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Nel cercare di affrontare il suddetto tema architettonico, siamo partiti dall’analizzare quelle che reputiamo essere le caratteristiche fondamentali di un metodo applicato alla specifica dimensione tecnica che è propria all’architettura. La dissertazione esposta potrebbe sembrare avulsa dalla dimensione tattile che è propria a ogni ambito tecnico. Ma non lo è nel momento in cui ci si sforza di contestualizzare i concetti nel concreto e quotidiano operare, soprattutto in ragione del fatto che il metodo e le idee in sé sottese nascono dalla presente e tangibile dimensione della vita dell’uomo: si determina un profondo legame tra fatti e concetti, e i concetti non avrebbero ragione di esistere se non direttamente estrapolati dai fatti. Per questo motivo le argomentazioni logiche da noi esposte, che appartengono sicuramente a un territorio teoretico, parlano già della vita dell’uomo.

In particolare, nella nostra definizione di metodo, abbiamo voluto tener conto di un aspetto imprescindibile quando ci si riferisce alla odierna società. Tale aspetto è sottoin- teso nella parola crisi la quale, da un punto di vista filosofico, va interpretata secondo il suo significato originario di giudizio. «Di fronte alle sicurezze razionaliste, illuministe e neo-illuministe, positiviste e neo-positiviste, si è sviluppato un giudizio. Il giudizio, proprio perché tale, ha messo in crisi le sicurezze».18

La nostra vita è comunemente condizionata da questo giudizio critico nei confronti di atteggiamenti scientifici ed esistenziali appartenenti a un recente passato. Sulla base di esso le attuali scienze hanno impostato la loro ricerca e hanno sviluppato delle concet- tualizzazioni e anche nelle metodologie si è accettato come principio d’essere il concetto di crisi, tanto che non è inusuale sentir parlare di crisi del metodo. La nostra trattazione è la diretta conseguenza di questo particolare contesto e aspira, attraverso un atteggia- mento critico, a divenire un metodo costruttivo, il quale non vuole cadere negli atteggiamenti semplicistici del rifiuto e della reazione nostalgico-restaurativa. Esso, al contrario, assumendo i connotati di metodo debole, si pone operativamente in antitesi a quello che comunemente viene chiamato metodo forte.

Se solamente per un attimo ci fermassimo ad analizzare gli sviluppi più recenti della disciplina architettonica, non potremmo non notare come essa si sia costruita intorno a dei principi e a degli strumenti metodologici fortemente condizionati dallo spirito del funzionalismo e del positivismo. In tale contesto culturale l’elemento fondamentale di tutta la speculazione teorica e dell’attività pratica consisteva nell’inconfutabile certezza di veridicità intrinseca nei risultati raggiunti. Per esempio, la relazione diretta tra bisogni materiali quantificabili numericamente e strumenti a essi asserviti si costruiva intorno

al principio funzionale esattamente definito attraverso gli strumenti della matematica, dell’ingegneria e dell’economia. In questa rigida consequenzialità di causa ed effetto valutata sulla base di un’oggettivazione esasperata del problema c’era ben poco spazio per la discussione, a meno che essa non partiva da un punto di vista scientifico equiva- lente, il quale doveva comunque fondare le proprie ipotesi sul mero dato materiale verificabile oggettivamente. In questo senso il metodo dell’architettura moderna è in larga parte definibile come metodo forte, che pone come dati inconfutabili e assoluti sia le pre-determinazioni teoriche assunte come strumentazione sia i risultati raggiunti. Vale la pena ricordare alcune considerazioni proposte da uno dei più importanti archi- tetti del Movimento Moderno. Le Corbusier in ‘Vers une Architecture’, testo che si caratterizza per la definizione essenzialista dell’architettura basata su osservazioni di ordine razionale e meccanico, scrive:

«Bisogna cercare di fissare gli standard per affrontare il problema della perfezione. Il Parte- none è un prodotto di selezione applicato a uno standard stabilito [...] Lo standard viene stabilito a partire da basi certe non in modo arbitrario, con la sicurezza delle cose motivate e con una logica controllata dall’analisi e dalla sperimentazione. Tutti gli uomini hanno lo stesso organismo, le stesse funzioni. Tutti gli uomini hanno gli stessi bisogni [...] bisogni standard, che danno luogo a beni d’uso standardizzati [...] L’architettura opera su degli standard. Gli standard sono fatti di logica, di analisi, di studio scrupoloso».19E ancora più avanti: «Occorre creare lo spirito della produzione in serie, lo spirito di costruire case in serie, lo spirito di abitare case in serie, lo spirito di concepire case in serie. Se [...] si esamina la questione da un punto di vista critico e oggettivo, si arriverà alla casa-strumento, casa in serie, sana (anche moralmente) e bella dell’estetica degli strumenti di lavoro che accom- pagnano la nostra esistenza».20

In queste citazioni si percepisce in modo chiaro quanto noi abbiamo voluto preceden- temente esporre in modo sintetico. La base teorica e strumentale comune a ogni speculazione simile a quella di Le Corbusier si caratterizza per una consapevolezza inop- pugnabile dei propri strumenti, i quali, giustamente fondati sulla matematica e il rigore, lasciano poco spazio ai dubbi e alle critiche.

Partendo da questa rigida eredità culturale, la cultura contemporanea ha sentito il bisogno di appellarsi al concetto di crisi, soprattutto perché ci si è resi conto della «gravità del compito che gli si è attribuito (al metodo): quello di formalizzare i risultati quasi metafisici di una Ragione che si è posta come assoluta; la crisi aumenta se chi ne utilizza uno non è disposto a mettere in discussione, dal punto di vista scientifico, per revisionarli, i risultati raggiunti e se non si compie un esame, giudizio, della validità delle risposte progettuali».21

A tale visione del metodo, noi abbiamo voluto contrapporre una qualificazione volu- tamente snellita, sulla base della quale esso non si caratterizzerà più come percorso obbligato e obbligante. Per queste ragioni noi definiamo il nostro metodo debole, che si caratterizza per una volontaria rinuncia a ogni strumentazione o riflessione precostituita che esula dalla specificità del singolare; esso non vuole chiudersi verso gli stimoli prove- nienti da ciò che è esterno al proprio specifico ambito disciplinare, ma lascia spazio anche a ciò che rischia di mettere in crisi i propri risultati.

Si tratta in definitiva di un metodo che rifiuta ogni arroccamento difensivo all’interno della propria specificità disciplinare, poiché reputa importante considerare come dato del problema la possibilità di non riuscire in modo autonomo a proporre una soluzione completamente esaustiva.22Teniamo però a sottolineare che questa condizione operativa

non dovrà mai in alcun modo rinnegare i più sani e autentici fondamenti della meto- dologia. Essi sono quelli che Geymonat sintetizza in: «abito critico, esasperato amore del rigore, apertura verso ogni seria innovazione».23

4. la complementarietà tra il concetto di ‘molteplicità necessaria’ e il concetto