In precedenza abbiamo fatto riferimento al concetto di molteplicità necessaria, in quanto strumento utile alla definizione rigorosa e veritiera della realtà singolare indagata da una disciplina. Di per sé si tratta di un’idea estremamente potenziale, al cui interno purtroppo sono già racchiuse le premesse che potrebbero condurla a delle distorsioni, tali da renderla fortemente divergente dalle sue iniziali ragioni d’essere.
Lo scopo fondamentale che spinge all’adozione di questo strumento è la volontà di riuscire a descrivere nel modo più esatto possibile la complessità connaturata a ogni contesto riferibile alla concreta e reale dimensione umana. Tali contesti, siano essi rela- zioni tra soggetti, oggetti direttamente connessi all’uomo, o l’uomo in quanto soggetto, si caratterizzano per la loro singolarità, ossia unicità non ripetibile né standardizzabile all’interno di griglie concettuali. Come abbiamo già detto tale singolarità non è una caratteristica intrinseca, ma deriva da un’attribuzione di significato riconosciuta da un singolo individuo e volutamente riversata sull’oggetto di indagine.
Ora, al fine di riuscire a descrivere una situazione che, a causa della forte variabilità dei caratteri, è giusto definire complessa, ci sembra utile avvalorare la bontà di un metodo che affronta il problema da più punti di vista. In tal modo l’oggetto di studio si scom- pone in una sommatoria di visioni parallele, ognuna delle quali però corrisponde a uno specifico ambito disciplinare. Il punto di crisi del concetto di molteplicità necessaria scatu-
risce proprio da quest’ultima affermazione poiché, pur nella loro bontà, ognuna delle definizioni che cercano di definire l’oggetto di studio rappresenta una visione parziale del problema. Il rischio più grande, allora, è la possibilità di perdere di vista il centro, ossia la completezza e l’integrità dell’oggetto che si sta cercando di definire. Inoltre, è potenzialmente presente l’eventualità di una specializzazione disciplinare sempre più forte in cui si avverte la tendenza ad assumere quale verità assoluta la propria verità parziale. In ciò riconosciamo l’immagine del metodo forte di cui abbiamo parlato e che, come abbiamo detto, la cultura contemporanea ha messo in crisi avvalorando la possi- bilità più onesta dell’utilizzo di un metodo debole.
Pur mantenendo la bontà di quanto fino a ora argomentato, sarebbe più giusto ricercare una soluzione che sia integrativa della precedente e la porti a una maggior completezza. Appare quindi necessario utilizzare una metodologia conoscitiva complementare al processo di scomposizione analitica fino a qui proposto. Tale metodologia è rappre- sentata nel concetto di sintesi che, in quanto pratica metodologica, ci permette di riunire la serie di elementi parziali indagati attraverso l’analisi in un insieme ordinato e organico. In sostanza, bisogna riuscire a integrare tra di loro le singole definizioni offerte da ogni specifico ambito disciplinare all’interno dell’unità originaria rappresentata dal nostro oggetto di studio. Solo in questo modo si potrà mantenere fede alla reale natura di quel
centro di cui poco sopra abbiamo parlato; anzi, riuscendo a descrivere la completezza
dell’oggetto singolare, si raggiunge la ragione d’essere di ogni metodo: la definizione di una verità.
Operativamente, il procedimento sintetico si qualifica per una forte accezione interdi- sciplinare, per via della quale la specificità di ogni materia dovrebbe cercare di dialogare intorno a un centro comune. Questo è sicuramente uno degli elementi più importanti del nostro ragionamento. Ogni disciplina, infatti, pur non alterando la propria natura e le proprie specificità metodologiche, ha il dovere di porsi al di sopra di ogni visione parziale. Perciò le limitate idee di ogni singolo campo di indagine devono essere messe a confronto con i risultati parziali di altre discipline e, se il confronto svela accenti diver- genti dall’unità originaria, bisogna mettere in discussione le proprie convinzioni e fare un passo indietro.
Lo scopo è di pervenire a un risultato univoco, che non si qualifica come semplice sommatoria degli esiti di ogni specifico ambito disciplinare, ma che, attraverso una revi- sione interdisciplinare condizionata dall’essenza del centro, sappia visualizzare la complessità dell’oggetto singolare. In questo modo si vuole essere coerenti con l’es-
senza del metodo debole, il quale, come abbiamo più volte avuto modo di ricordare, rinnega ogni concettualizzazione precostituita, che avrebbe come unico fine quello di rinchiudere ogni disciplina all’interno delle proprie false certezze.
D’altro canto, non ci sembra coerente con la realtà pensare che si possa risolvere il problema della complessità dell’oggetto partendo da una metodologia interdisciplinare. Nella sostanza, a quest’ultima si chiede di superare la limitatezza intrinseca a ogni ambito teorico, promuovendo uno spazio in cui le singole materie di studio operano insieme a partire da ciò che le accomuna.24Non crediamo sia realisticamente possibile
agire in questo senso poiché c’è il rischio di sacrificare l’unitarietà e l’autonomia disci- plinare, al punto tale da proporne una definizione deviata e fortemente parziale. Per noi ogni ambito, che si caratterizza per la sua singolare specificità e per la sua indipen- denza, deve essere visto nella dimensione dialogica di analisi e sintesi e, all’interno di quest’ultima, deve aprirsi a una discussione costruttiva e se necessario distruttiva. Nel suddetto complesso sistema di relazioni, l’architettura, in quanto disciplina carat- terizzata da una forte dimensione tecnica, opera su più livelli e secondo modalità diversificate. In architettura, come abbiamo più volte ricordato, la risposta progettuale a un bisogno è corretta solo nel momento in cui trae origine da una riflessione che defi- nisca i contorni dello stesso bisogno. In altri termini, non è possibile pensare che tale disciplina possa imporre delle soluzioni avulse da un reale rapporto con la cultura e il pensiero di chi ne usufruirà.
Questa dimensione concettuale è il primo livello all’interno del quale l’architettura deve fornire il proprio personale contributo. Allora, pur rimanendo fedele alla propria natura a prevalente vocazione tecnica, essa si spende per proporre un insieme sistematico di concetti. Tali concetti, che ovviamente si riferiscono al bisogno originario nonostante il loro carattere eminentemente teoretico, si distinguono per il fatto di preservare comunque una certa inclinazione nei confronti del fatto costruttivo. A questo livello, ricordiamo che non esiste la superiorità di un’ambito di studio sugli altri: tutte concor- rono alla definizione dei contorni del contesto teoretico da prendere a riferimento, secondo le modalità tipiche di un approccio interdisciplinare, come sopra descritto. In un secondo momento, quando ci si troverà di fronte alla necessità di creare un’opera architettonica che sappia rispondere a delle istanze ben precise, l’architettura si riappro- prierà pienamente dei connotati tecnici che la contraddistinguono, si svincolerà totalmente dagli altri ambiti teorici e imporrà la propria autonomia. Il punto di partenza è naturalmente la definizione univoca del bisogno ottenuta per mezzo di una discus- sione interdisciplinare; tale definizione costituisce il supporto concettuale alla
progettazione concreta del fatto architettonico, tanto che sarebbe auspicabile poter considerare l’architettura costruita come una materializzazione dei concetti teorici assunti a riferimento.
La progettazione e la concreta realizzazione dell’opera architettonica sono però definite all’interno di una serie di strumentazioni tecniche che, pur se liberamente utilizzabili, restano comunque vincolate al fatto materiale. Questa condizione crea delle evidenti barriere al confronto con le altre discipline, le quali, non comprendendo la natura degli argomenti trattati, non riuscirebbero a indagare la dimensione costruttiva dell’architet- tura. E’ quindi irrealistico avvalorare l’ipotesi di un confronto tra i diversi campi del sapere.
Ciò che invece deve essere sottolineato con insistenza è la dipendenza della pratica costruttiva dell’architettura rispetto a un complesso sistema concettuale, il quale costi- tuisce l’ineludibile dimensione teorica che si cercherà di materializzare nelle forme costruite.
Sulla base di quanto si è cercato fin qui di argomentare, nel riferirci alla concreta realiz- zazione del fatto architettonico, ci sembra più appropriato parlare di intradisciplinarietà, sottintendendo in questo termine la possibilità, manifestata dalla esplicitazione costrut- tiva dell’architettura, di raccogliere al proprio interno diversi contributi teorici, a patto che questi siano stati preventivamente verificati sulla base di discussioni interdiscipli- nari.
1 Cit. in G.-G. GRANCER, Metodo, in Enciclopedia Einaudi, IX, Torino 1980, p. 237.
2Ivi. 3Ivi, p. 238.
4B. ZEVI, Architectura in nuce, Sansoni, Milano 1994, p. 17, (I ed. 1960).
5M. FOUCAULT, Biopolitica e liberalismo, a cura di O. Marzocco, Medusa, Milano 2001, pp. 191-192. 6G.-G. GRANCER, cit., p. 250.
7 G. GRASSO, Come costruire una chiesa. Teologia, metodo, architettura, Borla, Roma 1994, p. 150. In
questo testo lo studioso sottolinea che l’architet- tura può essere distintamente definita come scienza e come tecnica: «Se il fare architettura è piut- tosto una tecnica, una arte, il pensamento organico che ha per oggetto il fare architettura è una scienza» Tale definizione è funzionale a una esigenza meto- dologica e non corrisponde alla reale natura della disciplina architettonica, in cui l’azione intellettuale è già intimamente connessa all’aspetto materiale e tecnico.
8G.-G. GRANCER, cit., p. 250.
9Martin Heidegger nel saggio che studia il signifi- cato di opera d’arte contenuto nel testo Holzwege, spiega l’evoluzione storica dell’idea di cosa in quanto mera-cosa. In particolare ne definisce due aspetti che considerano la cosa: portatrice di acci- denti (caratteristiche riconoscibili ed associabili alla cosa); somma di sensazioni percettive che l’indi- viduo attribuisce alla cosa con cui si trova in contatto. M. HEIDEGGER, L’origine dell’opera d’arte,
in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Milano 2002, pp. 6-25 (ed. orig., Der Ursprung
des Kunstwerkes, in Holzwege, Klostermann, Fran-
kfurt am Main 1950). 10G.-G. GRANCER, cit., pp. 249-250. 11Ivi, p. 251. 12M. HEIDEGGER, cit., pp. 3-69. 13Ivi, p. 14. 14Ivi, p. 19. 15Ivi, p. 20.
16W. BENjAMIN, L’opera d’arte nell’epoca della sua ripro- ducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2000, p. 45 (ed.
orig., Das kunstwerk im zeitalter seiner tecnischer repro-
duzierbarkeit, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main
1955).
17G.-G. GRANCER, cit., p. 252. 18G. GRASSO, cit., p. 22.
19LECORBUSIER, Verso una Architettura, a cura di P. Cerri - P. Nicolin - C. Fioroni, Longanesi, Milano 1984, pp. 106-115 (ed. orig., Vers une Architecture, Fondation Le Corbusier, s.l. 1966).
20Ivi, p. 187.
21G. GRASSO, cit., p. 24. 22G. GRASSO, cit., p. 26.
23Cit. in R. GABETTI, Progettazione architettonica e ricerca tecnico-scientifica nella costruzione della città, in
AA.VV., Storia e progetto 6. Progetto Torino, Franco Angeli, Milano 1983, p. 53.
24E’ questa la posizione sostenuta da Giacomo Grasso nel suo testo Tra teologia e architettura. Lo studioso sottolinea il ruolo fondamentale dell’in- terdisciplinarietà, anche se a nostro avviso focalizza troppo l’attenzione sulle potenzialità intrinseche a una metodologia caratterizzata dall’interazione disciplinare a partire dagli elementi di similitudine. E’ pur vero che lo studioso mette in guardia il lettore dal rischio di semplificare eccessivamente il problema. Inoltre, illustra espli- citamente quali difficoltà si potrebbero incontrare nel momento in cui si volesse far convivere sullo stesso livello discipline diverse tra loro. Nono- stante ciò, lo studioso reputa improrogabile la necessità di proporre una interdisciplinarietà come da lui intesa ed illustra il suo personale modo di concepire la relazione tra Teologia e Architettura. G. GRASSO, Tra teologia e architettura. Analisi dei problemi soggiacenti all’edilizia per il culto, Borla, Roma