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Il «Novecento»; Panzini, la borghesia e la campagna

L’atteggiamento misoneista di Panzini («ancora sette papi e poi avremo finalmente la fine del mondo, che sarebbe ora!»163, v. Pastor angelicus), smarrito nel suo tempo (chiama la terza Italia «l’Italia dei nostri (?) tempi»), è -come abbiamo visto- evidentissimo nelle voci più svariate, in cui critica, spesso con il sarcasmo impotente dei suoi commenti, le innovazioni degli ultimi tempi, dall’automobile, ai detersivi, ai nuovi giochi. In certi casi la condanna è invece globale, e coinvolge l’intero secolo, con voci appositamente inserite:

[1927A] Novecento: per i giovani del 900 è il più simpatico, glorioso dei secoli, anche se è un po’ procelloso. Nelle arti figurative sarebbe un arcaico-futurista, razionalista, materialista, ultra-realista e idealista164. Non piace a tutti, e nemmeno a S.S. Pio IX […],

[1923] Progresso indefinito: idea madre della civiltà moderna (per chi ci crede!),

oppure parte da singole innovazioni e le assume ad emblema di un’epoca degenerata:

[1908] Telefotografia: […] quante mirabili invenzioni! [1931] Eppure un inventore scrisse così: «la somma della felicità umana decresce in proporzione all’aumento delle invenzioni»165,

[1931] Ministero delle comunicazioni: […] curioso! Più aumentano i mezzi di comunicazioni e meno gli uomini si intendono,

[1923] Aeròbus: […] velivolo per trasporto dei passeggeri. (Gran progresso in cielo, in terra, in mare. E nella coscienza?),

163 È lo stesso atteggiamento quasi “distruttivo” che Panzini ha mentre contempla la trasformazione di Bologna in metropoli: «vecchia torre degli Asinelli, se hai giudizio, va là, cadi giù: e anche voi, vecchie torri, cosa ci state più a fare costassù ritte?» (VL pp. 275-76).

164 Cfr. anche la carrellata costituita dalla v. aggettivi del Novecento: «immarcescibile, granìtico, lapidàrio,

incrollàbile, totalitario, integrale, travolgente, formidabile, incontrovertibile, tempestivo, scultòreo, (parola

scultòrea), furibondo, epico, nostalgico, abissale, spettacoloso, folgorante, sovrumano, panoramico,

stupefacente, indomabile, inequivocabile, solare, titanico. Servono anche nello sport. Tutte voci roboanti

(per reboanti)».

165 Stupisce che Panzini debba citare «un inventore» e non riporti la matrice della citazione: Ecclesiaste I 18 qui addit scientiam addit et laborem (il libro biblico è più volte citato nel DM, per es. s.v. Nihil sub sole

[1931] Meccàno: giocàttolo, di origine americana formato da svariati pezzi che, montati, vengono a formare macchine e ordegni, [1935] tanto per dare subito ai bimbi l’anima meccanica,

[1927A] Bas de laine: fr. la calza di lana, cioè il salvadanaio, della piccola borghesia francese. Risparmio? pare cosa del tempo che fu (1926).

In particolare, del secolo «arcaico-futurista» il DM non approva l’allontanamento dalla vita semplice della campagna e «l’odio globale del Novecento per l’Ottocento».

La critica impotente all’abbandono della «più nobile e savia fra le arti, l’agricoltura» (v. Gentleman-farmer; probabilmente Panzini si considerava tale, anche se nella v. Facchino proclama orgogliosamente «io mi onoro di essere anche contadino») sfocia nella nostalgia per il «popolo autentico di campagna» (v. Debutto), in profezie vagamente minacciose o ancora una volta nel richiamo agli antichi:

[1935] Deruralizzazione: […] in questo, la civiltà meccanica trova la sua punizione. Non è facile tornare alla sanità e santità della terra dopo averla abbandonata,

[1935] Terra (Ritorno alla): nobile parola d’ordine, da Mussolini a Roosewelt [sic!] (1933): rimedio alla

crisi. Anche la Francia si duole dell’abbandono della terra. Anche in Germania «si invoca il ritorno alla

terra» e si parla di «piaga dell’urbanesimo». […] Facile distruggere l’anima georgica, difficile ricostruirla!, [1905] Rus: o rus, quando ego te adspiciam […], così felicemente Orazio […]; e vi si sente un anelito, che par dell’oggi, per la libertà, la pace e la bellezza della vita campestre, come la può intendere un filosofo ed un poeta. [1923] Coi boicottaggi dei leghisti e coi contadini padroni, e assalti e svaligiamenti alle ville, addio rus! (1919)166.

La difesa dell’Ottocento, dell’Italietta, è pure inserita in voci ad hoc, come la seconda parte della v.

[1927A] Novecento: […][1935] «L’odio globale del Novecento per l’Ottocento, la coniazione assurda di aggettivi spregiativi come umbertino, gettati su l’Italia di Carducci, di Pascoli, di d’Annunzio, di Fogazzaro, di Verga, di Puccini, di Fattori… è oramai una posa insopportabile» […]167,

e fa tutt’uno con l’apologia della piccola borghesia da cui Panzini proviene, cui rivendica il merito di avere “fatto l’Italia” (e la Francia) ma che tanti contestano e aborrono, dal punto di vista politico ed “estetico” («date del reazionario ad un gentiluomo, e voi lo paralizzate!», v. Reazione):

[1918] Borghese: agg., nel senso di non fine, volgaruccio […]. Pei socialisti, chi è fuori dalla ecclesia.

166 Sullo stilizzato «ruralismo» di Panzini cfr. quanto scriveva Gramsci sulle orme di Palazzi (A.GRAMSCI,

Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi 1953, p. 153), R.TROIANO, Il ruralismo di Panzini in alcuni

articoli del «Corriere della Sera», in Alfredo Panzini nella cultura letteraria…, cit., pp. 65-73 eA. PIROMALLI, Cultura classica, rurale e popolare, di Alfredo Panzini, ibidem, pp. 31-47, che colloca lo

scrittore fra «la cultura reazionaria contadina che veniva dai preti della diocesi riminese», da cui derivò il «paternalismo didascalico georgico dal quale è eliminato ogni accenno alla durezza del lavoro contadino», e la «cultura rural-fascista degli anni Trenta» (citazioni dalle pp. 34, 35 e 40).

167 La stessa parola Italietta è certo considerata alla stregua di «assurdo […] spregiativo», applicato a quella che in realtà per Panzini era la “sua” Italia. Tuttavia, il DM aderisce alla definizione “ufficiale” di Italietta: «diminutivo spregiativo, spesso usato per indicare lo Stato italiano riservato, social-democratico pacifista, parlamentare ecc. rispetto all’Italia fascista (1927)».

«Morale borghese». […][1931] Questa spregiata piccola borghesia, spregiata da tutti, e che serve tutto e tutti!,

[1918] Piccolo borghese: dal fr. petit bourgeois, con valore di aggettivo, e di epiteto non ornativo, nel senso cioè di tradizionale, povero, anche spiritualmente. [1935] (Il piccolo borghese può darsi che sia una delle forze della Francia). Il 900 vede sferrare una generale offensiva contro il borghese, il piccolo borghese, il grasso borghese. Le anime nuove si proclamano anti-borghesi. Tutto ciò non è nè chiaro nè giusto, ma è la vita che vuole così,

[1935A] Anti-borghese: termine divenuto così comune da parere borghese (1935). Può essere una nemesi storica […]. C’è poi una borghesia che è come la Gironda: prepara le rivoluzioni e ne è vittima. L’unità d’Italia fu in gran parte opera cittadina o borghese;

cfr. anche le vv. Filisteo e Philister «voce tedesca, usata per significare il borghese pacifico, un po’ gretto, un po’ rustego, misoneista».

Idee simili compaiono anche nei romanzi, in cui Panzini afferma:

io farei cambio tanto volentieri del mio appartamento a Milano con parecchie di quelle case coloniche; io sono un entusiasta del lavoro della terra,

e fregia del titolo di «uomo veramente utile» il «pio colono» e il «villano solerte» (L pp. 72 e 75). Quando -confrontandolo con una specie di esteta che «si uccise a trent’anni» «ubbriaco di assenzio e di paradossi»- lo chiamano «piccolo borghese», il protagonista- narratore-autore del Viaggio di un povero letterato non si offende (VL p. 285):

«Voi non capite niente» disse Mimì. «La sua era un’altra morale; e voi siete rimasto piccolo borghese.» «Piccolo borghese? Credete di offendermi? Ma no! È una delle poche cose buone che rimangono fra noi».

Nel XX secolo il borghese Panzini si sente spiazzato. Non riesce a riconoscersi pienamente in un ceto («già anch’io non so bene se sono democratico o aristocratico»168, VL p. 306), nemmeno nella borghesia, per la sua cultura che lo eleva rispetto agli aspetti filistei e superficiali dei borghesi (cfr. il faccia a faccia col piazzista nel c. IX del Viaggio, o con l’avvocato Pasqualino, «entusiasta trombettiere della modernità», L pp. 151-53). Il professor Panzini spesso è molto meno abbiente dei “veri” borghesi con cui ha a che fare, e soffre di un complesso di inferiorità materiale (cfr. per es. VL pp. 358-59). Soprattutto, non ha agli occhi degli altri, in particolare dei «socialisti» in ascesa, una posizione che corrisponda alla sua effettiva condizione: per quelli lui è «un signore», un nemico, perchè non esercita un lavoro manuale, mentre lui sa che il suo lavoro è impegnativo, e addirittura sottopagato. La sua situazione è descritta nel capitolo VIII della Lanterna di

Diogene, L’«inno dei lavoratori» (L pp. 63-73; il narratore assiste ad una delle tante

manifestazioni organizzate dai cosiddett sindacalisti rivoluzionari in Emilia-Romagna169),

168 Un brillante recupero della categoria superata di aristocrazia è invece quello della «Contessa Melania X» che, al responsabile della Camera del lavoro che le dice sprezzante «Io non sono borghese», replica «Bravo! E io meno di lei perché io son nobile» (PM p. 494). Che l’aristocrazia sia ormai una classe priva di senso è dimostrato dal conte decaduto protagonista della Cagna nera: per mantenersi insegna, e per il suo titolo nobiliare è disprezzato ancora di più dalla donna che gli affitta la camera (VL pp. 699-700).

169 Cfr. L.PRETI, Le lotte agrarie nella valle padana, Torino, Einaudi, 1955, specie Parte seconda, cc. III, IV, VI e Parte terza, cc. II e IV-VII, utili per comprendere i riferimenti del DM e di PM ai disordini rurali.

ribadita e riassunta in VL p. 362:

“I poveri hanno diritto di godere come i ricchi”. Questo è un programma attraente ed accessibile alla intelligenza di tutti. Esso ha fruttato una bella fioritura di odio fra questa buona gente contro quelli che sono chiamati “signori”; ed ho veduto molti “signori” rimanerne impressionati. A me la cosa non ha fatto però troppa impressione, e anzi in qualche cosa ha fatto piacere, perché gli uni valevano gli altri. Tuttavia desiderando di vivere in pace, mi sono affaticato a fare qualche dimostrazione abbastanza dettagliata per provare a questi poveri che anch’io sono povero e anche sfruttato, e che fra essi vi sono non pochi più ricchi di me, e anche sfruttatori. Io non ho mai speso più inutilmente le mie parole!

Ma non c’è solo «l’estremo oltraggio di passare per signore» («non perché non vorrei essere un signore, ma perché non è vero, purtroppo!», L pp. 64 e 63), c’è la preoccupazione nel vedere la massa minacciosa dei «lavoratori delle cose necessarie» (L p. 66), tutti vestiti di nero, che «marciano con fiero passo militare», («oh, stranezza per gente che protesta contro la disciplina militare!», L p. 67), e si entusiasmano per le parole vacue e pericolose di un demagogo che (L p. 69)

parla il linguaggio della passione fino a toccarne il vertice con questa frase risolutiva ed anarchica: “Abolite tutti gli uomini armati di denaro, di scienza e di intelligenza!”.

È di questi slogan estremisti dei «falsi profeti» (L p. 70) che Panzini ha paura, della massa mal indirizzata, non del «popolo semi-analfabeta» in quanto tale; ancora nella

Lanterna, ammette di avere un tempo disprezzato le classi inferiori, ma di avere mutato

parere da quando indelicato da parte di un amico «di molti studii» gli ha fatto capire che «gli studi e l’erudizione contengono assai poca quantità di sapienza» (tutto da L pp. 54- 55):

in politica avevo creduto - con piena convinzione - che il voto del popolo semi-analfabeta, uguagliato al voto dell’uomo addottrinato, fosse un’ingiustizia enorme delle democrazie odierne. Mi ricredo.

Nel DM, Panzini mostra punti di vista simili; condanna le sperequazioni:

[1905] Sic vos non vobis: […] (cioè: così voi lavorate, ma il frutto del lavoro non è vostro): triste e popolare legge di ingiustizia umana […],

spera nel fascismo -o deve fingerlo?- per mettervi fine:

[1923A] Capitale e lavoro: due astrazioni del tempo moderno, che si ignorano a vicenda e non hanno altri rapporti che di cassa (quando non di violenza). Il fascismo tende a questa conciliazione;

(l’ultima frase compare dal 1931 in poi), e riporta con chiose blandamente critiche le celebri espressioni elitiste

[1905] Gran bestia (La): definizione di sapore biblico e di ricordo nietzcheano, anzi frase del Nietzsche, data già da tempo dal d’Annunzio alla folla, per significare spregiativamente l’anima collettiva, dalle esplosioni incoscienti e brutali e dal facile dominio. Cfr. La bestia trionfante di G. Bruno, […], la vil

maggioranza del Carducci; e il Petrarca Il vulgo a me nemico ed odioso […]; eppure quanto devono tanti

alla gran bestia!,

[1905] Odi profanum vulgus et àrceo: odio il profano volgo (indegno di essere ammesso nel tempio) e me

pur continuando a credere in una certa inferiorità del «volgo»: l’ultima citazione fino a DM6 faceva seguire alla traduzione il commento «locuzione che saprà di eresia agli orecchi di molti, se detta in senso politico, ma che non cesserà di essere vera se ripetuta in senso filosofico, come appunto intese il poeta latino», cfr. anche la v.

[1908] Demos: […] ricorre talora per democrazia, con speciale riferimento a quella specie di avversione che nelle moltitudini si genera contro i valori umani.