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A. P ERRET , Notre Dame du

2. la ricostruzione in italia: il confronto tra chiesa e politica

3.3 i significati dei progett

In sintesi, possiamo autenticamente interpretare le opere di architettura cultuale edifi- cate nell’immediato dopoguerra, non come eventi autoreferenziali, quanto piuttosto come il frutto di un complesso sistema di relazioni tra: le condizioni storiche e sociali; le caratteristiche definizioni culturali; l’attività degli enti ufficialmente preposti a essere punto di riferimento in materia; le indicazioni teoriche delle discipline interessate; la capacità o meno di riuscire a superare le ideologie troppo vincolanti del modernismo e di proporre un dialogo interdisciplinare; le particolari occasioni di confronto e di studio. Data la complessità del contesto di riferimento, nelle opere prodotte non è sempre agevole rintracciare una chiara consequenzialità tra principio e azione: la forma archi- tettonica diventa qualche cosa di ermetico che non lascia immediatamente trasparire i significati a essa connessi. Anche la storiografia ufficiale, nelle poche occasioni in cui si è soffermata sul tema, di fronte a tali difficoltà ha proposto analisi riduttive che non

riescono a coglierne l’autenticità e l’eloquenza. La soluzione potrebbe risultare più accessibile se si considerasse con l’attenzione dovuta la circolarità che, in riferimento a un predefinito arco temporale, lega tra di loro fatti storici, principi culturali e particolari opere architettoniche. Queste ultime, infatti, sarebbero spiegate con maggiore consa- pevolezza, poiché poste direttamente in relazione alle ragioni che ne garantiscono l’esistenza, ossia il patrimonio di conoscenze a carattere antropologico desumibile dai fatti della vita dell’uomo.

Questo è quello che finora abbiamo perseguito come nostro obiettivo attraverso il chia- rimento dei punti essenziali del progetto culturale complessivo sottointeso alle vicende che hanno caratterizzato il tema della chiesa-edificio. Adesso non resta che qualificare e spiegare gli esiti raggiunti dalle opere architettoniche effettivamente realizzate. Non ci soffermeremo molto sui singoli casi, anche perché per la loro descrizione esiste già un’amplia bibliografia in merito,24 diversamente cercheremo di proporre una concate-

nazione di principi interpretativi ad ampio spettro capaci di riflettere nel modo più veritiero possibile i valori contenuti nelle opere prodotte. In questo processo induttivo il punto di partenza sarà proprio il catalogo dei casi messi in mostra a Bologna nel 1955. A proposito dell’architettura sacra italiana riferibile all’epoca pre-conciliare qualcuno ha sottolineato, usando toni poco qualificanti, l’enorme divario esistente tra di essa e gli esempi realizzati in Germania, Francia, Olanda e Svizzera a partire dagli anni Venti. Si è sostenuto che le ragioni di questo vuoto sono da attribuire quasi esclusivamente alla poca influenza del Movimento Liturgico in Italia, dove le innovazioni da esso avan- zate hanno agito solo in ambito teorico e più limitatamente in seno alla pastorale. Conseguente nelle opere prodotte si evidenziano come rilevanti «i loro sforzi nella solu- zione dei problemi relativi all’inserimento ambientale, o nella ricerca di un linguaggio altisonante o nel definire lo spazio interno partendo da aspetti parziali della funzionalità, sopravvalutandoli rispetto ad altri. [...] Si ha l’impressione che si tenda ad evadere i veri problemi (quelli funzionali) che dovrebbero essere affrontati per primi per farne uscire l’architettura che, per sua natura, è risposta ad esigenze vitali e non vana ricerca di forme, fine a se stessa».25

Se nulla c’è da obiettare riguardo al dato iniziale, l’ininfluenza del Movimento Liturgico, altrettanto non può dirsi delle successive considerazioni avanzate per sostenere la tesi dell’inadeguatezza dell’architettura sacra italiana. Innanzi tutto perché il valore della funzionalità, se considerato nell’ambito dell’architettura per la liturgia, assume un’acce- zione molto più articolata rispetto al consueto, tale da poter sopravanzare il semplice dato distributivo e organizzativo. Non è semplicemente, come qualcuno invece ha detto,26la posizione dell’altare o quella dell’assemblea che possono costituire metro di

giudizio sulla qualità di una chiesa-edificio; in quest’ultima, al contrario, il mettersi a servizio della liturgia implica inevitabilmente la sua assunzione al ruolo di atto liturgico, essa cioè dovrebbe essere pensata sia come preghiera sia come simbolo che induca alla preghiera. D’altronde, se solo si confrontassero gli esempi più significativi dell’architet- tura cultuale tedesca del secondo dopoguerra con quelli dell’architettura italiana dello stesso periodo, ci si renderebbe conto che, sopratutto a livello planimetrico, le differenze non sono poi così sostanziali.

In secondo luogo, non ci sembra corretto interpretare la limitata influenza del Movi- mento Liturgico quale esclusivo esito di un generale disinteresse degli architetti italiani all’essenza del tema. Le ragioni sono altre, maggiormente articolate, ma in ogni caso riferibili più che a deficienze particolari a questioni storiche quali: la cesura a ogni livello operata dagli eventi della seconda guerra mondiale; la mancanza nell’Episcopato italiano di quella stessa unità che invece qualificava il suo equivalente tedesco, grazie al quale si poterono realizzare le opere di architettura sacra sicuramente più interessanti del periodo pre-conciliare; la difficoltà in Italia di riuscire a istituire un equilibrato clima di confronto tra architetti e teologi. In ogni caso, pur mancando la guida del Movimento Liturgico, in Italia le idee di rinnovamento sulla Sacra Liturgia vennero rappresentate in modo univoco dalla posizione ufficiale della Chiesa espressa nel 1947 attraverso l’En- ciclica ‘Mediator Dei’ di Papa Pio XII. Un testo importante che, come avremmo modo di sottolineare, rappresenta insieme alle vicende storiche e alle posizioni sociali e cultu- rali fin qui espresse la chiave di lettura di tutta l’architettura cultuale italiana edificata antecedentemente al Concilio Vaticano II.

Infine, anche se tra gli architetti italiani la sostanza concettuale del Movimento Liturgico non venne recepita integralmente, si può chiaramente osservare come loro nei propri progetti trassero, pur se superficialmente, ispirazione da quegli esempi di architettura cultuale costruiti oltralpe, direttamente e intimamente connessi al percorso di rinnova- mento liturgico sviluppatosi in Germania e Olanda. Le opere di Rudolf Schwarz, di Emil Steffann, di Dominikus Böhm e del figlio Gottfried testimoniano agli architetti italiani come sia possibile, una volta superati gli -ismi del Movimento Moderno, appli- care il linguaggio modernista anche al caso della chiesa-edificio. Nelle chiese progettate in Italia si assiste perciò a una progressiva riduzione dell’apparato decorativo, all’intro- duzione dell’uso del calcestruzzo nelle membrature portanti e nelle pareti sottili, all’esaltazione delle possibilità luministiche offerte dall’acciaio e dal vetro, all’applica- zione semplificata dei materiali della tradizione come l’intonaco, il laterizio o la pietra; alla sperimentazione di soluzioni spaziali inedite rese possibili dalle nuove tecnologie. Si colgono, quindi, solamente gli aspetti epidermici di quell’insieme di esperienze in

generale riferibili al Movimento Liturgico che, in ogni caso, permettono agli osservatori di capire come riuscire ad applicare la figuratività modernista senza per questo cadere nella banalizzazione meccanicista o razionale.

A partire da questa premessa sull’esperienza architettonica italiana per la liturgia, che cerca di fornire una chiave di lettura applicata a un contesto più ampio rispetto a quello nazionale, è ora necessario parlare di quelle che sono le idee generali poste a comune fondamento della maggior parte delle architetture realizzate. Confrontandole si avverte, a prescindere dai particolari esiti formali, un’unità nella definizione strutturale del progetto; struttura che dobbiamo intendere sulla base dell’interpretazione che ne dà Moretti, ovvero quella «che determina i rapporti di base e le connessioni delle forme, l’organizzazione dello spazio, della luce, ecc.».27

Essa è espressa dalla fissità di uno schema planimetrico ancora influenzato dalle forme della tradizione: pianta rettangolare con disposizione longitudinale dell’assemblea, o sue evoluzioni interpretative, e separazione tra l’area presbiteriale e quella dell’assemblea. Nonostante ciò, lo schema è composto in funzione di una tendenza alla chiarezza distri- butiva, conseguente a un approfondimento del senso teologico e simbolico delle azioni che si compiono nella chiesa. Ne nasce l’assegnazione di una precisa collocazione spaziale per ogni atto sacramentale e la ristrutturazione del presbiterio: al suo interno l’altare viene ruotato di 180 gradi per consentire la celebrazione verso il popolo. Purtroppo in molti casi permangono ancora elementi di contrasto come la presenza di altari secondari e la poca rilevanza scenica data all’altare principale.

Il rapporto tra luogo del Sacrificio e aula che, in modo più o meno accentuato, tende a qualificarsi attraverso la separazione delle parti, si concretizza sia nella differenziazione planimetrica e spaziale, dovuta alla presenza di una scarsella e di un alto tiburio all’in- terno dei quali è collocato il presbiterio, sia nella particolare accentuazione luministica che tende a evidenziare espressivamente l’area dell’altare. In quest’ultima peculiarità si può cogliere una certa tendenza generale a interpretare la chiesa-edificio come luogo del sacro, come dimensione autonoma che, grazie all’uso originale ed eloquente dell’unità spazio-luce, induca alla contemplazione spirituale e alla trascendenza. Un’idea che in molti casi si esprimerà anche nella maggiore complessità e articolazione delle coperture e delle chiusure perimetrali dello spazio liturgico.

Nell’ottica di un’interpretazione interdisciplinare e conseguentemente al particolare rapporto che in Italia si ha tra architettura e liturgia, nelle peculiarità evidenziate si perce- pisce la forte influenza esercitata dalle parole della ‘Mediator Dei’. Pio XII in questa enciclica accoglie e conferma gli esiti della ricerca perseguita dal Movimento Liturgico affermando che «La sacra Liturgia è pertanto il culto pubblico che il nostro Redentore

rende al Padre, come Capo della Chiesa, ed è il culto che la società dei fedeli rende al suo Capo e, per mezzo di Lui, all’Eterno Padre: è per dirla in breve, il culto integrale del Corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del Capo e delle sue membra». Si rivolge cioè una maggiore attenzione nei confronti della partecipazione dei fedeli ai misteri liturgici, cercando di renderli più comprensibili e affascinanti; l’assemblea diviene in comunione con il presbitero, ovvero il presidente dell’assemblea, il soggetto attivo attraverso il quale il culto può aver luogo. Una rivoluzione che, accentuando la dimensione comunitaria del popolo di Dio, giustifica gli interventi di riprogettazione dell’area presbiteriale e dei luoghi destinati alla celebrazione degli altri sacramenti come il battistero, il confessio- nale, la custodia eucaristica, la cappella feriale.

Ciò nonostante, nella stessa enciclica si leggono chiaramente alcuni distinguo che sembrano ricalibrare la portata del messaggio iniziale, soprattutto quando a proposito dell’organizzazione della Chiesa si dice che essa «è una società, ed esige, perciò, una sua propria autorità e gerarchia. Se tutte le membra del Corpo Mistico partecipano ai mede- simi beni e tendono ai medesimi fini, non tutte godono dello stesso potere e sono abilitate a compiere le medesime azioni», ovvero un’esplicita distinzione funzionale che si chiarisce ancor di più nell’idea di un sacerdote che

«fa le veci del popolo perché rappresenta la persona di Nostro Signore Gesù Cristo in quanto Egli è Capo di tutte le membra ed offrì se stesso per esse: perciò va all’altare come ministro di Cristo, a Lui inferiore, ma superiore al popolo. Il popolo, invece, non rappre- sentando per nessun motivo la persona del Divin Redentore, né essendo mediatore tra sé e Dio, non può in nessun modo godere di poteri sacerdotali».

Il Santo Padre, con queste parole, disegna una società di fedeli straordinariamente soli- dale nella propensione verso la salvezza collettiva ma, pur nella comunione, rigidamente organizzata in modo gerarchico a partire dall’autorità del Mediatore di Dio, Gesù Cristo, e della sua immagine in terra, il sacerdote, che nella loro correlazione sono posti in diverso modo a capo del popolo eletto. Un concetto che si pone esplicitamente a fonda- mento del modello progettuale in cui il presbiterio è, con soluzioni diverse, distinto dall’aula assembleare. In riferimento alla funzione dei fedeli nella partecipazione ai Sacri Misteri, infine, ogni ulteriore dubbio è fugato dall’idea che:

«il sacrificio è realmente consumato, ed esso ha sempre e dovunque, necessariamente e per la sua intrinseca natura, una funzione pubblica e sociale, in quanto l’offerente agisce in nome di Cristo e dei cristiani, dei quali il Divin Redentore è Capo, e l’offre a Dio per la