• Non ci sono risultati.

La mafia nel processo.

III. Che cos’è la mafia? L’Italia scopre la criminalità organizzata siciliana siciliana.

3.5. La mafia nel processo.

Tra i testimoni uditi durante il processo di Bologna, figurava il celebre etnologo Giuseppe Pitrè, chiamato dalla difesa di Palizzolo. In quell’occasione, egli dichiarava come la parola mafia stava anticamente ad indicare il concetto di “bellezza, graziosità, eccellenza nel suo genere”, mentre nei tempi moderni sarebbe passata ad indicare “la coscienza, talora esagerata, della propria personalità, della propria dignità, la quale non si rassegna a sopraffazioni di sorta” e può “portare alla delinquenza”317. Pitrè riaffermava concetti che aveva già espresso in passato, precisamente nel corso degli anni ottanta del IX secolo. Per il famoso etnologo, la mafia “non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti (…) il mafioso non è un ladro, non è un malandrino (…)318. L’omertà, parola chiave all’interno delle criminalità organizzata, deriverebbe dalla radice uomo, significherebbe essere per eccellenza uomo, che virilmente risponde da sé alle offese senza ricorrere alla

316 Cit. in Ivi.

317L’Ora”, 31 marzo 1902, cit, in Lupo, Storia della mafia, p. 165. 318

giustizia sociale319. Con questa interpretazione, come ha lucidamente rilevato Paolo

Pezzino, prendeva la sua forma più completa e articolata quella

(…) posizione che, tendendo a ridurre la mafia a carattere dell’ethos siciliano, poteva venire utilizzata ogni qualvolta le vicende della lotta politica lasciassero spazio alle chiassose rivendicazioni del sicilianismo e all’esaltazione dei caratteri originari dei siciliani come cemento di blocchi interclassisti indirizzati contro un presunto nemico esterno: si definisce, cioè quel paradigma riduttivo della mafia a dato culturale, che spesso coincide con la negazione pura e semplice del fenomeno”320.

Non è un caso quindi che Pitrè figurava tra i principali ispiratori ed esponenti del Comitato Pro - Sicilia.

L’apporto dell’etnologo alla costituzione del paradigma riduzionista del fenomeno mafioso si rivelò fondamentale. La tesi interpretativa che vedeva la mafia come mero dato culturale della popolazione siciliana, riecheggiava all’interno dei processi Notarbartolo. Non furono pochi i testimoni che, chiamati ad effettuare la loro deposizione dinanzi alla Corte, utilizzarono lo schema interpretativo di Pitrè, fornendo una percezione alquanto distorta del fenomeno mafioso. Grazie alla consultazione delle udienze del processo di Bologna, ho avuto la possibilità di incontrare diverse testimonianze orientate verso questo schema. Vale la pena di riportarle in queste pagine. Proveremo a decostruirle, almeno nelle loro parti più interessanti.

All’Assise di Bologna, il dottore Garibaldi Modica affermava

In Sicilia generalmente si esagera nel rispetto a se stessi, alla donna, alla famiglia e questo rispetto esagerato, quando da altri si vuol violare è causa di reazione e periodi di duelli e di atti violenti. Quanto alla mafia siciliana, mafia che si duratura è il sentimento di chi ha parlato e alberga in un animo delinquente. Si può quindi esser mafiosi e non delinquenti»321.

319Ivi.

320Pezzino, Stato violenza società, p. 928. 321

La mafia viene interpretata come caratteristica specifica della popolazione siciliana, incline al ”rispetto esagerato”, in grado di provocare possibili reazioni violente (“duelli”). Modica sosteneva inoltre che vi era una distinzione tra mafioso e delinquente, argomentazione che ricorrerà in molte testimonianze.

Il delegato di pubblica sicurezza Francesco Garipa negava decisamente la natura organizzativa della mafia.

La mafia non è un’associazione a delinquere come da molti si dice. Secondo me la mafia è il perfezionamento della prepotenza diretta ad ogni scopo di male; è la solidarietà istintiva conformata da un po’ di brutalità che associa e a danno delle leggi e di tutti gli organismi regolatori quelli individui e quelli strati sociali che amano trarre l’esistenza e certe volte anche gli agi non del lavoro, ma delle prepotenza, dell’inganno e quello che è più delle intimidazione»322.

Per il delegato di pubblica sicurezza la mafia era una specie di reazione comportamentale di alcuni individui o strati sociali, interessati ad ottenere benefici e vantaggi attraverso l’utilizzo della prepotenza e dell’intimidazione. Quest’ultima parola, a mio parere, è fondamentale nel delineare un aspetto comune alle diverse organizzazioni criminali tuttora esistenti: la capacità di intimidazione, direttamente connessa alla dimensione del controllo territoriale. Garipa coglieva una peculiarità dell’agire mafioso, senza tuttavia comprendere la “vera natura” della criminalità organizzata siciliana.

Il pubblicista crispino Girolamo De Aprile, con la sua deposizione, riproponeva a grandi linee l’interpretazione sviluppata da Pitrè.

Credo che la mafia non sia un’associazione, la prepotenza elevata a sistema e chi crede valere più di un altro e imporre. La mafia non è delinquenza, è la consuetudine antica di vendicarsi colle proprie mani, imporsi colla violenza e col coraggio. Ci sono i mafiosi onesti ed i tristi, e questi ultimi si associano a delinquere e quindi le imposizioni ai proprietari. La mafia non è altro che il difendersi da se, il vendicarsi da se, il non denunziare, il non ricorrere alla polizia, è più che altro una costumanza isolana, ma

322

dentro la mafia vi sono costituite società a delinquere. Per la mafia delinquente chi depone davanti la giustizia è un infame e contro di lui vi può commettere qualunque sanzione, qualunque reato. Questa è la verità»323.

In questa testimonianza assume un ruolo cruciale quella che noi definiamo omertà, intesa come silenzio di fronte alle autorità investigative e giudiziarie (“non ricorrere alla polizia”). Aprile negava l’esistenza di un’organizzazione criminale, ma affermava l’esistenza di mafiosi (quelli “tristi”) associati tra di loro e in grado di commettere attività illecite, come l’intimidazione nei confronti dei proprietari terrieri. Questi mafiosi avrebbero avuto la capacità di esercitare violenza (se necessaria) nei confronti di possibili delatori e spie fin troppo loquaci davanti alle autorità. Si tratta di una caratteristica tipica di Cosa Nostra, cioè quella di minacciare i propri associati con la violenza, nel caso di tradimento nei confronti dell’organizzazione. L’esempio di ciò ci viene fornito dal caso di Leonardo Vitale, ritenuto da molti (erroneamente324) “il primo pentito di Cosa Nostra”.

Egli pronunciò davanti ai magistrati i nomi di Totò Riina e altri mafiosi di rango, delineando l’assetto di comando che allora vigeva all’interno della mafia siciliana. Ci troviamo negli anni ’80 del XX secolo. Vitale non fu creduto e finì recluso in un manicomio per quasi 11 anni. Pochi mesi dopo il suo rilascio, venne ucciso da alcuni killer di Cosa Nostra325.

Il capitano dei R.R. carabinieri di Palermo Achille Muscarà sosteneva che la mafia in Sicilia era innata. Mafioso era

chi non vuole mosche nel naso e che ogni cosa vuol risolvere da se, ed è pure mafioso chi vuole trar guadagni dalla prepotenza, e quest’ultima è la mafia delinquente che specialmente agisce sulle campagne. Nei rapporti della giustizia poi il mafioso ha il dovere dell’omertà che consiste nel tacer tutto alla giustizia stessa. In altri termini il

323

Testimonianza di Girolamo Aprile De Luca, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 4 dicembre 1901, 324

Leonardo Vitale viene raffigurato - soprattutto in ambito pubblicistico - come il primo pentito di Cosa Nostra. Mi pare sia una semplificazione, cui necessita una breve contestualizzazione. Il rapporto Sangiorgi, discusso nel secondo capitolo, era stato redatto grazie a testimonianze e informazioni provenienti da fonti interne a Cosa Nostra. Vitale differisce da tali testimonianze per aver confessato dinanzi alla magistratura invece che negli uffici di qualche funzionario di polizia o questore. All’interno di Cosa Nostra e delle altre criminalità organizzate è ampiamente diffusa la pratica di trasmettere informazioni alle forze dell’ordine per colpire i propri avversari interni. Si tratta di un’azione che ricorre spesso nella storia di tali sodalizi.

325

mafioso si sostituisce all’azione della giustizia, le vendette si debbono prendere da sé e ai bambini si fanno vedere i cadaveri perché si abituino all’idea della vendetta»326.

Nella sua deposizione, Muscarà delineava la figura del mafioso, soggetto che sarebbe stato in grado di agire autonomamente e compiere una sorta di “giustizia” extralegale, rispetto a quella esercitata dallo Stato.

Il possidente Enrico Amodei, lontano parente di Raffaele Palizzolo, riproponeva l’idea di una mafia come comportamento isolano, incentrato sul rispetto reciproco.

La mafia non è altro che un sentimento esagerato della propria individualità, per cui un amico forte e generoso non vuol sopraffare né farsi sopraffare. Quelli che dicono che la mafia è la delinquenza dimenticano che la malavita è di tutti paesi, e a seconda delle località si battezza in nomi diversi. La mafia a seconda dell’indole del nostro popolo si comprende in questa formula: «Io rispetto per essere rispettato327.

L’ex presidente del consiglio Dì Rudinì non credeva all’esistenza di un’associazione criminale.

(…) la mafia non ha organizzazione palpabile, e quindi a priori debbo non ammettere che

la mafia abbia un capo. Per me la mafia è la mala vita, caricate le tinte finché volete e avrete la mafia ma ripeto non ci sono capi, ci saranno nemici di grande autorità e influenza ma capi no328.

Di Rudinì non si discostava molto dalle opinioni dominanti allora nel dibattito pubblico. Riconduceva il fenomeno mafioso alla criminalità comune, senza escludere l’esistenza di “nemici di grande autorità”, riferendosi forse a possibili criminali dotati di forte influenza in precisi contesti territoriali.

Si rivela maggiormente interessante e dettagliata la deposizione di Giovanni Codronchi. Dinanzi alla Corte dell’Assise di Bologna, l’ex commissario civile affermò

326Testimonianza di Achille Muscarà, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 6 dicembre 1901 327Testimonianza di Enrico Amodei, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 21 febbraio 1902 328

Della mafia se ne servono un po’ tutti ma è un errore storico il dire che essa sia in origine un’associazione di malfattori. Mafia significa il diritto del più forte, del più prepotente e quindi è più facile che in essa germoglino i malfattori. Una tal volta una persona distintissima ebbe a dirmi che essendo stato commesso un furto a suo danno si rivolse alla polizia che nulla riuscì a scoprire, si rivolse a persone influenti della mafia e riebbe subito tutto quello che gli era stato rubato»329.

A seguito di questa affermazione, l’avv. Altobelli domandò a Codronchi se potesse rivelare il nome del soggetto derubato, ricevendo una risposta però alquanto piccata: “Non lo direi neppure se mi tagliaste il collo”. Successivamente “corretta”, in un certo senso, da un “Non ricordo”330.

Nella continuazione della deposizione, Codronchi riferiva un altro avvenimento:

Ricordo un altro fatto che sta a mostrare la potenza della mafia. In un comune della Sicilia veniva esercitato il contrabbando su larga scala. Il Sindaco di quel Comune si rivolse a certo Perricone che a sua volte si rivolse alla mafia e il contrabbando cessò immediatamente 331.

Nella prima parte della testimonianza, Codronchi riprendeva uno dei concetti più cari a Pitrè, quello della prepotenza. L’ex commissario civile escludeva l’esistenza di associazioni. Riconduceva la parola mafia al “diritto del più forte”, una facoltà che, se esercitata, avrebbe avuto maggiori possibilità di favorire atti delinquenziali. Sin qui non si hanno particolari novità rispetto a molte delle deposizioni che abbiamo visto in precedenza. Le cose si fanno più interessanti quando Codronchi inizia a raccontare i due avvenimenti di cui è a conoscenza. Si parla di un furto avvenuto ai danni di una persona distinta e di un contrabbando esercitato in una zona precisa. In entrambi i casi, interviene la mafia. E in che cosa consiste il suo intervento? Nella risoluzione dei problemi descritti. Il maltolto viene restituito al derubato. Il contrabbando cessa di esistere. Codronchi,

329Testimonianza di Giovanni Codronchi, ASBO, Processo contro Palizzolo e altri, 24 febbraio 1902. 330Ivi.

331 Ivi.

raccontando queste circostanze ci mostra una mafia capace di garantire ordine all’interno di un più ampio e articolato mondo criminale. Essa si rivela capace di utilizzare la propria forza e autorevolezza nei confronti di ladri e contrabbandieri. Inoltre, possiamo desumere come si riveli fondamentale il controllo territoriale per il verificarsi delle azioni “di pubblica sicurezza” svolte dai mafiosi in questi due casi. Il conte imolese negava decisamente l’esistenza di un’organizzazione criminale, ma, involontariamente, riportando quei due fatti, ci lasciava una testimonianza di un certo peso, data la caratura politica e pubblica del testimone, in grado di fornirci ulteriore materiale riguardo alle percezioni che le elitès dell’epoca avevano del fenomeno mafioso.

Conclusioni

Due uomini romagnoli, Giovanni Codronchi e Ermanno Sangiorgi, si ritrovarono ad occupare cariche rilevanti (commissario civile per la Sicilia e questore di Palermo) nel periodo in cui si svilupparono le indagini ed i diversi gradi processuali dell’omicidio Notarbartolo. Entrambi ebbero a che fare con Raffaele Palizzolo, in circostanze alquanto differenti. Il conte imolese, appena insediatosi a Palermo in qualità di Commissario Civile, si intrattenne a conciliabolo numerose volte con Raffaele Palizzolo, una sorta di consigliere prezioso per la gestione della politica palermitana. Sangiorgi invece si recò dal notabile palermitano al fine di notificargli il suo imminente arresto, in seguito all’autorizzazione a procedere concessa dalla Camera dei Deputati. Codronchi e Sangiorgi parteciparono poi ai processi di Bologna e Firenze in qualità di testimoni. Anche qua, vi erano differenze tra i due. Il questore era convinto della colpevolezza di Palizzolo, il senatore invece si dimostrava alquanto dubbioso. Entrambi avevano una propria idea di che cosa fosse la mafia. Sangiorgi credeva all’esistenza di un’organizzazione strutturata e unitaria, capace di coordinare differenti cosche. Codronchi, dal canto suo, vedeva nella mafia un comportamento isolano, accodandosi così ai numerosi proseliti fatti dalle teorie di Giuseppe Pitrè, massimo esponente della cosiddetta tesi culturalista, rilevabile nel dibattito pubblico almeno sino agli anni ottanta del secolo scorso, cioè fino a quando il Maxiprocesso non certificò in maniera definitiva, grazie a una sentenza storica, la natura organizzativa di Cosa Nostra.

In Codronchi e Sangiorgi si riassumono molte delle questioni che ho trattato all’interno di questo elaborato. Le diversità tra i due sono anche le posizioni e i metodi differenti che si svilupparono nel contesto dell’Italia liberale di fine Ottocento, tra chi intuiva la pericolosità e pervasività del fenomeno mafioso e coloro che sottovalutavano la questione, ritenendo più opportuno fronteggiare il malcontento sociale e il pericolo sovversivo rappresentato dagli oppositori politici, prima mazziniani e clericali, poi socialisti. L’Italia dell’omicidio Notarbartolo introiettava dentro di sé il frutto avvelenato della cogestione dell’ordine pubblico tra élites e criminali, sviluppatosi soprattutto nel corso della metà del XIX secolo, cui facevo riferimento nel primo capitolo. L’uccisione di Emanuele Notarbartolo non poteva passare inosservata e dimostrò come le interazioni tra classi

dirigenti e criminalità organizzata fossero talmente sviluppate da impedire, prima il regolare svolgimento del processo, poi, una volta avviata l’istruttoria, il suo procedere, al fine di individuare i rei del delitto. Dal maggio 1893, momento in cui presero il via le prime indagini, fino al luglio 1904, mese in cui la Corte d’Assise di Firenze pronunciò il verdetto di assoluzione per Giuseppe Fontana e Raffaele Palizzolo, accaddero numerosi fatti volti a impedire il regolare procedere della giustizia. Mi rendo conto che potrebbe trattarsi di un’affermazione alquanto univoca e non in grado di rispondere alla complessità del contesto in cui si svilupparono i diversi gradi del processo. Tuttavia, ricostruendo le varie tappe dell’iter giudiziario, rimango convinto della veridicità di molte delle affermazioni contenute nel memoriale di Leopoldo Notarbartolo, ritenute attendibili da alcuni storici dedicatisi al tema (Salvatore Lupo) e coerenti con i resoconti delle testimonianze dei processi. Compito dello storico è anche quello di verificare la “prova” e ricercarne la sua veridicità, evitando così di assumere acriticamente la fonte stessa. Del resto, “le fonti non sono né finestre spalancate, come credono i positivisti, né muri che ostruiscono lo sguardo, come credono gli scettici: semmai, potremmo paragonarle a vetri deformanti”332, che quali implicano un’analisi.

Ho cercato - dove mi è stato possibile - di contestualizzare e verificare i numerosi fatti contenuti nelle deposizioni effettuate dai testimoni dei due processi, mettendoli a confronto con le altre fonti disponibili, in maniera tale da poter fornire una narrazione il più possibile attinente alla realtà effettiva dell’epoca.

Nelle prime pagine di questo elaborato mi ero prefissato due obiettivi da conseguire con la trattazione dell’omicidio Notarbartolo. Innanzitutto, la questione delle interazioni tra élites e criminalità organizzata. Credo che si possa affermare come tali pratiche fossero alquanto diffuse nell’Italia liberale. Ciò non deve però trarre in inganno e portare a possibili interpretazioni semplicistiche. Possiamo considerare Raffaele Palizzolo come il primo caso di ascesa sociale di un mafioso (addirittura divenuto parlamentare)? È possibile ricondurre la sua figura a un reato allora inesistente333, come quello del concorso esterno in associazione mafiosa? Non sono in grado di dare una risposta certa a tali quesiti. Indubbiamente ci troviamo di fronte a un uomo politico in grado di sviluppare legami

332 Carlo Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 49. 333

Il concorso esterno in associazione mafiosa è un reato previsto e punito dall’artico 416 bis del Codice Penale italiano, introdotto dalla legge 13 settembre 1982 n.646 (legge “La Torre - Rognoni”).

stabili e duraturi con esponenti della criminalità organizzata siciliana e del banditismo. Ritengo opportuno tuttavia limitarmi a un’unica considerazione sulla figura del deputato palermitano.

L’esistenza della mafia siciliana (e di tutte le organizzazioni criminali, aggiungo) si deve anche alla capacità di stabilire relazioni con i diversi attori sociali, in modalità che possono risultare differenti nel corso del tempo. Nell’Italia di allora, questa capacità era praticata con frequenza. La capacità di stabilire relazioni permise ai mafiosi di Villabate, per esempio, di ottenere vantaggi e privilegi dal legame con Palizzolo. Egli grazie alla sua influenza politica e caratura sociale, era in grado di intervenire presso i tribunali e gli uffici dei delegati di Pubblica Sicurezza, in maniera tale da risolvere i “guai giudiziari” dei suoi protetti. In cambio il notabile palermitano poteva sfruttare tali relazioni criminali a fini elettorali (controllo dei voti in alcune borgate cittadine) e delittuosi (omicidio Notarbartolo?). Un do et deus, tratto peculiare delle criminalità organizzate, sempre interessate a trovare interlocutori affidabili.

Questo tipo di relazioni era sottovalutato dalle élites: non vi era la percezione dei pericoli insiti in tal pratiche. Codronchi, Di Rudinì, il procuratore Cosenza e altri protagonisti importanti dei processi Notarbartolo ritenevano che la mafia fosse un comportamento e non un’associazione di criminali, negando poi qualsiasi responsabilità e coinvolgimento delle classi dirigenti nella gestione delle relazioni con il mondo criminale. Tali interpretazioni non si discostavano dalla tesi culturalista che si stava affermando in quegli anni all’interno del dibattito pubblico. Tuttavia, nello stesso momento in cui si affermava questo paradigma, senz’altro dominante nelle discussioni pubbliche, prendevano forma e voce interpretazioni differenti, già in grado di cogliere la natura associativa della mafia siciliana. Gli anni dei processi dell’omicidio Notarbartolo coincisero con il lavoro di Sangiorgi e le opere di Alongi e Cutrera, a mio avviso tra i primi testi del filone interpretativo che potremmo definire associativo, destinato a soccombere - sia nella discussione pubblica che nelle attività investigative - nei decenni successivi.

L’omicidio Notarbartolo permette di riflettere con maggiore attenzione sulla delicata questione che ho sin qui trattato. L’auspicio è che si possa proseguire nella trattazione del tema e di aver fornito una serie di spunti e riflessioni utili a chiarire la complessità dei rapporti tra élites e criminalità organizzata.

Bibliografia

Testi

Alatri P., Lotte politiche sotto il governo della Destra (1866 - 1874), Einaudi, Torino, 1954.

Alongi G., La mafia, introduzione di Herner Hess, Sellerio Editore, Palermo, 1977.

Aymard M., Giarrizzo G., La Sicilia, Einaudi, Torino, 1987.

Avellone G.B., Morasca S., Mafia, Roma, 1911.

Benigno F., La mala setta. Alle origini di mafia e camorra. 1859 - 1878, Einaudi, Torino, 2015.

Berselli A., Il governo della destra: Italia legale e Italia reale dopo l’Unità, Il Mulino, Bologna, 1997.

Cancila O., Palermo, Laterza, Bari, 1988.

Capone A., L’opposizione meridionale nell’età della Destra, Edizione di Storia e Letteratura, Roma, 1970.

Ciotti G., I casi di Palermo. Cenni storici sugli avvenimenti di settembre 1866, Priulla, Palermo, 1866.

Colajanni N., (a cura di) Fulvetti G., Nel regno della mafia (dai Borboni ai Sabaudi), Edizioni di Storia e Studi Sociali, 2014.

Costanza S., La patria armata, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Corrao