• Non ci sono risultati.

Il DM attinge anche a tutto quel patrimonio linguistico fino ad allora attestato quasi esclusivamente nei giornali, nella letteratura e nei vocabolari dialettali (la bibliografia cita il Vocabolario Milanese-Italiano del Cherubini): i dialetti, le parlate quotidiane familiari, gergali, coi loro tanti modi di dire «rudi, caustici, saette da getto», che sono prova della vitalità della lingua italiana e che purtroppo tanti si fanno scrupolo di usare, preferendovi locuzioni straniere:

costituiscono gli elementi fondatori e animatori del linguaggio […]. Sono come pezzi di pensiero già formato […]. La differenza fra l’italiano e il francese consiste in questo, che moltissimi modi di dire italiani o sono troppo letterari o sono dialettali; ogni dialetto ne ha un patrimonio stupendo: rudi, caustici, saette da getto; fra dialetto e dialetto poi si riscontrano somiglianze che formano un godimento per il ricercatore, e persuadono della enorme vitalità della favella italiana, così genialmente una e varia. Ohimè! è una ricchezza che non esce dalla regione e dal parlar dialettale, e molti scrittori avrebbero riguardo ad usarli…. come ad andar fuori di casa senza cravatta. Ne consegue che il modo francese come più urbano, più mondano, più diffuso, è spesso usato a danno del modo nostro che lo potrebbe sostituire98.

Panzini dichiara fin dalla prima edizione di ritenere i vocaboli dialettali «mirabile forza

98 Ibidem, pp. XXV-XXVI. Quanto alle analogie fra dialetti «godimento per il ricercatore» (MARRI p. 79 parla di «geosinonimi»; abbiamo visto che Panzini segnala anche paralleli fra le lingue europee), cfr. ad es. gli equivalenti del fr. aux anges: in Romagna: «era inebriato con la sua sposa. A Venezia: andar via coi

ànzoli. A Roma: stai con li angeletti?» (cfr. le canzonature della madre a Zvanì innamorato della Dolly:

alimentatrice e conservatrice dell’italianità», «umili e forti reagenti contro la barbarie», e aventi come tali più diritto di cittadinanza nell’italiano contemporaneo di tante parole straniere e nuove. Lo fa parlando di una delle varie «schiere di […] parole chiedenti ricovero ed asilo» nel DM, parole che avanzavano tale richiesta

con più diritto delle altre: […] erano le parole vernacole e dialettali, le quali dicevano: «Ma se accogliete tante sorelle voci forastiere, perchè chiudete la porta a noi? Noi siamo la mirabile forza alimentatrice e conservatrice dell’italianità; […] chi in noi ben ricerca, ben trova i documenti dell’Unità della favella; noi — più dei puristi — siamo gli umili e forti reagenti contro la barbarie; molte di noi […] abbiamo antico diploma di nobiltà, e se molte fra noi rozze e plebee siamo, rozze siamo come il diamante che l’arte dell’orafo non raffinò»99.

Si tratta di un’opinione più volte ripetuta nel corso del DM, che a questo proposito non conosce oscillazioni; si veda nella Schiampa o stiampa la nota di Pascoli citata «per confermare con una geniale autorità un pensiero più volte ripetuto nel corso di questo lavoro»:

I non toscani, per via dell’educazione scolastica, ripudiano, sempre e in tutto, il loro vernacolo, credendo ch’esso sia al bando della letteratura. Io voglio mostrar loro che possono, molto spesso, usare bellamente e rettamente in italiano vocaboli del loro, a torto ora prediletto ora spregiato, linguaggio materno; sia perchè quei vocaboli sono comuni al parlar toscano, vivo e puro dei monti; sia perchè sono necessari o almeno utili, pur non essendo toscani100.

Ed ancora, Panzini incita i lombardi a non diffidare sempre del loro dialetto nella v. Mica: «tanto […] è l’uso che fanno i lombardi di questo mica che, nell’opinione erronea essere l’italiano molto diverso dal dialetto, non pochi temono di usare mica anche dove è bene usato: io non so mica».

L’interesse di Panzini per i dialetti è evidentissimo anche nei romanzi: nella

Lanterna racconta che parlando con un abitante del Frignano modenese «stava sempre a

sentire per sorprendere se v’era già qualche venatura di Toscano nel suo dialetto» (L p. 38), e segnala i caratteri delle varie parlate annotando che un romagnolo dice «“ignoranti” con quattro “a”», e che «il dialetto di Comacchio è press’a poco quello di Ferrara, ma con certe inflessioni cupe e lente che lo rendono strano e difficile» (L pp. 77, 136). Nelle narrazioni non solo il dialetto è uno dei mezzi per caratterizzare i personaggi, come vedremo fra poco, ma Panzini segnala la sua costante attenzione al lessico impiegato, ed usa formule sul tipo di «come dicono», «come si dice a», applicate a certi luoghi («fattorie a coltura estensiva, o boarie - come quivi dicono-», L p. 130; «toglieva su, come dicono da noi», PM p. 386; un brindisi ovvero «un calice come si dice a Milano», VL p. 351), a certi periodi storici («il marito della Dolly l’aveva il bracciale di seta, quello che chiamavano il salvagente», PM p. 472; cfr. DM: «salvagente: espressione del gergo della Guerra per indicare il bracciale tricolore che portano i dispensati […] dal servizio delle armi»), o ai singoli personaggi («un vecchio armonio, armonium flût, come

99 DM1, Prefazione, p. XII. Migliorini segnala che delle parole dialettali presenti nel DM «non sempre l’area è registrata correttamente; di solito essa è molto più estesa» (MIGLIORINI, recensione a DM7, cit., p. 265). Infatti in DM8 le correzioni di questo tipo sono molto numerose.

100 G. PASCOLI, Nota alla seconda edizione (1903) dei Canti di Castelvecchio (nell’edizione a c. di G. NAVA, Milano, Rizzoli, 1983, è a p. 431).

diceva lui, compiacendosi dell’eleganza di alcune parolette francesi», FV p. 815; ciliegie ovvero «cerase, come dice la nonna»; qui Panzini presta la sua sensibilità linguistica ad un bambino che «“fa dello spirito!…” […] “il lepido, dice la nonna!”», scimmiottando parole qualche decennio prima usuali, FV pp. 754-55).

Emilia-Romagna

I dialetti più presenti nel DM sono quelli dell’Emilia e della Romagna, dei luoghi in cui Panzini aveva vissuto in gioventù, da cui vengono nomi di animali (Baghino,

Farlotto), specialità gastronomiche (Forma, Squacquerone, Polpetta di mare, Piada)101

modi di dire (Far la bocca brincia, Far ridere i polli, Fantesma (di ’ ben sò), che ricorda un episodio di cronaca cittadina), designazioni espressive come Balla, Zuccata,

Omarino: diminutivo di uomo: voce usata specialmente in Bologna, umarèin, lat. homunculus, voce cara al

Carducci […],

Ruspa: buona voce di Romagna che designa un attrezzo agricolo per spianare e livellare terreni […],

(si noti ancora una volta l’insistenza sulla buona qualità dei termini vernacoli), e anche esclamazioni o designazioni più colorite, come Troiata , Vaccata o

Sòcmel: (c dolce) tipica esclamazione bolognese, che il decoro vieta di tradurre. Suona derisione e

strafottenza. Specie di scibboleth dialettale.

Il dialetto romagnolo torna nella Lanterna di Diogene per la descrizione della vita dei

fiocinini di Comacchio e dei loro attrezzi: battana, bragozzi, paradello (L pp. 139-41;

sono anche voci del DM). In Il padrone sono me, sono presenti in continuazione non solo nei dialoghi, ma anche nei resoconti del narratore-contadino, termini dialettali o derivati dal romagnolo (ad esempio quelli usati dalle signore per parlare del mento della Dolly: «quella sbessola! quella scucchia! quella bazza», PM p. 449, ricordati in DM s.v.

Sbessola) e costrutti dialettali: l’articolo davanti ai nomi propri femminili (sempre «la

Dolly»), “la” pleonastici, “che” polivalenti, deformazioni popolari di parole come

reoplani (PM pp. 460, 463, 468; è anche voce del DM come «forma popolare più facile a

pronunciare che aereoplano»). Anche in altri scritti si trovano frasi che riproducono la parlata colloquiale di queste terre, come «boia d’un mondo […] l’è miga vera?» (L p. 85), o «mo’ va bein là, cinein!», esclamazione che nelle Piccole storie del mondo grande è seguita da un affettuoso giudizio sull’interlocutore e sulla città che è capoluogo e simbolo dell’Emilia-Romagna:

il Pasini […] è bolognese, e, come tale, reca attraverso lo spazio ed il tempo il carattere faceto che è proprio di quella illustre e geniale città, insieme al suono giocoso del dialetto natìo;102

101La piadina merita di essere ricordata anche con la voce dialettale Piè; più volte nel DM si parla della rivista romagnola La Piè e del suo fondatore, «il poeta dottor Aldo Spallicci» (v. Canterini (di Romagna); cfr. anche le vv. Passatore, Serenella, Zirudela).

102 A.PANZINI, Nella terra dei santi e dei poeti, in Piccole storie del mondo grande, Milano, Treves, 1901, poi in Romanzi d’ambo i sessi, a cura di P.PANCRAZI, Milano, Mondadori, 1941, pp. 269-318 (la citazione

«suono giocoso» che molto probabilmente per le orecchie dell’autore producevano tutte le parlate dell’Emilia-Romagna.

Lombardia

La presenza di tanti termini lombardi nel DM è motivata fin dall’introduzione col lungo soggiorno dell’autore a Milano (vi visse per oltre vent’anni), e col fatto che si tratta di una città (cfr. v. capitale morale e Milân e poeu pu) e di un dialetto particolarmente importanti103. Vengono dunque citati spesso Manzoni e Carlo Porta (vv. Anselm, degh on

quatrin per un, Donna Fabia Fabron De-Fabrian, Marchesa Travasa, Zorocch ti e mur!…), e vari modi di dire e vocaboli vivacemente popolari:

Far vendetta: familiarmente si dice per vendere alla disperata. Frase lombarda che deve trarre origine dal

bisticcio e dall’assonanza delle parole vendere e vendetta,

Baggiano: è voce toscana per dire baggeo, semplicione, da poco. Bagiane in Lombardia vuol dire le fave

[…]. Ora, in quello stesso modo che da baccello sono stati detti baccelli, baccelloni, e da pisello piselli,

piselloni certi uomini semplici, e di soverchio creduli, così derivò il nome baggiano per semplicione. Vedi a

questo proposito i Promessi Sposi (cap. XVII) […],

Bagolòn: voce meneghina, e dicesi del chiacchierone che le sballa grosse per la mania di parlare e di far la

frangia alle cose […],

cfr. anche Fare un bacio, Anta-Antina, Asinata, Baita, Bevuto, Fesa, Limonare, etc.

Roma

Del vernacolo romanesco vengono citati parecchi vocaboli, anche di gergo, e modi di dire (come E chi se ne frega, Romano de Roma), che non sono sempre apprezzati. Ad esempio

Bagarino: voce romanesca estesa poi in altre regioni: appunto perchè la gramigna e le male piante si

espandono facilmente. Bagarino è colui il quale fa incetta delle merci allo scopo di rialzarne artificiosamente e disonestamente il prezzo. Da baghero, il carrozzino svelto, con cui questi svelti messeri si recano ai mercati […],

Bacherozzo: nome dato a Roma allo speciale scarafaggio notturno e delle case vecchie ed umide, che

risponde al nome di Paripaneta orientalis (blatta nera). Volgarmente e per dispregio i preti,

(cfr. anche Burino, Frescacce, Frescone, Grattare, Pacchiano). Questi termini si moltiplicano a partire dal 1918, anno del trasferimento a Roma di Panzini104.

Qualche cenno di romanesco ha un posto anche nel Bacio di Lesbia, nell’augurio di Terenzia, moglie molesta di Cicerone, al marito che, accusato di una tresca con Clodia,

103 «L’essere io, autore, da molto tempo in Milano, l’egemonia (quale essa sia) che questa città esercita su le altre città italiane, l’importanza storica e letteraria del dialetto milanese, spiegano o scusano una certa maggior parte, fatta alle voci di questo dialetto» (DM1, Prefazione, p. XII, n. 1; nell’edizione la nota è la n. 2, cfr. Criteri § Elementi paratestuali).

104 Si veda la ricerca specifica di A.T.ZEVI, Il romanesco nel Dizionario moderno di Alfredo Panzini, in «Studi di lessicografia Italiana» XXV (2008), pp. 219-251 (con glossario alle pp. 130-51).

le parla dell’amore platonico: «possi morì di mala morte, te, Platone e quella mala femmina!» (L p. 599).

Napoli

Nei racconti ha un ruolo importante il dialetto napoletano, che marca i personaggi e soprattutto gli atteggiamenti in qualche modo condannati dal narratore (quindi quasi sempre anche dall’autore), che una volta parla di «quello sguajato accento napoletano che è di per se stesso un oltraggio» (CN p. 702): abbiamo già visto l’episodio di “Daniele Manen” che termina con i due ignoranti benvestiti che si guardano con l’aria di dirsi «nun

saccio» (VL p. 342). Un’analoga frase menefreghista e insultante è letta dal protagonista

della Cagna nera sui volti ostili delle immagini di santi che affollano la sua stanza d’affitto a Sorrento (CN p. 696):

brutti erano davvero, e senza idealità come tutti i santi napoletani […]. Tutti convergevano gli occhi verso di me obliquamente come a domandarsi l’un l’altro con ira e sospetto: “Che ci fa qui codesto intruso? Lo sapete voi che ci fa, San Francesco?”. “Io non saccio!” pareva rispondesse una santa Teresa con la faccia tinta di bile per indicarne l’ascetismo.

Ancora, il collega che muore alla fine della Lanterna, “risponde” ai colleghi che pensano solo al fatto che è morto a meno di un anno dalla pensione «che c’aggio a fa?» (L p. 163). Frasi di tenore simile sono registrate nel dizionario, come

Non (propriamente con suono dialettale nun) te ne incaricà!: non incaricartene! non occupartene!:

intercalare egoista e scettico del popolo napoletano. Fa il paio col romanesco E chi se ne frega! E ricorda il toscano non ti compromettere,

Far fesso: volgare espressione dell’Italia meridionale105: vale far minchione uno, ingannarlo. Ciò richiede

furbizia […]; onde «l’aver fatto fesso uno» può essere materia di compiacimento, oltre che di vantaggio.

Vero è che nella vita dei popoli l’arte più economica e profittevole è, o dovrebbe essere, la rettitudine […].

Altre voci alludono alla passione per il gioco dei napoletani (v. assistito «il ciurmadore che a Napoli dà i numeri del lotto, fingendosi assistito da forze superiori») o alla loro superstizione (v. Fattura) o si riferiscono a figure o insulti tipici (vv. Farinello,

Scugnizzo, Fetente, che «vale, secondo i casi: Fetido, Sudicio, Sozzo, Sporco, Laido, Vile, Porco, Disonesto, Corrotto, Osceno, Spregevole, Buffone, Ridicolo, Abbietto»). Ci sono

poi le parole tecniche della camorra, cui è dedicata una lunga voce, che comprende ipotesi di etimologia, i «gradi» interni e paralleli con altre «associazioni di gente di mala vita» (gli uni e gli altri sono in certi casi a loro volta lemmatizzati nel DM). Viene pure registrata la “sottovoce” moraleggiante camorra (Alta):

Camorra: […] è voce spagnuola che vuol dire litigio, e camorrista, litigioso. […] E' detta anche Società

dell’umirtà (v. Omertà), e la gerarchia ha i seguenti gradi: giovinotto onorato, picciuotto = picciotto

(secondo la tendenza del dialetto napoletano di dittongare l’o in uo), picciuotto di sgarro, picciuotto di

reggimento, capo picciuotto, camorrista, capo di società o capintrino, capocamorra o capintesta, e contaiuolo, il ragioniere dell’«onorata società». Il camorrista è parente col mafioso siciliano, col barabba,

col teppista, e col bulo delle terre subalpine; v. Gangster. La camorra classica, dopo la guerra e col fascismo, ha perduto i suoi caratteri tipici,

Camorra (Alta): quella dei ricchi, dei potenti, e anche… dei gentiluomini. La camorra, se è napoletana di

origine, come istituzione è universale, e forse immortale; E' una élite anche lei!,

(fra le altre voci tecniche è notevole Zompata: «il classico duello a coltello dei camorristi, perchè si zompa ai lati per ischivare i colpi»). Oltre alla «camorra classica», che «ha perduto i suoi caratteri tipici», a Panzini sembra essere «in via di scomparizione» -o deve parergli nel 1934 per volontà del fascismo- la Maffia (c'è anche il lemma Maffioso).

Toscana

Si è già detto che Panzini non apprezzava il diffondersi dei vezzi tipici della parlata toscana; infatti il DM non ne lemmatizza molti vocaboli (per es. Buzzo); piuttosto segnala termini che in Toscana sono usati al posto di quelli diffusi nel resto d’Italia, come nella v. Automatico: «bottone a pressione […]. A Firenze, pigino». La peculiarità e la ricchezza del lessico toscano hanno una parte non trascurabile nella novella Le chicche di

Noretta, in cui il toscano serve alla caratterizzazione non solo della protagonista

femminile106, ma anche del protagonista vero e proprio, Lelio, con le sue reazioni al fatto che «con quella benedetta parlata toscana, lei aveva un vocabolo difficile per tutte le cose», mentre «Lelio adoperava spesso due vocaboli più razionali, “cosa, cosare”» (FV p. 750)107.

Veneto

È presente in misura minore sia nel DM che nei romanzi il dialetto veneto (che Panzini conosceva da vicino, essendo stato convittore del collegio “Foscarini” di Venezia) senza particolari distinzioni diatopiche; nel DM ad es. compaiono le vv. Baìcoli (dove viene citato il vocabolario di Boerio), Farsora, Freschìn, e Ti con nu, nu con ti, «sublimi parole d’amor di patria». Solitamente Panzini riporta senza commenti brandelli di conversazione in veneto (ad esempio, della popolana e del trippaio in VL pp. 342 e 340), ma per il protagonista delle Chicche di Noretta per la loro cadenza «i veneti […] erano intollerabili come i napoletani» (FV p.774).

Voci gergali e colloquiali

Il DM dà ospitalità anche a molte parole tipiche del linguaggio gergale e colloquiale: gergo giovanile (vv. Bigino, Marinare la scuola, Naja, con supposta

106 I termini dell’idioletto di Noretta sono già messi in rilievo da STORNI, pp. 121-22; essi, da «i mimmi» a «Non ti garba?» a «il mi’ babbo», compaiono in FV pp. 739-69.

107 Cfr. anche la “ribellione” della donna di servizio, riportata in una sorta di indiretto libero: «la fante […] ne disse! O quante ne disse! E che quella era una signorina che non aveva da far niente tutto il giorno […] e che lei poi non aveva mai fatto le chicche. Cosa sono ’ste chicche? e che non la capiva Noretta, perché parlava francese, - ràzzola e ràzzola, cos’è ’sto ràzzola? - “Ràzzola, o di’ come tu vuoi, rimesta, dà dentro” disse Noretta» (FV p.756). Fin da DM2 sono lemmatizzate le vv. «familiari» Coso e Cosare, «usate accennando ad oggetti che non riusciamo a determinare»; la seconda cita «il signor Coso» del De Amicis.

etimologia «per aferesi, da tenaja = tanaglia, in lombardo», Bagagli «invito di giovanotti a signorine: «senza bagagli», cioè senza mamma nè papà»), teatrale (Attaccare, Bissare,

Far Forno, Papera; Impaperarsi, Impappinarsi, Debutto e debuttare, gli ultimi due

secondo Fanfani «gallicismi sguaiati»), politico-giornalistico (Avariato, Farmacia di

Montecitorio, Fiancheggiare, Inscenare, per cui Panzini sbaglia diagnosi parlando di

«brutto ed effimero neologismo del gergo giornalistico»), dello sport e del giornalismo sportivo (oltre ai tanti termini dall’inglese): Favorito, Tifoso, Decatlon (con commento sarcastico: «il decatleta, vincitore di 10 gare, è l’atleta perfetto. E così finalmente, nello sport, troviamo la perfezione»); molti termini di questo campo semantico in espansione sono inseriti all’ultimo momento nelle Aggiunte: Cestista, Corridore, Primato come sinonimo di record. Ancora, non poche sono le voci del gergo furbesco (buiosa = carcere,

formicone = re, polenta = oro, stizzo = sigaro…) e del parlare comune e familiare

(Attaccabottoni «o francobollo, o uomo-colla», Povero Cristo, Equinozio «nel parlar familiare, per equivoco», Fosforo «per cervello, forza di cervello», Spago e Spaghetto «nel senso di paura, probabilmente dal lat. pavor = paura»108…).