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La polemica politica I pamphlet di Colajanni e De Felice Giuffrida Che cos’è la mafia?

III. Che cos’è la mafia? L’Italia scopre la criminalità organizzata siciliana siciliana.

3.3. La polemica politica I pamphlet di Colajanni e De Felice Giuffrida Che cos’è la mafia?

È un’esplosione violenta d’ira popolare, dovuta ad un impulso collettivo ed istintivo, il quale unisce in un patto quasi delittuoso molti di coloro, tra i più impulsivi, che, trattati come cani dalla società, giurano di non aver fiducia in altra giustizia che in quella che si fanno con le loro stesse mani296.

Giuseppe De Felice Giuffrida descriveva così il fenomeno mafioso. Uomo politico isolano ed esponente di spicco del neonato Partito Socialista Italiano, più volte sindaco della città di Catania297, egli vedeva nella mafia una sorta di fenomeno arcaico, riscontrabile solamente in certe condizioni di arretratezza. Secondo De Felice la mafia era un

fenomeno residuale , frutto di una non risolta transizione dalla fase feudale alla modernità, convivenza di strutture sociali e di potere altrove tramontate a confronto con la modernità dello stato di diritto, capaci tuttavia di stravolgerne il ruolo regolatore e inceppare i meccanismi di giustizia298.

Sfruttamento e processi di proletarizzazione avrebbero fornito manovalanza criminale. Tale manovalanza, soprattutto nella Sicilia occidentale, “trovava impiego presso i già costituiti gruppi di malandrini al servizio della grande proprietà latifondistica”299.

Nelle condizioni di allora,

il proprietario, se facoltoso, quando non tiene al suo servizio alcuno dei più temuti maffiosi, non è sicuro di raccogliere i prodotti della terra, come non è sicuro, recandosi in campagna, di tornar sano e salvo in famiglia; se piccolo, o è associato alla maffia e

296Giuseppe De Felice Giuffrida, (a cura di) Rosario Mangiameli, Maffia e delinquenza in Sicilia, Edizioni di Storia e Studi Sociali, 2014, p. 28.

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Per approfondire la figura di De Felice rimando a Giuseppe Astuto, Il vicerè socialista. Giuseppe De

Felice Giuffrida, sindaco di Catania, Gruppo editoriale Bonanno, Acireale, 2014.

298De Felice, Maffia e delinquenza in Sicilia, p. 8. 299

nessuno gli torce un capello, o fida nella legge e allora non rimane più un albero del suo giardino, né una vita della sua vigna300.

I grandi proprietari latifondisti, al fine di garantire la sicurezza delle proprie terre, assumevano così figure criminali in grado di scoraggiare possibili furti. Sembrerebbe il caso del principe Mirto (facoltoso possidente) e del soprastante Giuseppe Fontana, mafioso della cosca di Villabate e sospettato sicario di Emanuele Notarbartolo, cui facevamo riferimento nel precedente capitolo.

Il perdurare delle ingiustizie sociali delineate da De Felice Giuffrida si sarebbe rivelato

fondamentale per la nascita e lo sviluppo dei Fasci siciliani. In essi, il politico catanese scorgeva una maniera per combattere efficacemente la criminalità organizzata. Uno scontro che lo vide in prima linea: De Felice Giuffrida partecipò attivamente alle istanze del movimento. Inoltre, grazie alla sua caratura politica - già sindaco di Catania nel 1882 e deputato al Parlamento dal 1892 - figurava tra i membri del comitato centrale dei Fasci. A causa della sua attività dovette pure affrontare un periodo carcerario (1894 - 1896).

Il periodo dei Fasci siciliani, secondo De Felice, coincise con il forte indebolimento del fenomeno mafioso

Quando sorsero i Fasci dei lavoratori, spiegando la bandiera della giustizia sociale, sparve subito, come per incanto, la maffia, là dove i contadini poterono fondare almeno una sezione del Fascio. Gli è che in quell’associazione videro sorgere lo spirito di solidarietà, di cui avevamo bisogno per resistere alle violenze di padroni prepotenti; videro affermare quel sentimento di giustizia vera che li proteggeva contro le sopraffazioni della giustizia partigiana del ricco e del potente; e, lasciata la maffia, che ha carattere delittuoso, s’inscrissero nei Fasci, che tenevano alta ed incontaminata la bandiera del più puro ideale. Ecco come in breve si associarono circa 300.000 tra contadini ed operai, ecco come i Fasci uccisero la maffia, diventando centri di educazione e di morale. Peccato che fosse stata rigorosamente vietata l’ammissione dei condannati. Quando mi fu dato di farne ammettere alcuni, deludendo la rigorosa sorveglianza dei soci, ebbi sempre da

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ammirare in essi la condotta più corretta e la onestà più esemplare. Ciò dimostra che non è malvagità d’animo che spinge i contadini a delinquere301.

Le riflessioni del politico catanese sulla mafia provengono da un pamphlet intitolato

Maffia e delinquenza in Sicilia, pubblicato nei primi mesi del 1900, durante il dibattimento

del processo Notarbartolo all’Assise di Milano. Rosario Mangiameli ha osservato come

la battaglia antimafia (sviluppatasi nel contesto dei processi Notarbartolo n.d.r.) era stata parte di una più vasta battaglia di segno liberal democratico combattuta nel Paese e nel Parlamento che aveva visto le forze della Sinistra estrema allearsi con lo schieramento liberale per contrastare il varo di leggi che miravano a restringere le prerogative parlamentari 302.

De Felice Giuffrida non mancò di offrire il suo contributo alla causa, partecipando sia all’ostruzionismo parlamentare con cui le opposizioni contrastarono l’attività del governo, sia alla discussione pubblica provocata dal processo Notarbartolo, denunciando aspramente, dalle pagine de L’Avanti, la compromissione di diversi uomini politici nazionali con Raffaele Palizzolo e gli ambienti mafiosi palermitani.

La discussione scatenata dal processo Notarbartolo suscitò l’interesse di un altro politico isolano: Napoleone Colajanni. Nato a Castrogiovanni (l’odierna Enna) il 28 aprile del 1847, figlio di proprietari di miniere di zolfo e laureato in Medicina, Colajanni partecipò assiduamente alla vita politica del paese. Democratico e repubblicano, mazziniano e garibaldino, venne eletto deputato al Parlamento a partire dal 1890. Nel 1895 figurava tra i fondatori del Partito Repubblicano Italiano. Nel corso del 1900 pubblicò il pamphlet Nel

regno della mafia. All’interno di questa opera, egli si scagliava contro lo Stato e le sue

articolazioni periferiche, ree di aver legittimato ed usato la mafia come strumento di governo locale e lotta politica. Colajanni dava la sua personale interpretazione della questione mafiosa. La mafia si sarebbe manifestata nel periodo borbonico come forma di autodifesa di matrice popolare: la violenza, la vendetta privata e il codice dell’omertà - il

301Ibid., p. 11. 302

silenzio rispetto ai nemici e ai pubblici poteri - come risposte al malgoverno dello Stato e ad una articolazione economico - sociale, incentrata sul latifondo, provocatrice di ingiustizie sociali, gravanti soprattutto sul mondo contadino.

La mafia in Sicilia sotto i Borboni divenne l’unico mezzo per gli umili, pei poveri, per lavoratori per essere temuti e rispettati, per ottenere la forma di giustizia ch’era compatibile in quelle condizioni e che non era possibile ottenere con forme legali. E alla mafia si dettero tutti i ribelli, tutti gli offesi, tutte le vittime (….) Su questo sfondo di giustizia sociale che servì a creare lo spirito della mafia e dette corpo alle sue manifestazioni s’intende che si innestarono tute le tendenze perverse, tutte le passioni losche, tutte le cause e gli incidenti della delinquenza volgare. Ma nell’insieme essa nacque e fu mantenuta dalla generale diffidenza contro il governo; dalla sua impotenza e dal malvolere nel rendere giustizia, dalla coscienza profonda che l’esperienza aveva dato agli uomini che la giustizia bisognava farsela da sé e non sperarla dai poteri pubblici303.

Colajanni scriveva poi come non “sempre la mafia ha come scopo il male; talora, anzi non di rado, si propone il bene, il giusto; ma i mezzi che adopera sono immorali e criminosi”. Il delitto mafioso aveva una sorta di genesi sociale, non antropologica. Le associazioni criminali ne sarebbero state una manifestazione (“lo spirito che la informa facilmente può generare le cosche, le fratellanze, che sono state vere società di delinquenti”). La piccola proprietà contadina, al contrario, avrebbe potuto essere l’antidoto al problema. Secondo il politico siciliano una riforma agraria si sarebbe rivelata utile. Non è un caso che, al tempo dei Fasci siciliani, Colajanni avrebbe fatto notare come ci fu una diminuzione dei reati nelle zone dove queste organizzazioni erano state più radicate e attive nel veicolare una redistribuzione delle terre ai contadini304. Egli inoltre affiancava alle precedenti osservazioni una durissima accusa contro lo Stato, borbonico prima e sabaudo poi, che in Sicilia avrebbe concesso “mezza libertà” ai cittadini e “mezza autonomia” agli enti locali, disinteressandosi di curare l’amministrazione della giustizia, interessandosi soltanto a

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Napoleone Colajanni., (a cura di) Gianluca Fulvetti, Nel regno della mafia (dai Borboni ai Sabaudi), Edizioni di Storia e Studi Sociali, 2014, p. 44.

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reprimere con la forza le manifestazioni di dissenso e dedito a scendere a patti con i violenti, legittimandoli e usandoli soprattutto a fini politici.

Nel caso specifico delle vicende legate all’omicidio Notarbartolo, Colajanni denunziava le carenze nelle indagini, i depistaggi, le connivenze e le relazioni della questura di Palermo con Palizzolo. Inoltre, da osservatore attento dei dibattimenti giudiziari del processo, notava come il silenzio di molti testimoni siciliani dinanzi alle domande di un magistrato era figlio di una “morale speciale”, una sorta di “spirito di mafia”, un codice culturale difensivo, alimentato dalla sfiducia nelle istituzioni e rafforzato senz’altro dalla paura per la violenza mafiosa e per l’utilizzo strumentale che veniva fatto dalle autorità dello Stato, visto che, “la mafia che esiste in Sicilia non è pericolosa, né invincibile per sé, ma perché è strumento di governo locale”305.

Nelle pagine conclusive del suo pamphlet Colajanni esprimeva amaramente la possibile soluzione:

(…)per combattere e distruggere il regno della mafia è necessario, è indispensabile che il governo italiano cessi di essere il re della mafia! Ma esso ha preso troppo gusto ad esercitare quella sua disonesta e illecita potestà; è troppo esercitato e indurito nel male. (….) Il regno della mafia in Sicilia non cesserà se non il giorno in cui con una vera instauratio ab imis i siciliani acquisteranno la libertà vera, il diritto e i mezzi di punire i prepotenti, di mettere alla gogna i ladri e di assicurare a tutti la giustizia giusta!”306

Le polemiche di De Felice Giuffrida e Colajanni hanno in comune la critica alle ingiustizie sociali provocate dal diffuso latifondismo isolano. Tale critica si rivelava cruciale soprattutto nelle argomentazioni addotte dal politico catanese socialista. De Felice Giuffrida faceva derivare la genesi della mafia dalle sperequazioni sociali ed economiche, rappresentanti il vero campo di battaglia per la lotta al fenomeno criminale. Egli vedeva con favore le istanze del movimento dei Fasci siciliani. La soluzione al problema della mafia, a suo parere un “fenomeno residuale”, risiedeva in una più equa ripartizione delle terre e delle risorse.

305Colajanni, Nel regno della mafia, p. 78. 306

Colajanni, invece, si avventurava in un crinale tendente a una maggiore polemica propriamente politica. Il suo bersaglio era l’amministrazione centrale dello Stato italiano, a suo parere degna erede della “malapolitica borbonica”. La Sicilia sarebbe stata privata di qualsivoglia senso della legalità, subendo il dominio di una legge coercitiva e ingiusta nei confronti della popolazione. Secondo Colajanni, il Governo era piuttosto interessato a servirsi della mafia come strumento di governo locale. La celebre polemica sollevata da Diego Tajani alla Camera dei Deputati, incentrata sulle pratiche del questore Albanese, viene ricordata dal politico repubblicano tra gli esempi poco virtuosi e di commistione tra autorità pubblica e universo criminale.

Il politico repubblicano, nelle sue argomentazioni contro la “malapolitica”, evitava di accusare le classi dirigenti isolane, soffermandosi maggiormente sulle responsabilità provenienti da Roma. All’interno del pamphlet emerge a mio parere una sottovalutazione del ruolo svolto dal mafioso, soggetto capace di agire autonomamente e svolgere più ruoli o funzioni, a seconda del contesto. L’idea di una mafia prona e sempre ben disposta di fronte ai bisogni o agli interessi di determinate elitès politiche, detentrici del potere statale, è fuorviante. Si tratta di una prospettiva che non ci aiuterebbe a comprendere adeguatamente le peculiarità delle organizzazioni criminali e il loro perdurare nei decenni.