mi sta a cuore: questo Dizionario chiamato moderno, appunto per rimanere moderno è costretto ad ogni stagione, cioè per ogni edizione, di fare come le biscie: mutare la pelle.

E nel frattempo, fra l’una e l’altra mutazione, le parole fanno un tale turbinio anche durante la notte, che non permettono di dormire: «Ehi! registra anche me! correggi qua! modifica là!...».

Per capire questa specie di tormento, bisogna pensare che qui non è stato lavoro di filologia o di lessicografia, dove un dizionario aiuta a fare un altro dizionario: ma è stata una caccia a parole erranti, vaganti, senza legge, di vita così effimera, di aspetto così brutto che veniva da domandare: mette il conto di raccogliere questa roba?

L’operazione poi di mutar pelle è di solito faticosa, e questa volta fu anche più che mai; e chi confrontasse la presente settima edizione, che è di questo 1935 con quella precedente, la sesta, che è del 1931, troverebbe che quasi ogni voce è stata ritoccata;

troverebbe più e più migliaia di nuove voci aggiunte, e con tutto questo il presente volume supera di ben poche pagine la mole del precedente. Ciò è costato molta fatica, così che io meriterei il titolo di cavaliere della pazienza.

«E chi vi ha detto -, mi si può chiedere -, di sobbarcarvi a questa fatica?».

È vero: ma è che quando, in un anno lontano, io presentai al signor Hoepli il timido manoscritto di questo Dizionario, non mi passava, neppure per l’ombra della mente, la possibilità di una seconda edizione.

Quando mi presentai davanti al trespolo impressionante, su cui sedeva e girava e scattava il signor editore Hoepli nella sua libreria, austera come un tempio, correva l’anno 1903.

La prima edizione, infatti, è di due anni dopo, 1905, e porta una bella prefazione su la ragione e natura dell’opera, considerando lo stato presente della lingua italiana: e

tanta umiltà era in me che mandai questa prefazione per giudizio e consiglio ai migliori uomini che nelle lettere erano allora vivi fra noi, e ne ebbi risposte, e queste risposte pubblicai in fine al volume; e così rivedo i nomi di Raffaello Fornaciari, di Mario Pratesi, di Salvatore Farina, di Rodolfo Renier, di Giuseppe Sergi, di Alessandro d’Ancona, di Costantino Nigra, che era ambasciatore a Vienna, ecc. ecc.

Rivedo i nomi e non rivedrò più le persone; e così non rivedrò più il signor Hoepli. L’ultima lettera di lui è del 2 ottobre scorso, 1934, e dice, a proposito di questa settima edizione: «Penso che convenga uscire a fine dicembre o ai primi di gennaio 1935».

Ben mi duole che alla nascita di questa settima edizione non sia presente il signor Hoepli. Egli è stato portato via in questi giorni; e per quanto me ne addolori, mi consola il pensiero, che fu portato via come da un soffio di sonno, senza dolore.

Quali registrazioni di nuove parole faremo, signor Hoepli, là dove aura mondana non muta?

Noi registreremo tuttavia una sua frase, antica e novissima, che egli mi scriveva, il 22 luglio 1932: «L’avvenire non è nostro, ma di Dio»; e se alcuno dirà che il signor Hoepli, quando scrisse così, aveva raggiunto quasi gli anni novanta, risponderemo che la sua mente in così tarda età non era meno vigile che nella virilità, e la fede nella vita era piena e serena, e il suo spirito era aperto nell’accogliere tutte le modernità della scienza e della tecnica, non esclusi i voli -, non dico della fantasia -, ma dell’aria.

Dunque era il 1903, quando mi presentai col manoscritto del Dizionario Moderno al signor Hoepli, e se si consideri che questo lavoro era frutto di molti anni di precedente lavoro, noi ci veniamo a trovare in pieno Ottocento.

Dunque il Dizionario Moderno in questi trenta anni, chè tanti ne corrono dal 1905 al I935, ha mutato pelle sette volte, però la prima struttura si rivela ancora, nel modo stesso che un edificio, anche se mutato e rinnovato, rivela, specie alle persone tecniche, la prima origine, e sinceramente e per quanta affezione io porti a questo figlio di carta con tanta fatica generato, qualche volta mi domando: «Via! Non è meglio un colpo di piccone, risolutivo anche per lui, e che altri faccia, ex novo, come diceva il signor Hoepli, e con nuovo stile?».

Sento adesso la stanchezza di questo quasi mezzo secolo di lavoro, e l’idea di un dizionario mi fa un’impressione morbosa di spavento. Ecco la necessità di essere giovani e nuovi, e per i dizionari, e per tante altre cose della vita.

E così si presenta un’altra dichiarazione da offrire ai lettori.

Nel tempo che il Dizionario era in gestazione, si citava la «Crusca», si consultavaanche il «Lessico dell’infima e corrotta italianità del Fanfani e Arlìa», poi vennero i «Neologismi buoni e cattivi» del Rigutini: nelle nostre scuole, pur in quelle

tecniche, la grammatica e la retorica erano onorate, - bene o male -, al fine di apprendere il meccanismo delle parole, e quali sono parole proprie ma non pure, e quali sono pure ma non proprie; e come insieme esse si compongono per dare forma al pensiero, e come la chiarezza del pensiero si manifesta nella chiarezza del periodare.

Il Dizionario, sia pur moderno, si risente di quest’aura, di difendere la purità della favella paterna e materna.

La difesa della favella natia è la difesa dell’onore della nazione: la conservazione della sua originalità è la conservazione dell’anima stessa della nazione.

Questo era il mio sentimento di allora, e devo ammettere che tale ancora rimane e tale appare anche in questa settima edizione. E i giovani si accorgono che sotto la veste

moderna sta nascosto qualcosa che ricorda i vecchi puristi, e perciò dicono così, press’a

poco: «Sotto la veste delle ironie e di una benignità di dubbio buon gusto, noi sentiamo in voi il purista e anche il pessimista. Voi volete parere tollerante, e invece siete intollerante».

«Ah, metteremo noi mano al nuovo inventario delle parole e dei modi di dire vivissimi, che sono nati in questa aura moderna». «Voi siete diffidente, nutrite curiosità mista a sospetto verso i neologismi».

«Il mondo cammina, cammina, la terra cammina, cammina la lingua».

E d’altra parte, per onore di verità, devo dire che vi sono tanti, ma tanti e più che non si creda, che mi fanno sapere anche per lettere, che sono pieni di indignazione per tutte queste parole arbitrarie, che ognuno le crea e usa a suo modo, e astrattismi continui, e deformazini. Dicono: «faccia cessare questa vergogna, quest’obbrobrio! I significati delle parole sono capovolti, l’uso consacrato nei secoli è sconsacrato!».

Queste voci si fecero tanto insistenti che a qualcuno ho dovuto rispondere che non sono io il custode della lingua italiana.

È difficile accontentare tutti, come in quella bella favola del padre, del figlio e di un asino soltanto.

Il disagio di queste opposte voci è da aggiungere a quel senso di stanchezza che ho detto in principio.

Che tutto si rinnova e cammina, è tra le più antiche sentenze di Eraclito, ed ecco altre dichiarazioni per la intelligenza di questo Dizionario:

Quando esso nacque, si diceva fin de siècle. Tutto ciò che era fin de siècle, era

dernier cri. Le gherontocrazie avevano allora il potere ufficiale e lo esercitavano in modo

veramente noioso. L’aria non era pacifica, ma era grassa di pacifismo. Parlare di possibilità di guerre, era come fare discorsi su la venuta dell’Anticristo.

Non dirò niente di politica nè di filosofia, chè non è affar mio: tuttavia già da allora si presentiva che qualche infermità fosse annidata nel palladio della Libertà.

Il motore era allora un impacciato trastullo, e l’aeroplano era uno scatolone che faceva balzi sorprendenti a pochi metri da terra. Le automobili di allora sono oggi pezzi di archeologia.

Il secolo girò e nessuno disse: oh, ecco il Novecento!

Fu nel 1909 che Marinetti lanciò il suo manifesto: «Demolite le città venerate. Non vogliamo più saperne del passato, noi giovani e forti futuristi».

Più oggi ci si pensa, e più bisogna riconoscere in Marinetti una singolare virtù, perchè nessun disprezzo era in lui verso l’arte del passato, verso la tradizione. Era divinazione delle cose future.

Apparve il luglio del 1914!

Come si è battuta, come è morta la nostra gioventù! Erano pur figli di quell’Ottocento! E io credo che fossero ancora nutriti del «passato» dei padri, degli avi che combatterono per la libertà e unità d’Italia: e tanto fiore di bella, altera giovinezza scomparve in quegli anni, che non posso liberarmi dalla sensazione che nella storia d’Italia sia poi stata saltata una generazione.

Passò la guerra, e venne la Pace, con poca pace, e dopo tanta predicazione di internazionalismo, le nazioni d’Europa abbassarono i ponti levatoi dei loro nobili castelli, e si chiusero dentro ai nazionalismi, con guardie e controlli.

La Libertà, che si può dire fosse la camerlenga del convento, venne licenziata per diverse imputazioni. Intanto erano crollati quei tre grandi imperi del nord, che le nostre democrazie chiamavano feudali, e allora il Dominio Euro-asiatico, e l’Asia immensa, generatrice di vite, parvero avvicinarsi più assai che per geografia a questa elegante, frastagliata estremità occidentale del gran Continente: dico a quell’Europa così gloriosa fra tutte le genti, così dominatrice.

Pupille fisse facevano l’incantesimo.

E mentre in Italia il fascio di Roma sorgeva, simbolo di armonia, nell’impero di Germania sorgeva altra Croce da quella cristiana e i popoli stessi d’Europa erano distinti in più degni e meno degni di regnare in Europa.

Chi poteva prevedere tutte queste vicende? Come chi poteva prevedere una seconda edizione del Dizionario? E in quanti anni tutte queste vicende? In tanti anni quanti vanno dalla fabbricazione del Dizionario, 1890: dalla Prima edizione, 1905, a questa settima, 1935.

Chi oggi ha vent’anni o giù di lì, non se ne può ricordare di queste vicende, l’una dopo l’altra, e nessuno ne fa rimprovero: ma se uno se ne ricorda, non è colpa sua perchè è rimasto ancora vivo.

Come al tempo della vendemmia da un tino in fermentazione si sollevano sciami di moscerini, così da queste turbinanti cose sorgono le parole. Quanto tempo rimangono in vita? Chi le può numerare? Chi le può giudicare?

Tante cose sono arrivate nuove ai porti della vita che pare non resti posto materiale nello spazio della mente per le cose antiche, e queste si buttano nelle fovisse insieme con le tradizioni, come si faceva dei vecchi arredi negli antichi templi.

E allora con buona pace per quelli che dicono: «voi siete tradizionalista, purista», è il caso di rispondere che questa distinzione è un gioco polemico. Occorrerebbero molte discussioni, più che spiacevoli, inutili; oppure tutta una paziente minuta opera di revisione per tutte le parole. Ben altra impresa di questa modesta originalità del mio

Dizionario Moderno.

Questo pensiero mi si è venuto sempre più rafforzando di mano in mano che procedevo nella revisione di questa settima edizione, per modo che in fine ho finito con l’accogliere ogni parola senza domandar passaporto, come fanno i frati a chi bussa alla porta del convento. Tutt’al più ho segnato l’ora della loro venuta, almeno sin dove mi è stato possibile, e ho conservato quel tempo presente che usavo mentre fissavo per scrittura la cosa: non ho modificato quello che era scritto col tempo presente nelle varie edizioni che sono 1905, 1908, 1918, 1923, 1927, 1931, 1935. Ne consegue che se alcuno consulta il Dizionario, e mi dicono che v’è anche chi lo legge, si trova disorientato da prima; ma poi in fine del paragrafo, trova o una data di quando venne scritto e giustifica quel tempo presente, oppure trova un breve avvertimento che lo rimette su la via.

Sono segnalazioni in tempo presente: e chi legge ammirerà con quanta rapidità le cose presenti corrano all’oblio del passato o si avventino al futuro.

E così il Dizionario Moderno, pur con tutte le inesattezze, ineguaglianze, imprecisioni, manchevolezze, deplorevoli ironie, è venuto assumendo un nuovo e quasi a me involontario aspetto e sostanza: di una visione di vita: un panorama fatto di parole, di turbinanti parole. Quasi mi pare opera d’arte!

E devo infine dire che a confortarmi in quest’ultima definitiva fatica mi arrivano ogni tanto avvisi, dove, per indiretta via, il Capo del Governo si interessava perchè questa o quella nuova parola fosse accolta nel Dizionario Moderno (1

).

E questo sia ammonimento a scrivere in lingua italiana, o seguendo purità o senza purità, certamente con vigilanza.

E per concludere, dirò che anche per questa settima edizione sono ricorso al dotto amico Santi Muratori, che negli ammirabili silenzi della Biblioteca Classense di Ravenna vede e ode più cose oltre la filologia e l’archeologia, e sono ricorso a lui non solo per la sua dottrina, ma perchè, per sua cortesia, vedesse e temperasse quelle «sciocchezze» che ho accennato in principio e non sono poche.

E anche ricordo il signor Dante Donelli, che nel suo romitaggio di Monte Verde in Roma, si è compiaciuto di consiglio per tante cose che io non so; e i dottori in medicina Nicola Pietravalle e Antonio Malaguli; e quanti altri o illustri o del popolo ho importunato col pacchetto delle schede e i fogli delle bozze, e quelli ignoti che per lettera mi mandavano o suggerimenti o rimproveri, o, come il signor Giuseppe Mormino, nuova merce, fuori sacco, da registrare.

21 marzo 1935-XIII.

ALFREDO PANZINI

(1

[1908]

OPERE CITATE

[1908] CHERUBINI (F.): Vocabolario milanese-italiano.

DELESALLE (G.): Dictionnaire argot-français.

DIEZ (F.): Etymologisches Wörterbuch der romanischen Sprachen.

DU CANGE: Glossarium mediae et infimae latinitatis.

FANFANI eARLÌA: Lessico dell’infima e corrotta italianità.

FUMAGALLI (G.): Chi l’ha detto?

GHERARDINI (G.): Supplemento a’ vocabolarj italiani.

GUGLIELMOTTI (A.): Vocabolario marino e militare.

KLUGE (F.): Etymologisches Wörterbuch der deutschen Sprache.

LITTRÉ (E.): Dictionnaire de la langue française.

[1935] MARINETTI (F.T.): Primo dizionario aereo.

MEYER-LÜBKE (W.): Romanisches etymologisches Wörterbuch.

MIGLIORINI (B.): Dal nome proprio al nome comune. MONELLI (P.): Questo barbaro dominio.

[1908] PIANIGIANI (O.): Vocabolario etimologico della lingua italiana.

PICO LURI DI VASSANO: Modi di dire proverbiali.

RIGUTINI (G.): Neologismi buoni e cattivi.

ROMANELLI (G.): Lingua e dialetti.

SCARLATTI (A.): Et ab hic et ab hoc.

SCHELER (A.): Dictionnaire d’ étymologie française.

Vocabolario degli accademici della Crusca (quinta impressione).

ZACCARIA (E.): L’elemento germanico nella lingua italiana.

[2] LITTRÉ (E.): Dictionnaire de la langue française. / MARINETTI (F.T.)…Questo

barbaro dominio. / PIANIGIANI (O.)]LITTRÉ (E.): Dictionnaire de la langue française. /

[1918]

* significa parola straniera ** » » dialettale *** » » di gergo

[1931]

La parola «Guerra» è scritta con lettera maiuscola per giusta antonomasia, riferendosi alla più grande Guerra, sin ora, della nostra storia (1914-1918).

[3] * significa…di gergo] NB. - * indica le parole straniere. / ** indicano le parole

regionali e dialettali. / *** indicano le parole di gergo. / In questa edizione si trovano incluse anche quelle voci di cui è cenno al paragrafo III della Prefazione alla seconda

edizione. 3-4 NB. - * indica le parole straniere. / ** indicano le parole regionali e

dialettali. / *** indicano le parole di gergo. 5>6

[6] alla più grande Guerra] alla più grande guerra 6>T

* significa] AVVERTENZE / * significa 8

di gergo…1918).] Le voci che recano l’indicazione (M.) sono state comunicate al Panzini da Benito

Mussolini. / La parola Guerra scritta con lettera maiuscola si riferisce prima guerra mondiale (1914-1918). / La pronunzia delle parole straniere è indicata per mezzo dei seguenti segni: é (e chiusa), è (e aperta), ó (o chiusa), ò (o aperta), A (vocale intermedia fra a ed è, come nell’ingl. bad), A’ (come nell’ingl. but), ∂ (come nel franc. tenir), ö (come nel ted. schön), ü (come nel franc. vu, ted. für); le vocali lunghe sono indicate per mezzo del raddoppiamento o del circonflesso; c’ (consonante palatale, come in fac-ciamo), ç (come nel ted.

Reich), dh (come nell’ingl. the), g’ (come in ag-giungere), N (come nell’ingl. song), ñ (come in degno), S

(come in rosa nel toscano e nell’italiano settentrionale), sc’ (come in marsc’!), th (come nell’ingl. thing, spagn. cielo), z (come in zero), zh (come nel franc. jour). Le altre lettere si pronunziano secondo il normale uso italiano. 8

A

[1905] A [1]: questa preposizione è usata alla maniera francese (à) nei seguenti modi: 1) trattandosi di vivande, per indicare la salsa con cui sono condite o il modo in cui sono cotte; al burro, all’olio, al prosciutto, al pomodoro, ai ferri. I puristi correggono e il popolo ancora dice col burro, con l’olio, col prosciutto, in graticola o su la gratella. Con un po’ di buon volere si potrebbe usare la maniera più conforme all’italiano. Ma si tratta di frasi fatte e formate nella memoria, perciò avverrà che scrivendo, uno pensi alquanto e corregga, ma parlando non ritengo agevole l’emendarsi. Gelato alla crema, al limone, al pistacchio: gelato di crema, di limone, col pistacchio. Talvolta le due costruzioni si alternano. Es. gelato alla crema, gelato di crema. 2) I puristi riprendono alla, seguita da un nome proprio, quando si voglia indicare maniera, usanza, imitazione. Es. alla Pompadour, alla Luigi XIV. È modo francese. Si dovrebbe dire: alla maniera di... ecc. Si dice, infatti, alla Berni? al Petrarca ? Così obbiettano i puristi. Vero è che si tratta di nomi determinati. 3) Si riprende pure il modo: all’anno, al giorno, al mese, invece che dire: l’anno, il giorno, il mese, oppure: ogni anno. Es. cinque lire al giorno. Le locuzioni

mano a mano (v. nel Dizionario man mano), due a due, passo a passo, corpo a corpo, a capo, ricordano ai puristi i modi consimili francesi e correggono: a mano a mano, a due a due, a corpo a corpo, da capo. Ma anche in queste e consimili locuzioni conviene tenere

conto dell’evoluzione che subì l’italiano per effetto, specialmente, della storia e del pensiero di Francia. Difettosa e spiacente questa incertezza di una parte così importante del discorso come è la preposizione (confronta l’uso dell’altra preposizione in); ma poichè l’improprietà o il gallicismo non è possibile espellere, converrà accettare in quei casi che sono più confermati dall’uso e sperare che rafforzandosi il sentimento dell’italianità, si eviti di abboccare a tutte le maniere difformi e goffe che noi trasportiamo dalle lingue straniere nella nostra, senza lo sforzo di un poco di discernimento. Certo è un porre le speranze in un tempo lontano.

[1] A [1]:

questa preposizione…lontano.] non è qui il luogo di ripetere diffusamente ciò che i lessicografi e i grammatici hanno scritto sull’uso di questa preposizione, oggi invadente e che distrugge molti altri costrutti. L’a (francese à) e l’IN (francese en) sono diventati

oramai i due perni su cui posano le parole nella più parte dei costrutti; inutile altresì