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Una luminosa carriera politica: l’ascesa di Raffaele Palizzolo.

II. L’omicidio Notarbartolo Un delitto di stampo mafioso.

2.6 Una luminosa carriera politica: l’ascesa di Raffaele Palizzolo.

“L’indole mite del Palizzolo, la sua educazione e la sua posizione sociale mi fanno escludere in lui qualsiasi capacità a delinquere”, affermava Rossi, deputato che abbiamo già incontrato in precedenza.

Enrico Terranova, un capostazione che aveva testimoniato all’Assise di Firenze, definiva Palizzolo “mafioso”, intendendo che “era un uomo di coraggio, capace all’occorrenza di difendersi o di offendere”179.

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Testimonianza di Ermanno Sangiorgi, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 1 febbraio 1902. 177Cit. in Lupo, Tra banca e politica, in Rivista Meridiana, p. 131.

178 Testimonianza di Ermanno Sangiorgi, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 29 ottobre 1901. 179

Il già citato possidente Carmelo Urbano vide, “al tempo del colera”, il Palizzolo “piangere dinanzi alla sventura di tante famiglie, recar loro sacconi di ogni genere e perfino raccogliere gli orfanelli”. L’unico difetto del deputato palermitano, a suo parere, era “quello di parlar troppo e di essere affatto incapace di tenere dei segreti, se ha qualche cosa nello stomaco piglia una malattia”180.

All’Assise di Bologna, l’industriale e possidente Giuseppe Puleo rilevò la generosità di Palizzolo e “l’invidia” suscitata dal suo modo di fare.

Il Palizzolo riceveva indistintamente persone di tutti i certi che si andavano a raccomandare a lui per una cosa o per un’altra, e si trova là in quel posto per aver fatto del bene a tutti e del male a nessuno, e la sua ambizione principale era di esser utile a tutti. Questo suo generoso modo di fare era quello che lo manteneva nelle cariche da lui ricoperte. Chi è dedito a far bene per fare il bene e non per scopo di lucro come Il Palizzolo, non guarda in faccia alle persone che ricorrono a lui, e quindi egli faceva il bene ai buoni e ai cattivi181.

Il senatore Emanuele Paternò, nel corso del dibattimento di Bologna, si cimentò in alcune “considerazioni psicologiche” sul Palizzolo:

Il carattere del Palizzolo è tale da dover escludere in lui la partecipazione a un delitto, e son sicuro che se il Palizzolo vi avesse preso parte non sarebbe qui all’Assise ma sarebbe morto di paura. Credo che il mandato di uccidere lo possano dare i coraggiosi e i vili perché questi ultimi non temono del delitto. Il Palizzolo non appartiene ne all’uno ne all’altra di questa categoria, quindi mantengo il concetto ritenendolo incapace182.

Giovanni Tesauro, tra i fautori del Comitato Pro Sicilia183, sosteneva che il Palizzolo era “amato dalla grande maggioranza dei palermitani”, che “avevano e hanno un feticismo per

180 Testimonianza di Carmelo Urbano, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 28 gennaio 1902. 181 Testimonianza di Giuseppe Puleo, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 4 marzo 1902. 182

Testimonianza di Emanuele Paternò, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 18 marzo 1903. 183

Si trattava di un comitato costituito da uomini politici, nobili e industriali siciliani. Nacque il 3 agosto del 1902, poche settimane dopo la condanna di Palizzolo all’Assise di Bologna. Ci occuperemo del “Pro - Sicilia” nel capitolo successivo.

lui, e se domani si facesse un referendum sulla innocenza o colpevolezza del Palizzolo sarebbe un vero plebiscito a favore suo”184.

L’insieme di queste affermazioni costituisce un ritratto edulcorato di Palizzolo, rilasciatoci da alcuni dei suoi difensori ed estimatori. Indubbiamente, si trattava di un personaggio che potremmo definire incolore e caratterizzato da un’oratoria grottesca e talvolta ridicola. Ecco il racconto di un cronista del Corriere della Sera, incentrato su una deposizione rilasciata dal deputato imputato (processo di Bologna):

“Egli parla appoggiandosi ad una sedia, con atteggiamento tragico, con molti gesti, modulando la voce, ora rendendola dolce, ora grave, ora irruente, con evidente ricerca dell’effetto oratorio”185.

Il tono dell’imputato cambiava e diventava più piano, quando doveva spiegare la propria influenza politica:

“Io solo ero il deputato accessibile agli elettori (…). Io scendevo e vivevo fra il popolo, cercando di esserne consigliere e amico. E il popolo sentiva gratitudine”186.

Come amministratore di opere pie, membro di numerose commissioni cittadine, consigliere comunale e provinciale e deputato al Parlamento, Palizzolo si era creato una clientela comprendente persone di ogni genere.

A Bologna non si sprecarono le testimonianze sul sistema clientelare palizzoliano. Il testimone Barabbino sostenne che “Non era lui che cercava i pregiudicati, ma erano questi che lo ricercavano per favori e per protezioni”187. Il senatore Olivieri affermò come la sua

casa era “perennemente aperta a chiunque volesse”188. A Firenze, l’ex questore di Messina

Nestore Peruzy dichiarò come: “Era cosa notoria in Palermo che il Palizzolo proteggeva i

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Testimonianza di Giovanni Tesauro, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 25 marzo 1902. 185“Corriere della sera”, 28 - 29 settembre 1901, consultato in Sala Periodici, Biblioteca Centrale di Firenze, in data 3/12/2016.

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“Corriere della Sera”, 1 - 2 ottobre 1901, consultato in Sala Periodici, Biblioteca Centrale di Firenze, in data 3/12/2016.

187Testimonianza di Giovanbattista Barabbino, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 11 ottobre 1901. 188

mafiosi, e che questi lo appoggiassero nelle elezioni”189. Una pratica comune - e,

“necessaria” - a gran parte dei parlamentari palermitani, aggiungeva l’ex questore”.

Il grande intellettuale e pensatore Gaetano Mosca dava quest’interpretazione del successo personale ai fini elettorali di Palizzolo:

Era popolarissimo se la popolarità consiste nell’essere facilmente accessibile a persone di ogni classe, di ogni ceto, di ogni moralità. La sua casa era indistintamente aperta ai galantuomini e ai bricconi. Egli accoglieva tutti, prometteva a tutti, stringeva a tutti la mano, chiacchierava infaticabilmente con tutti; a tutti leggeva i suoi versi, narrava i successi oratori riportati alla Camera e, con abili allusioni, faceva capire quante e quali aderenze potentissime avesse”190.

Per Mosca non ci trovavamo di fronte a un facinoroso o delinquente, bensì a una delle tipiche creature partorite dalla riforma elettorale del 1882. Uno degli homines novi che facevano della politica un’attività professionale, interessato a conquistarsi il consenso degli elettori con prassi incentrate sul favoritismo e il clientelismo.

A Bologna, l’avvocato. e testimone di difesa Biagio Lamanna parlò di “favori efficaci sotto qualunque ministero” ottenuti dal Palizzolo “telegraficamente”. A suo dire si trattava di favori “elettorali perché venivano chiesti da elettori in proprio ed anche da quelli che non erano elettori”191.

Palizzolo entrò in Parlamento nel 1882. Non apparteneva allo schieramento crispino, bensì a quello regionista. Egli era esponente del partito “palermitano”, il quale si definiva in polemica sulle modalità dell’unificazione, ben prima dell’allargamento del suffragio. E, neppure si trattava di un personaggio nuovo, come indicava il gentilizio “cavaliere” con cui usava precedere il suo cognome. Il periodo cruciale della metà degli anni Settanta aveva portato all’avvento al potere di una Sinistra con una forte connotazione meridionale, in particolare siciliana. Era mutato radicalmente l’assetto politico dell’isola, ponendo nuove basi per un sistema differente di relazioni tra istituzioni, mondo delle classi dominanti e quello dei facinorosi. Come abbiamo visto nel precedente capitolo, il prefetto

189Testimonianza di Nestore Peruzy, ASFI, Processo contro Palizzolo e altri, 1 dicembre 1903. 190Gaetano Mosca, Uomini e cose di Sicilia, (a cura di) Vittorio Frosini, Sellerio, Palermo, 1980, p. 52. 191

di Palermo Malusardi, uomo scelto dall’allora ministro dell’Interno Nicotera - aveva intrapreso contro le bande brigantesche un’offensiva che, rispetto a quelle messe in atto dalla Destra, si era caratterizzata non tanto per la maggiore energia quanto per la nuova capacità di entrare in dialogo con il mondo locale, grazie a un sostegno deciso dell’opinione pubblica.

Malusardi incrinava i rapporti di solidarietà tra banditi e manutengoli appoggiandosi in parte a questi ultimi, molti dei quali andavano a costituire nelle borgate di Palermo e nei paesi vicini (Monreale, Bagheria, Misilmeri), le “fratellanze”, le società, ovvero le cosche mafiose. Proprio di essere stato un manutengolo di alcuni briganti (Valvo, Di Pasquale e Leone) veniva accusato Palizzolo, in contrasto con la testimonianza di chi lo dipingeva come “campione di moralità, campione della lega dei proprietari, organizzati per resistere al brigantaggio”192.

L’esordio dei rapporti tra l’esponente regionista e il nuovo corso inaugurato da Nicotera e Malusardi non fu proprio idilliaco, fino almeno alla minaccia di ammonizione in prossimità delle elezioni del 1877: come scriveva il prefetto in data 22 febbraio:

“Oggi Palizzolo ritirerà pubblicamente la sua candidatura, altrimenti sarà pure esso denunziato per ammonizione”193.

Palizzolo si ritirò e per rientrare nelle buone grazie dell’autorità, utilizzò le proprie relazioni con il mondo criminale, rendendosi così utile alle attività repressive portate avanti dalle autorità.

Siamo in un momento caratterizzato dall’operato di Michele Lucchesi - allora ispettore di Pubblica Sicurezza e braccio destro del prefetto - che portò all’assassinio del De Pasquale ad opera di Leone, a sua volta ucciso poi dalla polizia194.

“Il brigantaggio classico è finito definitivamente”195,avrebbe scritto qualche anno dopo il funzionario di Pubblica Sicurezza Giuseppe Alongi.

Rimasero quindi soltanto alcuni piccoli gruppuscoli di briganti, scarsamente autonomi dalle cosche mafiose.

192Affermazione del deputato Salvatore Avellone, politico alquanto chiacchierato per possibili legami mafiosi. Cit. in Giuseppe Marchesano, Processo contro Raffaele Palizzolo e C. Arringa dell’ Avv. G. M., Palermo, 1902, p. 309.

193Cit. in Lupo, Il delitto Notarbartolo, p. 135.

194 Sul ruolo di Lucchesi, Cfr. Pezzino, Stato violenza società, p. 941. 195

Uno di questi gruppi, capitanato dal bandito Barone, si rese protagonista nel 1882 del rapimento di Emanuele Notarbartolo, di ritorno dalle proprietà situate nel circondario di Caccamo196. Dopo l’assassinio dell’ex direttore del Banco di Sicilia, la famiglia sosterrà

che Palizzolo era coinvolto anche in questo misfatto, pur senza saperne indicare il movente. Vi sono alcuni indizi che portavano a questa deduzione. A procurare ai banditi le divise da bersaglieri con cui si travestirono all’atto del sequestro è un certo Guida, cliente del deputato e da lui raccomandato per un posto di ferroviere. Dopo il pagamento del riscatto, i banditi si asserragliarono nella villa della baronessa Colluzio, la cui proprietà confinava con il fondo Palizzolo a Villabate.

Grazie alla consultazione di alcune fonti archivistiche, Salvatore Lupo ha evidenziato un aspetto che merita di essere rilevato e integrato. I Notarbartolo, all’epoca dei processi di Bologna e Firenze, non sapevano che il più importante tra i sospettati manutengoli della banda Barone era il cugino del Giuseppe Fontana (di Vincenzo), il quale sarà indicato nel 1893 come il killer del notabile palermitano, quel Giuseppe Fontana (di Rosario) che nell’82, a Villabate e “per una certa distesa del territorio che mette capo fino ai confini della limitrofa Provincia (Messina) (…) esercita incontrastata influenza malefica”197. Ma già nel 1875 vi sarebbe stato un Giuseppe Fontana di Villabate (non è chiaro se di Rosario o di Vincenzo) “appartenente alla mafia” e che, arrestato per omicidio, “attendeva fiducioso” di tornare in libertà grazie alle pressioni di “persone distinte per la loro posizione sociale”198. Una cosa di cui siamo certi è l’aderenza di Giuseppe Fontana (di Rosario) al sistema di favoritismi e clientelismo facente capo a Raffaele Palizzolo. Il potente notabile si recherà addirittura ad Ustica, per visitare il suo assistito - presente sull’isola a causa di un provvedimento di confino - ed ottenerne la liberazione199.

Ma il vero anello di congiunzione tra il deputato e la cosca di Villabate sarebbe stato il suo castaldo, Matteo Filippello. All’Assise di Bologna, Sangiorgi sostenne come egli fosse in “intimi rapporti col Fontana (di Vincenzo, n.d.r.) e col cognato di lui, certo Barbera, che ha un fondo attiguo a quello in cui sta il Filippello”200. Quasi tutti indicati come manutengoli

di briganti, i membri della “fratellanza”, che secondo la polizia svolgeva regolari riunioni

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Notarbartolo, La città cannibale, pp. 107 - 127. 197

Relazione del 21 agosto 1882 cit. in Lupo, Il delitto Notarbartolo, p. 136.

198Relazione del questore del 3 agosto 1875, cit. in Lupo, Il delitto Notarbartolo, p. 137. 199Pezzino, Stato violenza società, cit., pp. 964 - 965.

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in case di campagna tra Villabate e Ciaculli, si dedicavano ai ricatti, alle rapine, agli abigeati e agli assassini di presunte spie. Senza disdegnare, poi, l’attività politica. Nel 1900, un certo Pitarresi divenne sindaco di Villabate. Si trattava di un personaggio legato a Palizzolo.

All’Assise di Bologna, il testimone e segretario comunale di Roscitiana Colli Giovanni Niccolai affermò che il 1 aprile di quell’anno si svolse una “piccola riunione presso il Filippello per festeggiare la vincita delle elezioni generali”201.

Ancora Sangiorgi, in riferimento alla “fratellanza”, spiegava:

La sfera d’azione e d’influenza di questa società di malfattori non si restringe però al territorio di Villabate solamente, ma si estende sulle vicine borgate di Palermo, a Ficarazzi ed a Misilmeri, ed i suoi numerosi misfatti sono rimasti quasi sempre impuniti pel terrore ch’essa incute ai testimoni ed anche alle parti lese che, temendo d’esporsi a sicura morte, preferiscono tacere e soffrire202.

Risultano ora più comprensibili le ragioni che spinsero i Notarbartolo a dedurre qualche responsabilità del deputato nel rapimento del 1882, in quanto il luogo del sequestro (Caccamo) e quello dove i briganti si erano rifugiati dopo aver incassato il riscatto (Villabate) avevano in comune tra di loro soltanto il fatto di essere nell’area interessata dal sistema di potere incentrato sulla figura di Palizzolo. A Sud - Est di Palermo, a Mezzomorreale, a Ciaculli e a Villabate, Palizzolo possedeva diversi terreni ed aveva solide relazioni negli ambienti poco raccomandabili dei guardiani, dei gabellotti e dei fontanieri. Come fontaniere, ad esempio, egli impiegava nella sua dimora di Malaspina Giacomo Lauriano detto “Jacuzzo”, uno dei pochi mafiosi usciti assolti dal processo del 1882 contro la cosca dei fratelli Amoroso:

intesi più tardi che fu diverse volte arrestato e processato - si giustifica il neodeputato sentito come teste a discarico in quella occasione - ma visto che tutte le volte la Sezione d’accusa lo rimandò con sentenza di non far luogo a procedimento e visto che era sempre

201Testimonianza di Giovanni Nicolai, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 13 marzo 1902. 202

munito di porto d’armi, pensai che egli non fosse altro che vittima di qualche persecuzione203.

Queste parole appaiono poco credibili. Palizzolo intervenne in diverse occasioni per far riavere al Lauriano il porto d’armi o altri tipi di favori204.

Maggiori indicazioni sui legami nebulosi che ruotavano intorno al Palizzolo possiamo ricavarle dal delitto Miceli. Si trattò di un’imputazione cui il deputato dovette rispondere, a Bologna, in contemporanea al delitto Notarbartolo. Lo svolgimento dei fatti è il seguente. Ci troviamo in una grande azienda, “Rocca di Monreale”, la cui proprietaria, Marianna Gentile, è morta nel 1873, lasciando una situazione molto complessa, poiché vi erano ben 500 parenti interessati dall’eredità. Ad alcuni di essi, spettavano quantità ereditarie consistenti e contestarono in tribunale la validità del testimone. Palizzolo intervenne acquistando i diritti su una parte consistente delle quote dell’eredità, impedendone la vendita e assumendone la gabella dell’azienda, poco redditizia, poiché la coltura del fondo era deficitaria e le rendite modeste205. A contrastare le mire del deputato vi era Francesco Miceli, un fattore della villa Gentile. Un personaggio spaccone e collerico, anche per una questione che potremmo definire “familiare”. Come è stato rilevato da alcuni studiosi206infatti, si trattava del figlio di Turi Miceli, uno dei capi delle squadre popolari monrealesi scese a Palermo durante i moti del ’48, del ’60, del ’66, morto durante l’assalto alle prigioni palermitane. Miceli jr. criticava la gestione di Palizzolo e dei suoi protetti all’interno del personale dell’azienda: Nicolò Trapani ed i cugini Vitale. Le sue osservazioni critiche terminarono soltanto il 17 luglio del 1892, quando una sventagliata di pallettoni lo uccise. Dopo la sua morte, Trapani e i Vitale poterono gestire il fondo Gentile come un punto di snodo del contrabbando di tabacco e dell’abigeato. Nell’azienda, ad esempio, vennero ritrovati nel 1889 alcuni animali rubati a Sciara. Inoltre, sempre nel

203Processo dei fratelli Amoroso, cit. in Lupo, Tra banca e politica, p. 138.

204Giuseppe De Felice Giuffrida, (a cura di) Rosario Mangiameli, Maffia e delinquenza in Sicilia, Edizioni di Storia e Studi Sociali, 2014, pp. 52 - 53.

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“Corriere della Sera”, 9 - 10 settembre 1901, consultato in Sala Periodici, Biblioteca Centrale di Firenze, in data 5/12/2016.

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fondo Gentile, venne condotta una ragazza sequestrata e poi rilasciata grazie a una mediazione di Palizzolo207.

Il fondo Gentile era un punto strategico per attività illegali. Ed esse furono possibili grazie alla decisiva mediazione di un membro dell’elitè, cioè Palizzolo. Egli si comportava come un fiduciario dei mafiosi, una sorta di elemento di connessione tra le cosche e la grande campagna latifondistica.

I gruppi mafiosi della parte a est dell’hinterland palermitano si caratterizzavano per la realizzazione di delitti comuni (rapine e sequestri), l’ interessamento per la politica locale ed una forte elasticità tra cosca a cosca, differenza sostanziale rispetto all’organizzazione federativa presente nel versante occidentale e delineata dal questore Sangiorgi. Ovviamente la violenza emergeva come tratto peculiare. Essa era in grado di fungere da elemento di deterrenza terroristica e da strumento di regolamentazione dei conflitti interni ed esterni.

A Villabate, secondo le voci che correvano all’epoca, il problema della spartizione del denaro elargito per l’assassinio di Notarbartolo, avrebbe provocato uno scontro tra alcuni membri della “società” e Filippello, che venne gravemente ferito in un attentato (giugno 1896). All’Assise di Bologna, Il delegato di Pubblica Sicurezza Garipa affermò, al riguardo: “Credo che volessero ammazzare il Filippello perché forse era stato retribuito di più”208.

207Rapporto Sangiorgi, pp. 370 - 72. 208